Privacy, reputazione e crisi familiare

12 Agosto 2022

La prassi dei processi delle relazioni familiari registra spesso un conflitto fra il diritto alla riservatezza e alla reputazione delle parti e il diritto di difesa. In particolare, non è affatto raro che uno dei coniugi si procuri egli stesso elementi di prova utili alla propria posizione processuale all'interno della casa coniugale dove...
Inquadramento

La prassi dei processi delle relazioni familiari (es. separazioni, divorzi, scioglimento dell'unione civile o delle convivenze, modifiche, procedimenti regolativi, ablativi o limitativi della responsabilità genitoriale) registra spesso un conflitto fra il diritto alla riservatezza e alla reputazione delle parti e il diritto di difesa. In particolare, non è affatto raro che uno dei coniugi si procuri egli stesso elementi di prova utili alla propria posizione processuale all'interno della casa coniugale dove, per definizione, l'accesso ad informazioni riservate è particolarmente agevolato dalla convivenza e dall'assenza di barriere fisiche all'intromissione nella sfera riservata altrui. Così come non è raro che sovente il difensore corra il rischio di indicare, nei propri atti e su indicazione delle parti, fatti che, poi, all'esito del giudizio si rivelino non conformi al vero e che ledano la reputazione, l'onore o il decoro dell'altra parte.

L'operatore deve dunque orientarsi per bilanciare il rispetto della normativa penale con il doveroso esercizio del diritto di difesa. In particolare deve tenere presente:

a) la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) che, all'art. 8, garantisce ad ogni individuo il rispetto della vita privata e familiare (ivi compreso il rispetto del domicilio e della corrispondenza);

b) la normativa di cui al Regolamento generale per la protezione dei dati personali 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27.04.2016 (General Data Protection Regulation o GDPR), sulla raccolta, il trattamento e la diffusione dei c.d. dati personali;

c) D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, c.d. “Codice della privacy;

d) l'art. 615-bis c.p.che reprime le interferenze illecite nella vita privata

e) l'art. 615-ter c.p.che sanziona l'accesso abusivo a sistema informatico;

f) l'art. 616 c.p.che protegge la segretezza della corrispondenza;

g) gli artt. 617 e 617-bis che tutelano la segretezza delle conversazioni telefoniche;

h)l'art. 595 c.p.che tutela il bene della reputazione, da leggersi in uno con l'art. 598 c.p.(esimente del diritto di difesa).

Il diritto alla riservatezza

È bene ricordare che il diritto alla riservatezza, costituzionalmente garantito in quanto diritto fondamentale dell'individuo, non viene limitato né tanto meno escluso dai doveri di solidarietà derivanti dal matrimonio, dall'unione civile o da quelli inerenti la tutela dei minori e che a ciascuna parte spetta sempre il diritto di opporsi all'intrusione indebita di terzi (laddove per “terzo” si intende anche l'altro coniuge) nell'ambito della propria sfera personale.

Per questa ragione le modalità attraverso le quali le parti si procurano mezzi di prova da utilizzare devono essere oggetto di prudente valutazione allo scopo di accertare se esse integrino o meno gli estremi di un illecito penale.

Produrre in giudizio, infatti, una prova acquisita per mezzo della commissione di un reato rischia di esporre il soggetto che si è procurato la prova medesima alla sanzione penale per il reato commesso.

Diritto alla privacy e diritto alla prova in ambito giudiziario nel Regolamento generale per la protezione dei dati personali 2016/679

In linea di principio, la condotta della parte che impieghi (acquisisca, conservi, comunichi) dati personali dell'altra per tutelare un proprio diritto in giudizio è legittima e non punibile. L'impianto normativo infatti tende, in linea di principio, a privilegiare il diritto alla prova rispetto al diritto alla riservatezza, anche in mancanza di consenso da parte dell'interessato, quando il dato è necessario per far valere un diritto in giudizio.

Per quanto riguarda alcune categorie particolari di dati personali (quelli che nella previgente normativa erano identificati come dati “sensibili”, e oggi sono indicati come i dati «che rivelano l'origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l'appartenenza sindacale o … i dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all'orientamento sessuale della persona»), il GDPR – art. 9, paragrafo 1 - ne vieta in linea di principio il trattamento, salvo che ricorrano alcuni requisiti specifici, quelli cioè di cui ai paragrafi da 2 a 4 dell'art. 9 del Regolamento stesso. Tra questi, la lettera f) del paragrafo 2 prevede espressamente la liceità del trattamento «necessario per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali».

La norma non si riferisce espressamente ai dati personali diversi dai dati sensibili ma non avrebbe senso trattare i dati comuni con una disciplina più severa rispetto a quella prevista per i dati sensibili, tenuto conto peraltro che l'art. 6, paragrafo 1, lett. f) del GDPR riconosce la liceità del trattamento se esso è «necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell'interessato che richiedono la protezione dei dati personali, in particolare se l'interessato è un minore».

Chi agisce o si difende in giudizio per la tutela di un diritto sta sicuramente perseguendo un proprio “legittimo interesse” per come disciplinato dalla normativa europea, sicché il trattamento deve ritenersi lecito, anche in difetto del consenso dell'interessato (così come, del resto, prevedeva la disciplina previgente all'interno del cosiddetto Codice della Privacy – d.lgs. n. 196 del 2003, artt. 24 e 26), ai soli e limitati fini della prova in giudizio.

I casi di più grave violazione della disciplina sono sanzionati da una disposizione penale (art. 167 d.lgs. n. 196/2003, per come oggi modificato dal d.lgs. n. 101/2018) che, tuttavia, richiede quali elementi costitutivi del reato sia il dolo specifico di trarre per sé o per altri un vantaggio o di recare un danno, sia la circostanza concreta di avere causato un nocumento all'interessato (inteso, questo, come un pregiudizio giuridicamente rilevante di qualsiasi natura, patrimoniale o non patrimoniale, subito dal soggetto cui si riferiscono i dati protetti oppure da terzi quale conseguenza dell'illecito trattamento). È bene ricordare, a questo proposito, che la produzione in giudizio civile di documenti contenenti dati personali, ancorché effettuata al di fuori dei limiti del corretto esercizio del diritto di difesa, non integra il nocumento all'interessato che permette di configurare il reato di cui all'art. 167 del Codice della privacy in assenza di elementi fatturali oggettivamente indicativi di una effettiva lesione dell'interesse protetto, trattandosi di informazioni la cui cognizione è normalmente riservata ai soli soggetti professionalmente coinvolti nella vicenda processuale sui quali incombe un obbligo di riservatezza (cfr. Cass. pen., sez. III, 29 marzo 2019, n. 23808).

Il reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis c.p.)

Più complessa è la valutazione della rilevanza penale di eventuali violazioni del diritto alla riservatezza con riferimento alle fattispecie contenute nel codice penale.

Il delitto di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis c.p.) punisce l'uso di qualunque mezzo di riproduzione visiva o sonora (cioè di qualsivoglia strumento in grado di scattare una fotografia, registrare un video o una conversazione vocale), volto ad ottenere indebitamente immagini e/o notizie di terzi nei luoghi di “privata dimora”. Di tali notizie è vietata anche, come è ovvio, l'indebita rivelazione a terzi.

Secondo la formulazione letterale della norma, è tutelato il diritto alla riservatezza dell'interessato nei luoghi di “privata dimora”: sono quindi pacificamente esclusi i luoghi pubblici (strade, piazze, spiagge ecc.) nonché quelli aperti al pubblico come i ristoranti, i pubblici uffici, i bar o i negozi.

Cosa debba intendersi per “privata dimora” lo ha chiarito nel tempo l'interpretazione giurisprudenziale, che oggi identifica un luogo di privata dimora come ogni luogo ove l'interessato esplichi, anche solo temporaneamente, la propria sfera intima e privata. In altre parole, ogni luogo ove egli goda di uno jus excludendi nei confronti di tutti gli altri: la propria abitazione, ovviamente, ma anche lo studio professionale o una camera d'albergo per il tempo in cui egli vi dimora.

È bene ricordare, però, che la tutela del domicilio è limitata a ciò che si compie in luoghi di privata dimora in condizioni tali da renderlo non visibile ad estranei. Questo significa che se l'azione riprodotta, pur svolgendosi in luoghi di privata dimora, può essere liberamente osservata senza ricorrere a particolari accorgimenti – come avviene, ad esempio, nel caso di riprese audiovisive effettuate agevolmente da parte di condomini dell'edificio frontistante o prospiciente - il titolare del domicilio non può vantare alcuna pretesa al rispetto della riservatezza e il reato non si perfeziona (cfr. Cass. pen., sez. III, 8 gennaio 2019, n. 372).

Con riferimento specifico ai rapporti familiari costituisce principio oramai pacifico quello secondo il quale il reato di interferenze illecite si configura sempre nel caso di indebita registrazione, da parte di un coniuge, di conversazioni che, in ambito domestico, l'altro coniuge intrattenga con un terzo (cfr. Cass. pen., sez. V, 8 novembre 2006, n. 39827).

Il delitto punisce, dunque, la violazione della riservatezza domiciliare della persona offesa, essendo del tutto irrilevante la disponibilità di quel domicilio pure da parte dell'autore dell'indebita intercettazione come anche il rapporto di convivenza coniugale con la vittima.

Va detto però che le registrazioni, video e/o sonore, o anche di una conversazione telefonica, effettuata da uno dei partecipi al colloquio, o da persona autorizzata ad assistervi, devono ritenersi legittime. . Il reato non è dunque configurabile allorché l'autore della condotta condivida con i soggetti ripresi dagli strumenti di captazione visiva o sonora e con il loro consenso l'atto della vita privata (cfr. Cass. pen., sez. V, 5 luglio 2019, n. 46157, e ancora Cass. pen., sez. V, 14 maggio 2018, n. 36109).

È opportuna, infine, un'ultima annotazione con riferimento agli investigatori privati: agli occhi della legge penale, costoro – seppur muniti di apposita licenza rilasciata dal Prefetto secondo le norme del TULPS – soggiacciono a tutti i limiti che gravano sui cittadini comuni. Ciò che non è consentito a questi ultimi non è consentito neppure agli investigatori privati professionali, sicché le modalità con cui essi acquisiscono mezzi di prova dovranno essere valutate con lo stesso rigore applicato alle prove acquisite dalle parti personalmente (sull'applicabilità dell'art. 615-bis c.p. anche agli investigatori privati, la giurisprudenza è pacifica, cfr. Cass. pen., sez. V, 12 luglio 2012, n. 41021).

Accesso abusivo ad un sistema informatico (art. 615-ter c.p.)

L'art. 615-ter c.p. punisce il soggetto che si introduce abusivamente in un sistema informatico protetto da misure di sicurezza (banalmente, una password) ovvero vi si mantenga contro la volontà, espressa o tacita, del titolare dello jus excludendi.

La duplice articolazione del delitto all'interno del codice penale mostra come costituisca comportamento penalmente rilevante non solo quello del soggetto che si appropri abusivamente di una password riservata altrui e acceda allo strumento informatico altrui all'insaputa dell'interessato, ma integri gli estremi del reato anche la condotta di colui che abbia accesso legittimamente al sistema informatico altrui (perché, ad esempio, la password era stata a suo tempo condivisa, come spesso accade in ambito familiare) ma che poi vi si trattenga per finalità estranee a quelle per le quali gli era stata attribuita la facoltà di accesso (cfr. Cass. pen., S.U., 26 marzo 2015, n. 17325).

Ad esempio, la Corte di Cassazione ha dichiarato che la possibilità per il marito di accedere al conto corrente on line intestato alla coniuge e di porre in essere operazioni viene meno qualora la stessa abbia revocato al consorte la delega per le suddette operazioni, con la conseguenza che tale attività, se posta in essere, configura il delitto di cui all'art. 615-ter c.p.

In casi siffatti l'accesso al sistema informatico altrui non è scriminato neppure dall'esercizio del diritto di difesa nel caso in cui il reo assuma di aver violato la norma penale al solo scopo di ottenere informazioni utili alla propria difesa in giudizio (civile o penale). Il diritto di difesa, infatti, per opinione oggi pacifica della giurisprudenza di legittimità, non può realizzarsi con intromissioni non autorizzate nella sfera giuridica della controparte o di altro soggetto processuale (cfr. Cass. pen., sez. V, 21 dicembre 2017, n. 14627).

La parte che dovesse, quindi, accedere abusivamente al sistema informatico dell'altro coniuge allo scopo di acquisire informazioni utili alla propria difesa nel procedimento “familiare” non potrà dunque invocare, ove chiamato a rispondere della sua condotta in sede penale, la scriminante dell'esercizio di un diritto (art. 51 c.p.).

Allo stesso modo, integra il delitto di accesso abusivo al sistema informatico la condotta di colui che si introduca, mediante uso di “password” modificate e contro la volontà del titolare, nel c.d. “cassetto fiscale” altrui, spazio virtuale del sistema informatico dell'Agenzia delle Entrate di pertinenza esclusiva del contribuente (cfr. Cass. pen., sez. V, 15 febbraio 2021, n. 15899).

Se poi, come spesso accade, l'accesso alla strumento informatico altrui è finalizzato a prendere cognizione di corrispondenza privata del coniuge, il delitto di cui all'art. 615-ter c.p.concorre con il reato di violazione di corrispondenza, punito a sua volta dall'art. 616 c.p. (cfr. Cass. pen., sez. V, 25 marzo 2019, n. 18284).

Il delitto di violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza (art. 616 c.p.)

È fuor di dubbio che nessuno possa legittimamente controllare, prendere conoscenza o divulgare i contenuti delle comunicazioni inviate o ricevute dai familiari.

La libertà e la segretezza della corrispondenza vengono espressamente qualificate dall'art. 15 Cost. come diritti inviolabili dell'uomo, sicché è chiaro che nessuna deroga può esservi al di fuori dei casi previsti dalla legge. La corrispondenza deve ritenersi tutelata in sé, perché essa stessa è segreta per espressa previsione di legge, a prescindere dalla segretezza o meno del suo contenuto, sicché deve ritenersi inibito al coniuge di prendere visione della corrispondenza indirizzata all'altro, senza il consenso espresso o tacito di quest'ultimo, anche se in ipotesi il contenuto della corrispondenza non sia un segreto per lui.

L'art. 616 c.p. costituisce, per l'appunto, la norma penale posta a presidio dei valori costituzionali sopra evidenziati e prevede due distinte condotte: la presa di conoscenza di corrispondenza chiusa e la rivelazione, senza giusta causa, di corrispondenza altrui (sia chiusa che aperta). Sotto questo profilo, devono ritenersi persone offese del reato di cui all'art. 616 c.p. sia il mittente che il destinatario della posta “violata”.

Con riferimento alla prima delle fattispecie descritte dalla norma incriminatrice (ovvero la presa di cognizione di corrispondenza altrui), deve trattarsi di corrispondenza qualificabile come “chiusa”; deve risultare evidente cioè la volontà del mittente (o del destinatario) che quel messaggio resti visibile solo per quest'ultimo (non solo una busta fisicamente chiusa, ma – come oggi frequentemente può accadere – anche un messaggio di posta elettronica su un indirizzo protetto da password, la chat di whatsapp su un telefonino protetto da pin ecc. cfr. Cass. pen., sez. V, 11 dicembre 2007, n. 47096).

Ben più restrittiva è la disposizione contenuta al secondo comma dell'art. 616 c.p. che vieta di rivelare il contenuto della corrispondenza altrui, senza distinguere tra corrispondenza chiusa o aperta, a meno che non si sia in presenza di una “giusta causa”. È questa, con ogni evidenza, la fattispecie di reato che potrebbe venire in gioco allorquando si decida di produrre nel giudizio civile la corrispondenza indirizzata (o inviata) al coniuge, perché è chiaro che la produzione in giudizio costituisce senz'altro “rivelazione” penalmente rilevante secondo il disposto dell'art. 616 c.p.

Il tema ruota allora intorno all'identificazione dei corretti confini di siffatta “giusta causa”, che sola può privare di rilevanza penale la condotta contestata.

Per molti anni l'orientamento della Corte di Cassazione penale è stato nel senso di ritenere non punibile il coniuge che nell'ambito del giudizio di separazione produca corrispondenza inviata all'altro coniuge, non potendosi pretendere che un soggetto sia posto nell'alternativa di non poter tutelare un proprio legittimo interesse o di commettere un delitto mediante la violazione del segreto epistolare.

Tale principio è stato, in realtà, ribaltato dalla giurisprudenza più recente che oggi concordemente assume che la nozione di “giusta causa” di cui all'art. 616 c.p. presuppone che la produzione in giudizio della corrispondenza altrui sia l'unico mezzo a disposizione per contestare le richieste della controparte, e che di questa “unicità” l'interessato deve dare prova. In particolare, nei casi in cui un diligente impiego degli strumenti offerti dal codice di rito civile (art. 210 c.p.c.) consenta di ottenere il medesimo risultato, deve ritenersi sempre penalmente sanzionabile la violazione dell'altrui corrispondenza.

Il principio generale non risulta invero intaccato neppure dalla recente giurisprudenza che ha escluso il delitto di violazione di corrispondenza per quel marito che, usando il programma informatico keyblogger installato sul computer anni prima di comune accordo con la moglie per controllare la figlia minorenne, aveva poi intercettato la corrispondenza elettronica della coniuge per produrla nel giudizio di separazione (cfr. Cass. pen., sez. V, 29 settembre 2020, n. 30735). In quel caso, infatti, la Corte ha escluso la sussistenza del reato non perché ha riconosciuto la sussistenza di una “giusta causa” che avrebbe legittimato la produzione in giudizio bensì per una ragione squisitamente tecnica. Nel caso di specie il programma keyblogger entrava in funzione quando la moglie si connetteva a internet riprendendo e filmando i contenuti dei messaggi di posta elettronica che venivano inviati dal computer dell'imputato, che poteva visionarli in diretta. Non si trattava, quindi, nella valutazione della Corte, di una “corrispondenza” in senso tecnico – intesa quest'ultima come pensiero già comunicato fissato su un supporto fisico o altrimenti rappresentato in forma materiale – bensì di una comunicazione “in trasmissione”. Ragione per la quale l'art. 616 c.p. non può trovare applicazione.

Con particolare riferimento poi alla documentazione inerente eventuali rapporti di natura finanziaria, il divieto di sottrazione (e utilizzo) della corrispondenza indirizzata all'altra parte, deve intendersi rafforzato a seguito del consolidamento dell'indirizzo giurisprudenziale che concede alla parte il diritto di visionare i risultati dell'Anagrafe dei rapporti finanziari, mediante istanza da rivolgersi all'Agenzia delle Entrate (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 13 giugno 2019, n. 5345 e 5347).

Orientamenti a confronto: nozione di “giusta causa” nell'art. 616 c.p.

La produzione processuale di documenti ottenuti illecitamente non può ritenersi scriminata dalla presenza di una “giusta causa”

Cass. pen., sez. V, 4 ottobre 2013, n. 585; Cass. pen., sez. V, 29 marzo 2011, n. 35383.

La produzione processuale di documenti ottenuti illecitamente può ritenersi scriminata dalla presenza di una “giusta causa”

Cass. pen., sez. V, 10 luglio 1997, n. 8838

I delitti concernenti le conversazioni telefoniche, nonché le comunicazioni informatiche o telematiche (artt. 617 e 617-bis, 617-quater, 617-quinquies c.p.)

Per quanto riguarda la tutela della riservatezza nelle comunicazioni telefoniche, il codice penale contiene due norme diverse riferite a fattispecie differenti: l'art. 617 (cognizione illecita di comunicazioni telefoniche) e l'art. 617-bis (installazione di apparecchiature atte ad intercettare comunicazioni telefoniche). Si tratta di due fattispecie distinte, sanzionando la prima la condotta di chi prende conoscenza – fraudolentemente – e/o rivela il contenuto di comunicazioni inter alios, mentre la seconda disposizione punisce colui che predispone strumenti atti a intercettare conversazioni altrui. Ciò anche a prescindere dalla effettiva ricezione delle altrui comunicazioni.

Il reato può essere commesso solo da soggetto diverso rispetto a chi fa o riceve la telefonata, giacché tecnicamente l'intercettazione telefonica è solo quella non diretta a colui che registra o ne prende cognizione, ma solo quella che consente la registrazione o la presa di cognizione di una conversazione tra altre persone.

Sotto questo profilo, in tema di rapporti tra coniugi, ancor prima della riforma del diritto di famiglia (figurarsi oggi), si affermava l'inesistenza di uno ius corrigendi, neppure implicito, in capo al marito nei confronti della moglie, né il diritto di controllare fraudolentemente le telefonate e la corrispondenza della moglie, pur se tale attività sia stata ispirata dal fine di accertare la sospetta infedeltà (cfr. Cass. pen., sez. V, 24 maggio 1974, 128399).

Non configura però il reato di rivelazione, mediante mezzi di informazione al pubblico, del contenuto di una conversazione telefonica fraudolentemente intercettata (art. 617, comma 2, c.p.) la condotta di chi produce, in un giudizio di separazione tra coniugi, la registrazione e trascrizione di detta conversazione (cfr. Cass. pen., sez. V, 30 gennaio 2018, n. 11965). La produzione in giudizio, infatti, non è idonea a rivelare il contenuto della conversazione nei confronti della generalità dei terzi, come richiesto dal secondo comma dell'art. 617 c.p.

Parallelamente, con riferimento alle comunicazioni informatiche o telematiche, gli artt. 617-quater e 617-quinquies puniscono rispettivamente la fraudolenta intercettazione di comunicazioni relative ad un sistema informatico o telematico e l'installazione di apparecchiature atte ad intercettare, impedire o interrompere comunicazioni relative ad un sistema informatico o telematico.

L'esimente del diritto di difesa e il rispetto della reputazione

Un'ultima riflessione si impone con riferimento alle possibili interferenze tra l'esercizio del diritto di difesa in giudizio e il diritto alla reputazione delle controparti, tutelato dall'art. 595 c.p. in tema di diffamazione.

L'art. 598 c.p. introduce una particolare causa di non punibilità per le offese contenute negli scritti e nei discorsi pronunciati dinanzi alle autorità giudiziarie e amministrative.

L'operatività di tale esimente è condizionata alla sussistenza di precisi limiti sia oggettivi che soggettivi: essa è innanzitutto riservata alle parti e ai rispettivi patrocinatori (non potranno giovarsene, quindi, altri soggetti eventualmente coinvolti nel procedimento come i consulenti, i testimoni, i periti, gli interpreti).

È altresì necessario che le offese siano pertinenti all'oggetto della causa, riferendosi in concreto ai fatti che hanno dato luogo alla controversia.

Secondo l'interpretazione costante della giurisprudenza di legittimità, non è invece richiesto che le offese corrispondano a verità. Con la doverosa precisazione, tuttavia, che ove le offese stesse si estrinsechino nell'accusa rivolta a taluno di un reato sapendolo innocente, in questo caso la condotta della parte (o del suo difensore) è tale da integrare gli estremi del reato di calunnia e, come tale, perseguibile a norma dell'art. 368 c.p., restando irrilevante la circostanza di aver agito nell'espletamento di una condotta difensiva (cfr. Cass. pen., sez. V, 24 giugno 2014, n. 32053).

Casistica

Interferenze illecite nella vita privata

Risarcimento del danno non patrimoniale

La realizzazione di fotografie all'interno di luoghi di privata dimora con mezzi tecnici invasivi, tali da superare gli ostacoli alla visibilità, integra una condotta punibile ai sensi dell'art. 615-bis c.p., cui conseguono l'illiceità del trattamento dei dati acquisiti e l'obbligo del responsabile di risarcire il danno non patrimoniale connesso al pregiudizio dell'inviolabilità del domicilio (Cass. civ., sez. I, 22 luglio 2014, n. 16647)

Produzione processuale di corrispondenza abusivamente sottratta

Integra il reato di violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza (art. 616 c.p.) la condotta di colui che sottragga la corrispondenza bancaria inviata al coniuge per produrla nel giudizio civile di separazione; né, in tal caso, sussiste la giusta causa di cui all'art. 616, comma 2, c.p., la quale presuppone che la produzione in giudizio della documentazione bancaria sia l'unico mezzo a disposizione per contestare le richieste del coniuge-controparte (Cass. pen., sez. V, 4 ottobre 2013, n. 585)

Violazione di corrispondenza e tutela del domicilio informatico

Nel caso di accesso abusivo ad una casella di posta elettronica protetta da “password”, è configurabile il delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico che concorre con quello di violazione di corrispondenza, in relazione all'acquisizione del contenuto delle mail custodite nell'archivio, e con il delitto di danneggiamento di dati informatici, nel caso in cui all'abusiva modificazione delle credenziali d'accesso consegua l'inutilizzabilità della casella di posta da parte del titolare (cfr. Cass. pen., sez. V, 25 marzo 2019, n. 18284)

Illecita cognizione di conversazioni telefoniche tra familiari

Risponde del reato di cui all'art. 617, comma 1, c.p. il padre che registra clandestinamente le conversazioni telefoniche intervenute tra la moglie separata e i figli minori della coppia, i quali possono opporre ai genitori una propria sfera di riservatezza, non essendo idonea ad escludere la fraudolenza della condotta la circostanza che l'imputato avesse comunicato al coniuge l'intenzione di agire in tal senso, né potendosi invocare come causa di giustificazione il diritto/dovere del genitore di vigilare sulle comunicazioni effettuate o ricevute dai figli minori (Cass. pen., sez. V, 17 luglio 2014, n. 41192)

Installazione di apparecchiature idonee ad intercettare le conversazioni telefoniche altrui all'interno di un'autovettura

L'occulta collocazione all'interno di un'autovettura di un telefono cellulare in grado di intercettare le conversazioni intercorse tra le persone a bordo non integra il reato di installazione d'apparecchiature atte ad intercettare o impedire comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche (art. 617-bis c.p.), non essendo in grado il congegno di captare le conversazioni di entrambi gli utilizzatori del telefono, né quello d'interferenze illecite nella vita privata (art. 615- bis c.p.), non essendo qualificabile l'autovettura come luogo di privata dimora (Cass. pen., sez. V, 23 ottobre 2008, n. 4926)

Sommario