IVA indebitamente versata e rimborso diretto al cessionario/committente, i punti fermi della giurisprudenza
Fabrizio Pacchiarotti
Francesco Naio
27 Ottobre 2023
Il contributo ha ad oggetto il delicato tema del diritto del cessionario/committente di rivolgersi in via diretta all’Amministrazione Finanziaria per ottenere il rimborso dell’IVA indebitamente versata, in presenza di circostanze (generalmente legate all’insolvenza del partner commerciale) che rendano impossibile o particolarmente difficile la ripetizione per via civilistica. In simili condizioni, infatti, in conformità ai principi stabiliti dagli approdi giurisprudenziali sia interni che unionali, il principio di effettività può imporre che l’acquirente sia legittimato ad agire direttamente nei confronti delle autorità tributarie.
Il rimborso diretto dell'IVA indebitamente versata: la posizione del cessionario/committente
Le problematiche relative al rimborso diretto al cessionario/committente dell'IVA indebitamente versata costituiscono una tematica alquanto spinosa e non priva di complessità. Generalmente si sostiene, anche sulla scorta del fatto che l'art. 30-ter del d.P.R. n. 633/1972 focalizza l'attenzione sul solo cedente/prestatore, che la detrazione dell'IVA non dovuta sia preclusa all'acquirente finale, residuando in capo allo stesso unicamente lo strumento civilistico della ripetizione d'indebito presso il proprio fornitore (che abbia effettivamente versato l'imposta a monte) il quale, a sua volta, potrebbe esercitare il diritto di chiedere il rimborso all'Amministrazione finanziaria in virtù della titolarità del rapporto tributario.
Il meccanismo ora descritto presenta, oltre allo svantaggio di un elevato grado di farraginosità, alcuni non trascurabili profili di ordine pratico.
La prassi commerciale, infatti, conduce spesso su sentieri accidentati. Può verificarsi, come in effetti accade sovente, che l'acquirente che si rivolga al proprio fornitore in via privatistica per ottenere la restituzione di quanto indebitamente corrisposto all'Erario si veda opporre un rifiuto, solitamente motivato da una situazione di insolvenza del partner commerciale dovuta alle ragioni più varie (l'ipotesi più frequente è quella del fallimento).
In simili circostanze patologiche, l'ultimo anello della catena di scambi si imbatte spesso nel vicolo cieco dell'impossibilità di recuperare l'imposta non dovuta, non essendo in grado, da una parte, di ottenerne la restituzione sul piano privatistico e, dall'altra, non essendo legittimato alla detrazione (salvo il caso contemplato dall'art. 60, co. 6, d.P.R. n. 633/1972, relativo alla rivalsa sull'imposta oggetto di accertamento).
È tuttavia insostenibile, alla luce di un criterio di ragionevolezza e del principio unionale di neutralità, che il cessionario debba restare inciso in via definitiva per un'imposta invero non dovuta. Affinché possa configurarsi una soluzione in concreto adottabile in casi limite come quelli in esame, giova vagliare la postura assunta in materia dalla giurisprudenza, tanto eurounitaria quanto interna.
L'insegnamento della Corte di Giustizia UE
La Corte di Giustizia dell'Unione Europea si è pronunciata in più occasioni in merito alla possibilità, per il cessionario/committente, di rivolgersi direttamente all'Erario al fine di ottenere il rimborso dell'IVA indebitamente versata, dando vita a un filone interpretativo ultradecennale che annovera arresti fondamentali come la sentenza Reemtsma (C-35/05 del 15 marzo 2007).
Tale pronuncia seminale ha stabilito che, se è vero che i principi di neutralità, effettività e non discriminazione non ostano a una legislazione nazionale secondo cui soltanto il cedente/prestatore è legittimato a chiedere alle autorità tributarie il rimborso delle somme non dovute e tuttavia versate a titolo di IVA (residuando in capo all'acquirente finale unicamente il diritto di esercitare l'azione civilistica di ripetizione dell'indebito nei confronti del cedente/prestatore), è tuttavia altrettanto innegabile che, nel caso in cui il rimborso divenga impossibile o eccessivamente difficile (come nelle ipotesi di insolvenza sopra accennate), gli Stati membri devono prevedere, in ossequio al principio di effettività, gli strumenti necessari per consentire al destinatario ultimo dei beni o dei servizi il recupero dell'imposta indebitamente fatturata.
Alle medesime conclusioni è pervenuta la sentenza Farkas (C-564/2015), secondo cui i principi ora richiamati “esigono, tuttavia, a condizione che il rimborso, da parte del venditore all'acquirente, dell'imposta sul valore aggiunto indebitamente fatturata diventi impossibile o eccessivamente difficile, segnatamente in caso d'insolvenza del venditore, che l'acquirente sia legittimato ad agire per il rimborso direttamente nei confronti dell'autorità tributaria” (cfr. anche cause riunite C-660/16, Kollroß, e C-661/16, Wirti).
L'orientamento della Corte, ormai consolidato, stabilisce il dovere, per gli Stati membri, di prevedere gli strumenti necessari per consentire al committente/cessionario di recuperare l'IVA indebitamente corrisposta mediante azione diretta nei confronti dell'Erario finalizzata al rimborso, ove la ripetizione della stessa per via civilistica divenga impossibile o eccessivamente difficile: “segnatamente in caso d'insolvenza del prestatore” (Reemtsma, cit., § 4).
Tali conclusioni sono state recentemente ribadite nell'importante sentenza Schütte del 7 settembre 2023 (C-453/22) con cui la Corte ha precisato, inter alia e per quanto qui di interesse, che l'ipotesi di insolvenza del fornitore “è solo una delle circostanze in cui può essere impossibile o eccessivamente difficile ottenere il rimborso dell'IVA indebitamente fatturata e pagata”, aprendo (in maniera più esplicita rispetto al passato) alla possibilità di rimborso diretto anche ove manchi tale situazione patologica.
Tale puntualizzazione si è resa necessaria altresì in considerazione di quanto verificatosi nel caso oggetto del giudizio principale, in cui i fornitori, lungi dall'essere insolventi, avevano semplicemente opposto alla richiesta di restituzione avanzata dal cliente l'avvenuta prescrizione del diritto azionato. Il giudice del rinvio aveva pertanto ritenuto di sollevare una questione pregiudiziale relativamente alla possibilità, per il cessionario, di rivolgersi direttamente alle autorità tributarie nazionali al fine di ottenere il rimborso dell'IVA indebitamente versata con particolare riguardo al caso in cui i fornitori possono, astrattamente, procedere senza limiti temporali alla rettifica delle fatture erroneamente emesse e pretendere, a loro volta, la restituzione dell'imposta versata. La preoccupazione del giudice nazionale, infatti, era quella di sottrarre l'Erario al rischio di un duplice rimborso della medesima imposta, prima al cessionario, poi al cedente.
Rischio che i giudici europei hanno escluso recisamente, atteso che ove i fornitori, pur a seguito del rifiuto opposto in sede civilistica (e chiaramente manifestante la carenza di interesse a regolarizzare la situazione), provvedessero a rettificare le fatture e a presentare istanze di rimborso dell'eccedenza di imposta versata solo in un momento successivo alla restituzione dell'eccedenza stessa al cessionario, verrebbe senz'altro integrata una condotta abusiva, rivelatrice dell'intento di ottenere un vantaggio fiscale contrastante con il principio di neutralità.
L'acquirente, pertanto, in circostanze come quelle ora esaminate, ha il diritto di avanzare istanza di rimborso direttamente nei confronti dell'Amministrazione finanziaria (che peraltro, come precisato nella sentenza Schütte, è tenuta a corrispondere gli interessi di mora in caso di ritardo nell'erogazione). Chiaramente, tale possibilità sarebbe preclusa ove venissero accertate in capo al contribuente condotte fraudolente, abusive o negligenti.
La pronuncia Schütte è preziosa non solo perché si pone nel solco di un orientamento che si può ormai ritenere consolidato, ma ancor più nella misura in cui precisa che la sussistenza di profili di insolvenza del fornitore non inverano un presupposto necessario, bensì solo un'ipotesi tra tante riconducibili, in base alle circostanze concrete, caso per caso considerate, al perimetro dell'impossibilità o eccessiva difficoltà a ottenere il rimborso direttamente dal cedente/prestatore.
L'orientamento della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha, in più occasioni, adottato il principio sancito dalla CGUE, sia pur modulandolo con riferimento alla tipologia di rapporto intercorrente tra i soggetti coinvolti ed alla natura dei medesimi.
Secondo la Suprema Corte, infatti, il rapporto di natura privatistica intercorrente tra cedente/prestatore e cessionario/committente si configura ove quest'ultimo rivesta la posizione di “consumatore finale” quale soggetto definitivamente inciso dall'imposta. In caso contrario, riemerge il rapporto tributario (con conseguente legittimazione dell'acquirente finale ad agire nei confronti dell'Amministrazione) “tutte le volte in cui l'indebita IVA versata in rivalsa sull'acquisto di beni e servizi destinati all'esercizio della attività economica, venga a riflettersi sulla liquidazione della imposta nella dichiarazione annuale del contribuente, qualora il Fisco contesti, in tutto od in parte, la detrazione dell'IVA in rivalsa, in quanto relativa ad operazione esente od assoggettabile ad una aliquota inferiore di quella indicata erroneamente in fattura” (Cass. n. 17169/2015).
Si segnala anche la pronuncia n. 23288/2018, da cui si ricava il principio secondo cui, in materia di IVA, il cessionario non è legittimato a richiedere al fisco il rimborso dell'imposta di rivalsa che assuma esser stata assolta indebitamente, “a differenza del caso in cui l'iva indebitamente versata in rivalsa sull'acquisto di beni e servizi destinati all'esercizio dell'attività economica venga a riflettersi sulla liquidazione finale dell'imposta, determinando un'eccedenza rimborsabile”.
La pronuncia n. 17169/2015, poc'anzi richiamata, ha dunque ribadito il principio per cui il soggetto normalmente legittimato a chiedere il rimborso dell'IVA versata è il solo cedente/prestatore, atteso che la realizzazione di un'operazione imponibile determina il sorgere di una pluralità di rapporti variamente articolati:
tra Erario e cedente/prestatore, quale soggetto che versa l'imposta;
tra i soggetti direttamente coinvolti nell'operazione commerciale, in ordine alla rivalsa;
da ultimo, e in via eventuale, tra Erario e cessionario/committente in relazione alla detrazione dell'imposta assolta in via di rivalsa, nel solo caso in cui il contribuente abbia la qualifica di soggetto passivo IVA.
Da quanto appena argomentato deriva, come regola generale, che “solo il cedente ha titolo ad agire per il rimborso nei confronti dell'amministrazione, la quale, pertanto, essendo estranea al rapporto tra cedente e cessionario, non può essere tenuta a rimborsare direttamente a quest'ultimo quanto dallo stesso versato in via di rivalsa” (Cass., n. 6632/2003; id., n. 4020/2012).
In tal senso già nel 2008 le Sezioni Unite, con sentenza n. 20752, avevano statuito che “nell'ambito dei cessionari e dei committenti si debba operare una distinzione. Vi sono cioè committenti e cessionari che operano nella qualità di privati consumatori (così detti "consumatori finali"): essi sono i soggetti su cui di regola "si scarica" il peso dell'IVA (a meno che non acquistino beni o sevizi esenti da IVA) e vi sono committenti e acquirenti che operano nell'esercizio di una professione o di un'impresa, acquistando beni e servizi strumentali ai fini di tale esercizio. A questi ultimi [...] si applica un insieme di disposizioni che, ad avviso del Collegio, li qualificano come soggetti di imposta legittimati a introdurre avanti al Giudice tributario ogni controversia utile ai fini della determinazione degli obblighi e dei pesi che su di essi gravano. [...] Invero il cessionario o committente che acquisisce beni o servizi nell'esercizio di una impresa, è soggetto attivo nel rapporto IVA; come emerge almeno da due profili normativi che lo contraddistinguono e differenziano dal mero "consumatore finale". [...] Il soggetto in questione entra cioè nel gioco Iva non solo in quanto venditore bensì anche in quanto acquirente. E non sembra possibile escludere dalla sua (indiscussa) legittimazione ad agire nel processo tributario a tutela dei propri diritti in materia di IVA, alcuni specifici profili (nel caso di specie quelli inerenti alla applicabilità della imposta ad alcune prestazioni acquisite)” (conformi Cass. SS.UU. n. 355/2010; Cass. n. 9107/2009; id., n. 18425/2012).
Analogamente, “il cessionario che acquisisce beni nell'esercizio di un'impresa, a differenza del mero consumatore finale, è egli stesso un soggetto attivo nel rapporto IVA; e come tale può chiedere direttamente all'Erario il rimborso delle somme indebitamente versate (e ad esso Erario pervenute), promuovendo la conseguente controversia tributaria. È stato affermato, invero, che vi sono committenti e cessionari che operano nella qualità di privati consumatori (che rimangono incisi dall'imposta) e vi sono committenti e acquirenti che operano nell'esercizio di una professione o di un'impresa, acquistando beni e servizi strumentali ai fini di tale esercizio. A questi ultimi si applica un insieme di disposizioni che li qualificano come soggetti di imposta legittimati a introdurre avanti al giudice tributario ogni controversia utile ai fini della determinazione degli obblighi e dei pesi che su di essi gravano. Ciò in quanto l'operatore economico che versa l'IVA dovuta su beni e servizi acquistati ai fini dell'esercizio della sua attività, si inserisce in un complesso sistema di trasferimento "a cascata" dell'IVA che tendenzialmente mira a far si che l'IVA non incida sull'operatore stesso, ma si trasferisca sul consumatore finale. In questo quadro l'operatore economico è titolare di diritti e di pretese che godono di tutela avanti al Giudice tributario, e che hanno ad oggetto la corretta applicazione dell'imposta” (Cass. n. 24923/2016).
Secondo l'orientamento fin qui richiamato, pertanto, occorre distinguere, con riguardo al caso specifico, i rapporti che vengono concretamente in essere.
Nondimeno, in conformità alla giurisprudenza europea che stabilisce il dovere, per gli Stati membri, di prevedere strumenti e procedure necessari per consentire all'acquirente di recuperare l'imposta indebitamente fatturata, la sentenza n. 23288/2018 della Suprema Corte ha ribadito che “soltanto se il rimborso risulti impossibile o eccessivamente difficile, il principio di effettività può imporre che l'acquirente del bene in questione sia legittimato ad agire per il rimborso direttamente nei confronti delle autorità tributarie (come nel caso di fallimento del venditore)”.
Tale principio è stato invocato da numerose pronunce di legittimità (a titolo esemplificativo cfr. Cass. n. 19837/2023, n. 35830/2022, n. 22824/2020).
Si evidenzia che la recente sentenza n. 24777/2023 ha, tuttavia, puntualizzato che la restituzione “è condizionata alla salvezza del principio della neutralità dell'IVA e all'esclusione dell'eventualità di una perdita di gettito da parte dell'Erario, fatto che può verificarsi quando vi sia una non reversibile utilizzazione da parte del cessionario del credito derivante dalla rivalsa. Tale rischio è reso attuale dalla detrazione dell'imposta che il cessionario può agevolmente operare nella propria dichiarazione, anche se, secondo la regola generale, il diritto alla detrazione può essere esercitato solo per le imposte effettivamente dovute, vale a dire per le imposte corrispondenti ad un'operazione soggetta ad IVA o assolte in quanto dovute (Corte giust., 6 febbraio 2014, C-424/12, Fatorie, punto 39; Corte giust., 26 aprile 2017, C-564/15, Tibor Farkas, punto 47), mentre, come sopra osservato, l'IVA non dovuta non è detraibile (ex plurimis, Corte giust., Karageorgou e altri, cit.)”.
In conclusione
Intorno al tema del rimborso diretto al cessionario/committente dell’IVA indebitamente versata persistono ancora zone d’ombra, nonostante i numerosi arresti giurisprudenziali che, ora più ora meno coraggiosamente, si sono mossi nel perimetro dei principi sanciti dal diritto vivente europeo in tema di impossibilità o eccessiva difficoltà al recupero.
Come si è avuto modo di constatare, ad assumere particolare rilievo sono i profili di insolvenza del partner commerciale che, pur non esaurendo (come insegna la recente pronuncia Schütte della Corte di Giustizia UE) la casistica rientrante nel più ampio concetto di “impossibilità o eccessiva difficoltà”, rappresentano l’ipotesi decisamente più frequente nella prassi. A tal proposito occorre tenere presente che l’impossibilità o l’eccessiva difficoltà, nell’interpretazione giurisprudenziale sia interna che unionale, non sono di per sé ravvisabili per il fatto che la natura indebita del pagamento dell'imposta discenda dalla contrarietà di una norma nazionale ad una direttiva, ma sono sempre e comunque correlate alla situazione concreta del soggetto passivo (ad es. il fornitore fallito), e non già a quella del consumatore finale.
Non si può non rilevare, in ogni caso, come le significative aperture operate da numerose statuizioni in punto di impossibilità o eccessiva problematicità nel procedere al recupero dell’imposta non dovuta facciano ben sperare riguardo alla definitiva consacrazione di una prospettiva, in ultima analisi, decisamente garantista nei confronti dell’acquirente finale (o del committente, in caso di rapporti aventi ad oggetto prestazioni di servizi) che, a fronte dell’insolvenza del partner commerciale, si trovi suo malgrado nel limbo della non detraibilità dell’imposta non dovuta e, parimenti, dell’impossibilità della ripetizione per via civilistica, fatte ovviamente salve condotte fraudolente, abusive o negligenti.
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