Vincolo di destinazioneFonte: Cod. Civ. Articolo 2645 ter
23 Agosto 2022
Inquadramento
Con l'art. 39-novies d.l. 30 dicembre 2005, n. 273 (convertito in Legge 23 febbraio 2006, n. 51) si è introdotto all'interno del Titolo Primo del Libro Sesto del Codice Civile l'art. 2645-ter c.c., rubricato «Trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche». Fin dalla titolazione si possono trarre diverse considerazioni: anzitutto la fattispecie è stata inserita nell'ambito della normativa sulla pubblicità immobiliare, e non tra i contratti tipici; inoltre si parla di “atti di destinazione”, categoria prima non codificata e disciplinata; infine assume ruolo centrale l'interesse sotteso alla destinazione, qualificato come “meritevole”. L'istituto è stato oggetto di profonde riflessioni, a partire dal suo rapporto con i trust e con il principio di responsabilità patrimoniale generica di cui all'art. 2740 c.c.. Anche la giurisprudenza ha preso in esame ripetutamente il nuovo articolo, assumendo, come si vedrà, orientamenti ondivaghi e a volte fortemente contrastanti.
Sintetizzando le conclusioni allo stato più consolidate, si può affermare quanto segue:
Natura giuridica
La collocazione della norma, cui si è già accennato, è stata fonte di forti divergenze tra dottrina e giurisprudenza. La tesi assolutamente prevalente in letteratura afferma che, nonostante la novella sia dettata in tema di trascrizione, il legislatore abbia indirettamente introdotto una norma sulla fattispecie, per quanto incompleta nella sua disciplina (ex multis Gazzoni F., Osservazioni sull'art. 2645-ter, in Giust. Civ., 2006, 165 ss.). Resta discusso se la causa di destinazione fosse già ammessa nel nostro ordinamento (l'art. 2645-ter c.c. sarebbe allora una mera conferma di principio e una facoltà di pubblicizzare il vincolo) o se la tassatività imposta ex art. 2740 comma 2 c.c. alle ipotesi di segregazione avesse impedito, prima della modifica normativa, atti atipici di destinazione. Entrambi gli orientamenti riconoscono però pacificamente la validità dell'atto con il quale il disponente vincola un proprio bene per la realizzazione di scopi meritevoli di tutela, senza che altro occorra, essendo ciò espressamente ammesso dalla norma in esame. La giurisprudenza di merito si è invece presto divisa. Una corrente interpretativa ha suffragato le opinioni della dottrina: occupandosi di aspetti ulteriori, ha dato per assunta la validità di un atto di destinazione non traslativo e autonomo (da alcuni definito “puro” ed “autoimpresso”). Altra tesi, prevalente nella giurisprudenza di merito più recente (da ultimi Trib. Reggio Emilia 12 maggio 2014); Tribunale Reggio Emilia sez. II, 10 marzo 2015, n. 399, ha invece affermato che l'art. 2645-ter c.c. non configurerebbe una norma “sugli atti”, bensì solo “sugli effetti”. Ciò si desumerebbe dalla sua collocazione nel Titolo del codice in tema di trascrizione (dove non si prevedono tipi negoziali, ma si regolano gli effetti e la pubblicità di strumenti giuridici già recepiti). Questa tesi giurisprudenziale è fondata poi sul principio di responsabilità patrimoniale generica del debitore: secondo queste pronunce, ammettendo un negozio destinatorio “puro”, si darebbe ingresso nel nostro ordinamento ad ipotesi atipiche di limitazione della responsabilità patrimoniale, in aperto contrasto con il disposto dell'art. 2740 comma 2 c.c.. Ulteriore spunto a sostegno della tesi negativa (in Trib. Reggio Emilia 22 giugno 2012) è l'utilizzo, nella norma, del termine “conferente” che dimostrerebbe la necessità di un trasferimento di proprietà dal disponente ad un terzo (c.d. attuatore). L'opinione restrittiva, superata anche da tre recentissime ordinanze della Corte di Cassazione (infra citate), è da respingere. Si è giustamente osservato che il requisito della meritevolezza dell'interesse, espresso dall'art. 2645-ter c.c., giustifica la segregazione che ne è effetto e non urta bensì rafforza il principio di tipicità delle forme di limitazione alla responsabilità patrimoniale. Ulteriormente, dall'uso del termine “conferente” secondo l'opinione migliore discende la facoltà, ma non la necessità, che il vincolo sia traslativo dei diritti che ne formano oggetto. L'art. 2645-ter c.c. è da interpretarsi, in conclusione, come norma “sugli atti”, o “sulla fattispecie”.
Orientamenti a confronto
Si può dunque affermare che il vincolo di destinazione può essere auto-impresso dal costituente, oppure può prevedere la cessione della titolarità dei beni ad un soggetto terzo, che assume il compito di attuare la finalità imposta. Nel caso in cui il vincolo sia traslativo, certamente occorrerà la partecipazione all'atto del disponente e dell'attuatore (che acquista la proprietà del bene già funzionalizzata allo scopo attraverso il vincolo). È invece dubbio se sia richiesto l'intervento in atto del beneficiario della destinazione (tanto per il vincolo statico quanto per il vincolo traslativo). La tesi più diffusa nella prassi è prudente: l'accettazione del beneficiario chiude la fattispecie, la quale altrimenti rimarrebbe sospesa anche sotto il profilo della trascrizione. Sarebbe sempre possibile per il beneficiario non partecipante rifiutare la destinazione, così ponendo nel nulla i suoi effetti: invito beneficium non datur (sul punto cfr. Gazzoni F., op. cit., 172, per la tipicità delle promesse unilaterali). La tesi preferibile, sposata anche da Cass. sez. III, 13 febbraio 2020, n. 3697 (che ha definito il negozio destinatorio non accompagnato da effetti traslativi come “atto semplice di destinazione”)afferma che la norma introdotta all'art. 2645-ter c.c. ha struttura unilaterale: non si può trarre da alcun riferimento normativo l'esigenza dell'intervento in atto del beneficiario. Si potrebbe dunque trattare non di un contratto ma di un negozio unilaterale (artt. 1324 e 1334 c.c.). Ancor più correttamente parte della dottrina (Gabrielli G., Vincoli di destinazione importanti separazione patrimoniale e pubblicità nei registri immobiliari, in Riv. dir. civ., 2007, 321) afferma la riconducibilità del vincolo di destinazione all'istituto del contratto con obbligazioni del solo proponente (art. 1333 c.c.): il contratto si conclude e l'effetto destinatorio si produce dopo il decorso di un termine concesso al beneficiario per esprimere il suo rifiuto. Aderendo a tale ultima teoria nulla toglie che il beneficiario possa comparire in atto e prestare la sua accettazione espressamente. Si rileva poi come, di recente, una pronuncia di merito (App. Roma sez. III, 02 maggio 2019, n. 2838) abbia negato l'ammissibilità di una costituzione testamentaria del vincolo di destinazione, argomentando dal dato testuale dell'art. 2645-ter c.c. che, non solo non fa alcun riferimento alla fonte testamentaria, ma nel richiamare l'autonomia contrattuale di cui all'art. 1322 comma 2 c.c. escluderebbe dal campo di applicazione i negozi mortis causa. Strettamente connesso al tema della struttura è il problema della causa: si è detto che per l'opinione prevalente l'atto è sorretto da un'autonoma causa di destinazione. Si tratta quindi, di regola, di un atto gratuito che non configura una donazione, ma eventualmente solo una liberalità indiretta (art. 809 c.c.). Nulla toglie però che nel caso concreto il vincolo possa avere anche struttura onerosa (il beneficiario o un terzo pagano il disponente affinché vincoli il suo bene ad un certo scopo). Ulteriormente il vincolo può avere causa solvendi (costituendo ad esempio una datio in solutum ex art. 1197 c.c.). La norma prevede che l'atto destinatorio abbia forma pubblica: in tal modo può essere trascritto e reso opponibile ai terzi. Ci si deve chiedere anzitutto quale sia la sanzione da ricondursi al mancato rispetto del requisito di forma: secondo alcuni il vincolo di destinazione costituito per scrittura privata sarebbe nullo tout court poiché la forma pubblica sarebbe da considerarsi essenziale ad validitatem (Gazzoni F., op. cit., 173). Altra parte della dottrina, che si condivide, afferma che il vincolo in tal caso non sarebbe invalido, ma sarebbe inopponibile ai creditori: la norma sembra dimostrare che la forma e la trascrizione sono dirette a rendere opponibile ai terzi la destinazione (Bianca M., D'errico M., De Donato A.,Priore C., L'atto notarile di destinazione, Milano, 2006, 35). Non è necessario l'intervento dei testimoni nell'atto pubblico, a meno che l'atto non sia connesso ad altri negozi che li richiedono (ad esempio una donazione o ad una convenzione matrimoniale). Ulteriormente, la norma prevede una durata massima al vincolo: si ammette una prolungata compressione delle facoltà proprietarie proprio in ragione dell'interesse meritevole di tutela sotteso al vincolo, ma da sempre l'ordinamento ripugna limitazioni indeterminate alla proprietà. Pertanto la durata dev'essere alternamente contenuta: a) entro novant'anni dall'atto oppure b) non oltre la durata della vita della persona fisica beneficiaria. Si ritiene pertanto che se il beneficiario è persona fisica si possa stabilire un termine di durata diverso (ad esempio, settant'anni): il vincolo comunque cesserà di produrre effetti con la morte del beneficiario se questa si verifica prima del decorso del termine. Il beneficiario può essere una persona giuridica, e in tal caso sarà necessaria l'indicazione di una durata non superiore a novant'anni. Interesse meritevole di tutela
La norma prevede che i beni vincolati ex art. 2645-ter c.c. devono essere destinati alla realizzazione di «interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell'art. 1322 comma 2 c.c.». Il legislatore ha voluto tipizzare due ipotesi di destinazione certamente meritevoli e idonee: persone disabili e pubbliche amministrazioni. Ad ulteriore rafforzamento di questo fine di tutela delle persone affette da grave disabilità l'art. 6 l. 22 giugno 2016 n. 112 (c.d. “Dopo di Noi”) ha previsto particolari benefici, soprattutto di natura fiscale, per i trust e i vincoli di destinazione istituiti ad esclusivo beneficio di persone con disabilità grave: esenzione dalle imposte di donazione e successione e dall'imposta di bollo, applicazione della sola imposta fissa di registro, ipotecaria e catastale. Per ottenere tali benefici il negozio di destinazione deve perseguire «come finalità esclusiva l'inclusione sociale, la cura e l'assistenza delle persone con disabilità grave, in favore delle quali sono istituiti.» Oltre ad avere quale beneficiario esclusivo una persona affetta da disabilità, e durata pari alla vita della stessa, sono previsti svariati ulteriori requisiti stringenti in materia di forma (atto pubblico, anche per i trust), controlli e rendicontazione dell'operato dei gestori. La norma dell'art. 2645-ter c.c. ha però anche previsto ampi spazi all'autonomia privata nella determinazione di possibili ulteriori scopi e utilizzi dell'istituto. Argine dell'autonomia contrattuale in questa sede è proprio la definizione di «interessi meritevoli di tutela»: cosa intende il legislatore facendo richiamo all'art. 1322 comma 2 c.c.? La dottrina ha assunto posizioni diverse, che si possono così ripercorrere. Alcuni autori hanno criticato il concetto di “meritevolezza”, affermando che si tratta di un residuato del regime corporativo e che in nessun modo, nell'attuale ordinamento, esso può distinguersi dalla nozione di liceità (in tema di contratto atipico si è pronunciata in tal senso Cass., sez. I, 13 maggio 1980, n. 3142). L'interesse che non sia contrario a norme imperative, ordine pubblico e buon costume sarebbe sempre meritevole, in quanto (meramente) lecito (sul punto Dicillo R., Atti e vincoli di destinazione, in Dig. Disc. Priv. Agg., Torino, 2007). Seguendo tale opinione si dovrebbe concludere che ogni interesse lecito, ancorché egoistico e personale, possa legittimamente fondare un vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c.. La tesi opposta afferma che il legislatore ha utilizzato il richiamo alla meritevolezza perché ha voluto richiedere un quid pluris rispetto alla mera liceità del negozio. Non è però univoco in cosa consti la differenza: a) alcuni hanno sostenuto che la meritevolezza consisterebbe in una finalità di pubblica utilità, al pari degli scopi già tipizzati dalla legge e dalla costituzione (Gazzoni F., op. cit.); b) altri hanno letto nella meritevolezza un richiamo al principio di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost.: sarebbe pertanto escluso ogni interesse privato e patrimoniale (Trimarchi G.A.M., Negozio di destinazione nell'ambito familiare e nella famiglia di fatto, in Notariato, 2009, 441); c) la tesi più diffusa afferma che è meritevole l'interesse, anche collettivo o individuale e non sovraordinato, che non abbia carattere egoistico o meramente economico-patrimoniale (Petrelli C., La trascrizione degli atti di destinazione, in Riv. Dir. Civ., 2006, 162 ss.). Si conclude pertanto che è indispensabile l'altruità dell'interesse: non è ammessa l'autodestinazione (che rivela uno scopo egoistico). La finalità del vincolo non può certamente essere la separazione patrimoniale ex art. 2740 c.c.: quest'ultima è l'effetto e non la causa giustificatrice della destinazione ex art. 2645-ter c.c.; inoltre non potrebbe che qualificarsi come un fine egoistico ed economico (c.d. asset protection), estraneo alla sfera semantica della “meritevolezza”. In una prospettiva di analisi economica del diritto si dovrebbe affermare che il vincolo è valido tutte le volte in cui l'interesse alla destinazione ha un valore complessivo superiore al valore dell'interesse dei creditori che dalla segregazione sono danneggiati (Nuzzo M., Atto di destinazione e interessi meritevoli di tutela, in La trascrizione dell'atto negoziale di destinazione, Bianca M. (a cura di), Milano, 2007, 67). Sono stati ritenuti interessi meritevoli, ad esempio, quello della c.d. famiglia di fatto, anche tra omosessuali, quello dell'assistenza sociale e sanitaria, quello dell'istruzione e dell'educazione, la tutela dell'ambiente, la ricerca e l'erogazione di servizi culturali. Controversa è l'ammissibilità di un vincolo di destinazione avente lo scopo di favorire l'emersione di un'impresa dalla crisi, ove beneficiari sarebbero i creditori sociali. L'opinione più diffusa nega che, in questo caso, il disponente possa essere la stessa impresa (contra Cass., sez. III, 18 gennaio 2019, n. 1260, che riconosce la meritevolezza dell'interessa dell'impresa che destina propri beni con l'obiettivo di garantire la trasparenza dello stato di crisi e la preservazione del patrimonio in vista di una domanda di concordato preventivo):l'effetto segregativo urterebbe contro le regole della par condicio creditorum e rischierebbe di produrre un contrasto con la disciplina dell'esecuzione forzata e del fallimento. Più discusso è il caso in cui il disponente non sia l'impresa in crisi ma un terzo (tipicamente, uno dei soci con il suo patrimonio personale). In questo caso la dottrina prevalente (Consiglio Nazionale del Notariato, Studio Civilistico n. 357-2012/C in www.notariato.it) non ravvisa ostacoli: non si tratta di un'autodestinazione, l'interesse è sì privatistico ma non egoistico, e anzi pare in linea con le recenti novelle alla legge fallimentare che hanno incentivato il ricorso alle c.d. soluzioni negoziali alla crisi d'impresa. Più dubbi emergono dalla lettura della giurisprudenza. Trib. Vicenza 31 marzo 2011, aderendo ad una tesi restrittiva, ha affermato che gli interessi di cui all'art. 2645-ter c.c. «solo quelli attinenti alla solidarietà sociale e non anche quelli dei creditori di una società insolvente». Trib. Reggio Emilia 27 gennaio 2014 invece ha negato che il vincolo posto in essere dal terzo potesse essere funzionale alla realizzazione del piano concordatario ex artt. 160 ss. l. fall. in quanto, nel caso concreto, l'atto di destinazione ex art. 2645-ter c.c. non era traslativo e non era stato unito ad un mandato irrevocabile a vendere i beni destinati all'impresa, visto come requisito essenziale per garantire la soddisfazione dei creditori sul bene. In conclusione pare potersi sostenere la tesi più elastica, ma con l'accortezza di attribuire agli attuatori la proprietà o il potere di alienare il bene e collegando, attraverso un meccanismo condizionale, gli effetti del vincolo alle fasi e all'andamento delle procedure concorsuali. Ci si deve infine chiedere cosa accada nel caso in cui il giudice valuti non meritevole di tutela l'interesse imposto dal disponente. Secondo parte della dottrina si avrebbe difetto di un elemento essenziale dell'istituto, che porterebbe alla nullità dell'atto destinatorio (Gabrielli G., op. cit., 333). Pare preferibile ritenere che l'interesse lecito ma non meritevole non comporti l'invalidità dell'atto, bensì solo la sua inopponibilità ai terzi: si dovrebbe dunque ritenere che il vincolo abbia effetti obbligatori, solo inter partes (Dicillo R., op.cit., 165). Se l'interesse è invece illecito, la nullità è prevista direttamente dall'art. 1418 c.c.. I soggetti
Unica parte sostanziale necessaria, secondo quanto anzi detto, è il disponente - dalla norma chiamato anche “conferente”. Questi è il soggetto che imprime sui propri beni il vincolo, che stabilisce l'interesse meritevole di tutela che sorregge la destinazione, che sceglie i beneficiari (e l'eventuale controllore) e che, in caso di destinazione c.d. dinamica, nomina l'attuatore e gli trasferisce i beni vincolati. Non vi è ragione di escludere che il disponente possa essere una persona giuridica: la dottrina moderna ammette che anche le società possano porre in essere atti a titolo gratuito. Altro soggetto indispensabile (che può però non partecipare all'atto pubblico, come anzi detto) è il beneficiario: al contrario del trust non è ammesso un vincolo di destinazione “di scopo”, poiché la norma è chiara nel dire che gli interessi meritevoli di tutela devono essere “riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche”. Il beneficiario dev'essere, per l'orientamento prevalente (Consiglio Nazionale del Notariato, Studio Civilistico n. 357-2012/C in www.notariato.it) determinato - o quantomeno determinabile attraverso una relatio formale: non è ammesso quale beneficiario una categoria generica di soggetti, quali “i poveri” o “i detenuti”, a meno che non si provveda a nominare un soggetto portatore di tali interessi. È discusso se il beneficiario possa essere un nascituro, ma allo stato pare più prudente l'opinione negativa: l'art. 1 comma 2 c.c. prevede che ai nascituri spettano solo i diritti che la legge stessa riconosce loro, e l'art. 2645-ter c.c. non ammette espressamente i nascituri tra i beneficiari (al contrario dell'art. 784 c.c. in tema di donazione). Inoltre, perché si producano gli effetti segregativi, è necessario che la destinazione abbia beneficiari immediatamente dotati di capacità giuridica. Si potrebbe comunque, in contrario, opinare che, non ammettendo la destinazione in favore di nascituri, si genererebbe una disparità di trattamento con il testamento (art. 462 c.c.) e la donazione (art. 784 c.c.) (così Petrelli C., op. cit., 174). I beneficiari, secondo un'autorevole opinione, possono anche essere più d'uno e persino in ordine successivo tra loro (inizialmente Tizio, e successivamente alla sua morte Caio, e successivamente Sempronio) purché sia rispettato il limite di durata espresso dalla norma: novant'anni o la vita del più longevo dei soggetti nominati (che devono tutti essere nati ed esistenti al momento dell'atto). Ci si è chiesti se il beneficiario acquisti, in forza della destinazione, un diritto, e che natura abbia tale diritto. Secondo un'opinione minoritaria il beneficiario, non essendo parte dell'atto (unilaterale), non può dirsi titolare di un diritto soggettivo. In contrario si afferma che certamente in capo al beneficiario discendono diritti. Per una tesi (Bianca M., D'errico M., De Donato A., Priore C., op. cit.) si tratterebbe di un nuovo diritto reale, perché opponibile erga omnes e caratterizzato da un rapporto immediato con la cosa. Altra tesi, che sembra allo stato prevalente (Gazzoni F., op. cit., 171), riconosce al beneficiario un diritto di credito: la norma dice che qualsiasi interessato può agire per la realizzazione degli interessi di destinazione – e tra gli interessati vi è certamente il beneficiario. Il disponente, come si è detto, può nominare un attuatore, il quale avrà la funzione di amministrare i beni sottoposti a vincolo e dovrà realizzare il fine di destinazione. L'attuatore può anche essere lo stesso disponente o il beneficiario, ma spesso accade che sia nominato un terzo estraneo. Se il vincolo è statico, generalmente all'attuatore è conferito un mandato con rappresentanza per l'amministrazione (e, nel caso, l'alienazione) del compendio vincolato. Se il vincolo è invece traslativo, il disponente trasferirà all'attuatore i propri diritti sul bene, in modo che questi abbia tutti i poteri, pur nel rispetto della finalità di destinazione. In quest'ultimo caso, si tratta di un trasferimento strumentale: pertanto è opportuno precisare quali saranno le sorti del bene all'estinzione del vincolo. Può essere facoltativamente nominato anche un controllore, o “guardiano”, con funzioni di verifica, ispezione e accertamento dell'opera dell'attuatore. Al controllore del vincolo dovrà essere reso il conto della gestione (su base annuale o al termine della destinazione) e possono essere convenzionalmente attribuiti poteri per il migliore espletamento delle sue funzioni. La norma prende in considerazione «beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri» quali oggetti dell'atto destinatorio. Anzitutto, con riferimento agli immobili, si deve chiarire che oggetto di vincolo può essere tanto la piena proprietà, quanto l'usufrutto e la superficie. Si esclude invece che si possa costituire un vincolo di destinazione avente ad oggetto l'uso o l'abitazione, non solo per la loro (derogabile) incedibilità ex art. 1024 c.c., ma anche perché tali posizioni giuridiche non sono fonte di reddito e quindi, nella maggior parte dei casi, sono inidonee alla realizzazione delle finalità economiche del vincolo. La norma si applica non solo ai beni mobili di cui all'art. 2683 c.c., ma anche a tutti i beni mobili per i quali sia possibile effettuare un'idonea pubblicità del vincolo, come ad esempio titoli di credito nominativi (quali le azioni) e quote di partecipazione in società a responsabilità illimitata. Queste ultime sono, secondo opinione diffusa, suscettibili di essere inserite in fondo patrimoniale ex art. 167 c.c.: a fortiori potranno rientrare nel vincolo, con relativa pubblicità a registro imprese (Consiglio Nazionale del Notariato, Studio Civilistico n. 357-2012/C in www.notariato.it). Trascrizione e segregazione patrimoniale
Ci si è chiesti che natura abbia la trascrizione dell'atto di destinazione ex art. 2645-ter c.c.. Un'isolata opinione (Gabrielli G.,op. cit., 338) afferma la natura costitutiva della trascrizione, identificando il vincolo di destinazione con i suoi effetti segregativi del patrimonio. La tesi prevalente (Gazzoni F., op. cit., 179) afferma che si tratti di una pubblicità dichiarativa: è la legge stessa a prevedere che essa abbia la funzione di rendere il vincolo opponibile ai terzi. Ciò significa che, nei rapporti tra le parti, il vincolo è valido ed efficace anche prima della sua trascrizione. Ulteriormente ci si è chiesti se la trascrizione sia opzionale, dato che la norma dice «gli atti in forma pubblica (…) possono essere trascritti». L'opinione preferibile afferma che, qualora l'atto sia stipulato in forma notarile, il notaio sia obbligato a curarne la trascrizione: in quel caso la pubblicità non è opzionale (art. 2671 c.c. il notaio è obbligato a curare la trascrizione nel più breve tempo possibile). L'atto di destinazione può essere stipulato anche per scrittura privata: in quel caso non potrà essere trascritto e quindi non sarà opponibile ai terzi, producendo solo effetti obbligatori inter partes. La trascrizione avviene effettuata “contro” il disponente, al fine di rendere conoscibile ai terzi la compressione del suo diritto; non occorre una trascrizione “a favore” del beneficiario, che non è avente causa dell'atto. Se il vincolo è traslativo, occorreranno due trascrizioni: una ex art. 2643 comma 1 n. 1) c.c. per pubblicizzare il trasferimento (si effettua contro il conferente e a favore dell'attuatore) e una seconda trascrizione solo a carico dell'attuatore ex art. 2645-ter c.c.. In sede di estinzione del vincolo, anche per scadenza del termine, si deve procedere con un'annotazione ai sensi dell'art. 2655 c.c.. Una volta formato e pubblicizzato il vincolo, «i beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione (…)»: anzitutto il vincolo limita i poteri e le facoltà del proprietario, imprimendo una specifica direzione alla gestione del bene. La violazione di tale disposizione è fonte di responsabilità (contrattuale) del disponente. Se si ritiene che il beneficiario non acquista un credito bensì un vero e proprio diritto reale, si potrebbe affermare la proponibilità delle azioni possessorie, petitorie e vindicatorie dirette a tutelare la sua posizione soggettiva (come è stato affermato in tema di usufrutto da Cass., sez. II, 26 ottobre 1973, n. 2777): la tesi pare però attualmente minoritaria. In seguito alla trascrizione dell'atto di destinazione «i beni conferiti (…) possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall'art. 2915 comma 1 c.c., solo per debiti contratti per tale scopo». La norma prevede cioè un effetto segregativo: i beni oggetto di destinazione non possono essere aggrediti dai creditori generali del proprietario del bene (disponente, o attuatore cui i diritti sono stati trasferiti) bensì solo dai soggetti che vantano un credito afferente alla destinazione. La segregazione ha natura unilaterale: i creditori generali non possono aggredire i beni destinati, ma i creditori “della destinazione” non sono tenuti ad aggredire soltanto i beni oggetto del vincolo: potranno soddisfarsi anche sul residuo patrimonio del debitore. È discusso se la responsabilità del patrimonio generale del debitore sia sussidiaria rispetto ai debiti contratti per la realizzazione dello scopo, e se cioè i creditori debbano prima soddisfarsi sui beni destinati. Manca ogni riferimento normativo a riguardo: per sostenere la tesi positiva, astrattamente preferibile, occorre un'interpretazione funzionalmente orientata alla ratio legis. Il vincolo di destinazione è soggetto a revocatoria ordinaria (art. 2901 c.c.) e fallimentare (art. 64 l. fall. e art. 67 l. fall.): quanto ai termini e ai presupposti per la revocatoria si deve distinguere a seconda che il vincolo abbia natura onerosa o sia stipulato a titolo gratuito. In particolare, qualora l'atto gratuito di destinazione sia diretto a fini di pubblica utilità, si potrebbe escludere la revocatoria nel caso in cui il peso del vincolo sia proporzionato al patrimonio del debitore (art. 64 l. fall. ultimo inciso).
Circolazione dei beni e clausole convenzionali
La legge non prevede l'inalienabilità dei beni oggetto del vincolo ex art. 2645-ter c.c.. Il bene può essere ceduto ancora gravato dal vincolo di destinazione: il cessionario acquisterà un dominio compresso dal diritto temporaneo del beneficiario (il bene circola cum onere suo, opponibile in forza della trascrizione). L'alienazione è valida e il terzo acquista il bene libero dal vincolo qualora il trasferimento sia conforme allo scopo di destinazione (ad esempio qualora con la vendita si ottengano delle somme necessarie per la realizzazione del vincolo). Ulteriormente è possibile che il vincolo preveda l'obbligo, in caso di alienazione, di reinvestire le somme ricavate in beni da sottoporre ex novo a vincolo di destinazione (ma tale pattuizione ha efficacia obbligatoria: non è ammessa una surrogazione reale dei beni acquistati in luogo dei beni alienati). La giurisprudenza ha però ammesso che il disponente imponga il divieto di alienazione del bene: Trib. Bologna 5 dicembre 2009 ha affermato che il vincolo può contenere un divieto di alienazione che perdura per tutta la durata della destinazione. Parte della dottrina è più prudente e afferma che in questo caso il divieto di alienazione dovrà essere convenuto nei limiti (di tempo e di merito) di cui all'art. 1379 c.c.. La maggioranza degli autori ammette l'inserimento di una revoca del vincolo ex art. 1373 c.c., ma con la precisazione che l'intento destinatorio dev'essere serio: non si potrà trattare di una revoca ad nutum (Consiglio Nazionale del Notariato, Studio Civilistico n. 357-2012/C in www.notariato.it). È altresì ammessa la risoluzione per mutuo dissenso (art. 1372 c.c.) del vincolo di destinazione: in tal caso però è certamente necessaria una forma bilaterale, con il consenso del beneficiario, anche se l'atto è stato stipulato con struttura unilaterale. È opportuno che le parti disciplinino convenzionalmente le cause di estinzione del vincolo, gli effetti che si produrranno in caso di morte del disponente, del beneficiario e dell'eventuale attuatore, e in particolare – per il vincolo traslativo – è importante precisare a chi spetterà la proprietà del bene in seguito alla cessazione della destinazione. Casistica
*Scheda aggiornata alla Legge "Dopo di Noi" |