La validità della clausola di polizza che prevede il risarcimento in forma specifica secondo la Cassazione
08 Settembre 2022
Massima
La clausola che, all'interno di una polizza assicurativa per la r.c.a., prevede che, in caso di incidente, l'indennizzo avvenga in forma specifica, attraverso la riparazione del veicolo danneggiato presso un'autocarrozzeria convenzionata con la impresa assicuratrice, dispiega i suoi effetti sull'oggetto del contratto, delimitandolo senza, invece, limitare la responsabilità dell'assicuratore, per cui non richiede la espressa approvazione in forma scritta di cui al secondo comma dell'art. 1341 c.c.: il suo effetto, in concreto, è quello di delimitare il rischio assicurato, individuando i limiti dell'obbligazione indennitaria assunta dall'assicuratore, senza in alcun modo alleggerire, a vantaggio di quest'ultimo, gli effetti dell'eventuale colpa e/o inadempienza contrattuale. Il caso
In primo grado Tizia agisce dinanzi al Giudice di Pace di Torino per sentire condannare il proprio assicuratore al pagamento della differenza – detratta la franchigia - che la medesima aveva dovuto versare all'autoriparatore al quale aveva ceduto il credito per il ripristino del proprio veicolo danneggiato da una grandinata; l'autoriparatore, dopo aver riparato l'auto, revocava la cessione del credito deducendo che l'impresa assicuratrice in questione, invocando una clausola di polizza, aveva rimborsato all'autoriparatore una somma inferiore all'importo della riparazione, in ragione del fatto che parte istante non si era rivolta per la riparazione ad un'autocarrozzeria convenzionata con la predetta impresa assicuratrice, come invece era previsto espressamente dalla richiamata pattuizione di polizza; clausola, quella in questione, espressamente descritta nelle condizioni generali di assicurazione illustrate nel fascicolo informativo e richiamata nella polizza che la parte attrice aveva sottoscritto, e che invocava a fondamento della propria pretesa. Il giudice di pace adito rigettava la domanda.
Proposto appello dalla danneggiata, anche la impugnazione dinanzi al Tribunale di Torino non ha avuto miglior sorte, in quanto il giudice d'appello confermava la prima decisione, aggiungendo sia che la clausola in questione non poteva considerarsi vessatoria, sia che l'appellante aveva validamente ed efficacemente espresso il suo consenso alla stipula del contratto in questione, accettando la relativa clausola. La parte appellante impugna in Cassazione la decisione del Tribunale di Torino sotto diversi profili.
La questione
Il caso descritto propone la questione della validità o meno della clausola di polizza che, a fronte di un risparmio sul premio assicurativo per l'assicurato, determina il sorgere, a carico del medesimo, dell'obbligo -in caso di sinistro – a rivolgersi ad una carrozzeria convenzionata con la propria assicurazione, per la riparazione del veicolo danneggiato, con conseguente indagine, prima di tutto, sulla natura della clausola in questione e sulla conseguente - o meno - vessatorietà, anche ai sensi della disciplina consumeristica, con i correlati effetti. Le soluzioni giuridiche
La questione sollevata dal ricorrente fornisce alla Corte l'occasione, ponendosi in linea di continuità con alcune proprie precedenti decisioni – nelle quali, tuttavia, non aveva affrontato la questione in modo diretto e specifico, come invece fatto nella decisione qui commentata – di stabilire le coordinate di riferimento per la fattispecie, ricostruendola in modo completo ed esauriente.
In particolare, tali coordinate possono così ricostruirsi:
a) la clausola che prevede il risarcimento in forma specifica (erogato attraverso la diretta riparazione del veicolo presso autocarrozzerie convenzionate, riportando in tal modo il veicolo in condizioni ante sinistro e rimuovendo, quindi, le conseguenze pregiudizievoli dell'evento) non limita affatto, la responsabilità dell'assicuratore, ma produce un effetto diverso;
b) tale effetto è quello di delimitare l'oggetto del contratto;
c) tale effetto viene conseguito tramite la specificazione del rischio garantito e la correlata individuazione dei limiti entro i quali l'assicuratore è tenuto a rivalere l'assicurato, delimita l'oggetto del contratto;
d) in ragione di tali effetti, la predetta clausola si sottrae all'obbligo della specifica approvazione preventiva prevista dal comma 2 dell'art. 1341, c.c.;
e) inoltre, simile clausola non si rivela finalizzata ad avvantaggiare l'assicuratore a scapito dell'assicurato, in quanto né rende maggiormente gravosa la possibilità, per l'assicurato, di ottenere dall'assicuratore la prestazione contrattualmente prevista a carico di quest'ultimo ed in favore del primo, e neanche integra uno stratagemma volto a favorire un adempimento parziale, se non addirittura un totale inadempimento, da parte dell'assicuratore, o comunque a permettere all'assicuratore di decidere i modi ed i termini, anche temporali, del suo adempimento;
f) al contrario, la clausola in questione introduce un vantaggio per l'assicurato, offrendogli la possibilità di scegliere, liberamente e senza costrizione, se ottenere o meno una riduzione dell'ammontare del premio, senza determinare alcuno squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto di assicurazione a carico di quest'ultimo;
g) passando alla ricostruzione della natura di simile clausola, la Corte ritiene che la stessa costituisca un contratto innominato, la cui causa è il risarcimento di un danno, meritevole di tutela, al pari del sottostante interesse dei contraenti, ex art. 1322, comma 2, c.c., in quanto integra un valido ed efficace accordo preventivo sulla scelta delle modalità risarcitorie;
h) ulteriore argomentazione che la Corte espone, anche se indirettamente, a sostegno dell'affermata meritevolezza di tutela della clausola di polizza che prevede il risarcimento in forma specifica, viene in evidenza attraverso a precisazione, formulata dai giudici di legittimità, secondo cui, ove inserita una simile pattuizione in una polizza assicurativa, la sua concreta operatività va stabilita guardando alla posizione del debitore - id est dell'assicuratore – dal momento che, nel caso in cui l'applicazione della stessa risulti, in concreto, eccessivamente gravosa per l'assicuratore, il medesimo ben potrà avvalersi della possibilità, riconosciuta dal secondo comma dell'art. 2058 c.c., di risarcire il danno per equivalente, senza che tale riconosciuta possibilità pregiudichi la posizione del creditore, il cui dirittoverrà comunque pienamente tutelato. Infine, occorre evidenziare anche una distonia nella formulazione del ricorso, che la Corte non ha mancato di rilevare, anche se con differenti argomentazioni, dal momento che il ricorrente si è limitato a prospettare un possibile significato alternativo, delle disposizioni negoziali, diverso da quello accolto dal giudice di appello, in quanto tale inidoneo ad inficiare la applicazione dei criteri ermeneutici utilizzati dal Giudice di merito, atteso che, come concordemente afferma la S.C. "l'interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l'unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l'altra" (Cass. civ., sez. I, 2 maggio 2006, n. 10131; id, sez. II, 16 febbraio 2007, n. 3644; id., sez. I, 22 febbraio 2007, n. 4178; id., sez. III, 12 luglio 2007, n. 15604; id., sez. III, 20 novembre 2009, n. 24539; id., sez. II, 3 settembre 2010, n. 19044). Osservazioni
La sentenza qui commentata appare senza dubbio da condividere in quanto affronta e risolve correttamente e condivisibilmente una questione intrisa di profili sostanziali e processuali, ed alquanto controversa, invero.
Con riguardo ai profili sostanziali, innanzitutto appare evidente come vada sottolineata l'importanza dello strumento del risarcimento in forma specifica, che costituisce una modalità di risarcimento di non trascurabile importanza, al punto che rinviene riconoscimento a livello generale nel codice civile, nell'art. 2058 c.c., oltre che nell'art. 872, comma 2 c.c.; sebbene tale modalità risarcitoria, ex art. 2058 citato, debba essere privilegiata, siccome in grado di riportare il danneggiato (o meglio, i relativi interessi) nella medesima situazione in cui si trovava anteriormente all'evento di danno, nella prassi, in realtà, viene prediletta la modalità per equivalente, di maggiore semplicità sul piano oltre che ritenuta maggiormente satisfattiva (G. ANNUNZIATA, Responsabilità civile e risarcibilità del danno, Padova, 2010, p. 187).
La differenziazione tra i due strumenti risarcitori, come rilevato da altro autore, va individuata nel fatto che la reintegrazione in forma specifica produce un effetto di sostanziale rimozione dell'evento di danno e degli effetti pregiudizievoli dallo stesso causati al danneggiato, mentre quella per equivalente assume una valenza, in concreto, su di un piano differente, realizzando una sostanziale “compensazione” di quelli che sono gli effetti economici negativi dell'evento di danno, ovvero del danno emergente e del lucro cessante (C.M. BIANCA, Diritto Civile, V, La responsabilità, Milano, 2021, p. 216); sempre in punto di diritto sostanziale, va tenuto presente che la giurisprudenza di legittimità ricostruisce la differenza tra reintegrazione in forma specifica e risarcimento per equivalente prendendo a riferimento il diverso ammontare dell'importo occorrente perché possa dirsi, nel caso concreto, attuata l'una ovvero l'altra modalità risarcitoria, rilevando come, nel caso della reintegrazione in forma specifica, la somma dovuta va calcolata prendendo a riferimento i costi occorrenti alla riparazione (e quindi per riportare il bene danneggiato allo status quo ante), mentre nel caso di risarcimento per equivalente, in sostanza, si prende in considerazione un valore per differenza, in quanto la somma dovuta viene calcolata facendo riferimento alla differenza tra il valore del bene integro, quindi nel suo stato originario, e il valore del bene leso e/o danneggiato (Cass. civ., sez. III, 27 novembre 2017, n. 27546).
Come si è visto, la S.C. ha escluso la vessatorietà della clausola in questione ritenendo che la stessa, lungi dal limitare la responsabilità dell'assicuratore e/o aggravare la posizione dell'assicurato, imponendogli oneri eccessivi e/o non giustificati, in realtà delimita l'oggetto del contratto di assicurazione, il che comunque non contribuisce a chiarire il significato da attribuire alla locuzione oggetto del contratto, dato che, come è noto, sul punto non si riscontra, in dottrina, concordia di opinioni.
Infatti, alla posizione - che risulta sostanzialmente quella maggioritaria – che ritiene l'oggetto del contratto in questione integrato, per quanto riguarda la posizione dell'assicuratore, dalla prestazione che il medesimo si obbliga ad eseguire – rappresentata dal pagamento dell'indennità - mentre, per quanto riguarda l'assicurato, dal pagamento del premio, che specularmente costituisce la prestazione che grava su quest'ultimo (M. ROSSETTI, Il Diritto delle assicurazioni, I, Padova, 2011, p. 821) si contrappone quella di chi, invece, ritenendo essere intimamente connesso al rischio il correlato interesse di un soggetto a proteggersi dallo stesso, ritiene che ad oggetto del contratto di assicurazione si ponga, in realtà, l'interesse del soggetto che si vede minacciato da un dato rischio relativamente ad un bene ad esso soggetto riferibile, ad proteggersi dallo stesso tramite la stipula di un contratto di assicurazione (A. LA TORRE, Le assicurazioni, Milano, 2007, p. 124 e ss.).
Per altro verso, poi, non va trascurato di rilevare che, come del resto riconosciuto anche dalla S.C. in una propria precedente decisione, la vessatorietà è da escludersi sia in ragione del fatto che una simile clausola riproduce una norma di legge, quale l'art. 2058 c.c., sia in ragione del fatto che, essendo descritta nelle condizioni generali di assicurazione illustrate nel fascicolo informativo e richiamata nella polizza sottoscritta dalla parte attrice, era dalla stessa facilmente conoscibile ed al tempo stesso liberamente opzionabile (Cass. civ., sez. III, 15 maggio 2018, n. 11757, in Responsabilità civile e previdenza, 2018, 5, 1639). In ogni caso, va detto che, per la dottrina, il requisito dell'interesse, previsto dall'art. 1904 c.c. affinché possa ritenersi validamente concluso un contratto di assicurazione contro i danni deve essere inteso in una accezione ampia, e precisamente in relazione ad tipo di rapporto, economico e giuridico, in ragione del quale il titolare dello stesso sia esposto ad una conseguenza economica negativa derivante da un potenziale evento di danno (A. DONATI-G. VOLPE PUTZOLU, Manuale di diritto delle assicurazioni, Milano, 2002, p. 164): allora, proprio perché la giurisprudenza, condividendo la richiamata impostazione dottrinale, ammette che sul medesimo bene possano insistere diversi interessi appartenenti a diversi soggetti (ad esempio, al proprietario o al detentore), tuttavia – all'evidenza proprio in ragion di tale diversità di interessi – ritiene che l'assicurazione stipulata sul bene da a uno di questi soggetti non estende automaticamente i propri effetti anche in favore degli altri soggetti, salvo che tale estensione non sia espressamente prevista dal contratto di assicurazione (Cass. civ., sez. VI, 26 aprile 2017, n. 10357).
Con riguardo ai profili processuali della fattispecie, va detto, innanzitutto, che in dottrina si sottolinea come tale modalità risarcitoria risulti aggiuntiva e non alternativa a quella del risarcimento per equivalente, essendo possibile azionare le stesse cumulativamente in un medesimo giudizio, come espressamente prevede l'art. 872, comma 2 c.c., relativo alla violazione delle norme in tema di edilizia, e come prevede, altresì, l'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, ovvero la legge 20 maggio 1970 n. 300 (G. ANNUNZIATA, op. cit., p. 188-189); inoltre, si evidenzia – senza dubbio condivisibilmente – come la possibilità prevista dall'art. 2058 c.c. in favore del danneggiato di scegliere tra le due modalità di ristoro rinvenga un opportuno contemperamento nel potere riconosciuto al giudice, appunto secondo quanto previsto dalla richiamata disposizione, di negare il risarcimento in forma specifica allorquando la scelta in favore di esso da parte del danneggiato dovesse, nel caso concreto, rivelarsi niente altro che capricciosa, per un verso, e per altro verso fonte di un ingiustificato aggravio di costi per il debitore, tale da comportare per il medesimo un esborso economicamente superiore al pregiudizio effettivamente causato da questi al creditore (G. ANNUNZIATA, op. loc. ult. cit.).
In proposito, infatti, si osserva il rifiutare, da parte del creditore, l'offerta di risarcimento in forma specifica formulata dal debitore costituisca condotta contraria a correttezza e buona fede, dal momento che, senza determinare a carico del creditore un reale sacrificio, impedisce al debitore di adempiere efficacemente ed esaustivamente alla sua obbligazione risarcitoria, liberandosi quindi dalla stessa (C.M. BIANCA, op. cit., p. 217); peraltro - ad avviso di chi scrive appare senza dubbio corretta la ricostruzione di tale condotta in termini di contrarietà a correttezza e buona fede, oltre che ai doveri di solidarietà sociale.
Non a caso, allora, in giurisprudenza si è osservato come sia pacifico che il danneggiante possa risarcire spontaneamente il danno anche in forma diversa da quella scelta dal creditore, salva la possibilità per quest'ultimo di rifiuto, e tuttavia, ove tale rifiuto si riveli ingiustificato e determinante un aggravamento del danno, esso comporta la riduzione del risarcimento dovuto, ai sensi dell'art. 1227, comma 2, c.c. (Trib. Modena, sez. I, 4 maggio 2012, n. 711).
Si pone in una prospettiva differente quella opinione dottrinale che sostiene come la reintegrazione in forma specifica possa essere eseguita anche direttamente dal danneggiato il quale, senza provare a soddisfarsi su beni del debitore, proceda di sua iniziativa a far riportare il bene danneggiato alla condizione anteriore all'illecito, poiché in tal caso la reintegrazione ex art. 2058 c.c. consisterà nella restituzione, previa determinazione, del costo affrontato per riportare il bene danneggiato allo status quo ante (L. MONTESANO, voce Esecuzione specifica, in Enc. Dir., 1996, XIV, p. 534).
In ordine alla individuazione dell'effettivo perimetro applicativo dell'art. 2058 c.c., con le discendenti conseguenze in tema di azioni esercitabili per far valere i rimedi previsti da tale norma, si sottolinea, in dottrina, la necessità di distinguere tra le azioni che mirano a far valere sin da subito un diritto assoluto, attuandone l'oggetto, e quelle, invece, rivolte alla eliminazione ovvero alla compensazione delle conseguenze pregiudizievoli causate dall'altrui condotta (P. TRIMARCHI, La responsabilità civile: Atti illeciti, rischio, danno, 3^ Ed., Milano, 2021, p. 604).
La distinzione ha non trascurabili conseguenze in ordine alla possibilità di applicare la “limitazione” prevista dal secondo comma dell'art. 2058 c.c., dal momento che, ad esempio, ove si lamenti la violazione di una servitus altius non tollendi, la tutela di tale diritto, passando inevitabilmente per la richiesta di un ordine di abbattimento di quanto costruito in violazione di tale divieto, integra un rimedio processuale avente natura reale, che in quanto tale non incontra il limite di cui al secondo comma della norma citata (P. TRIMARCHI, op. loc. ult. cit.).
Anche la giurisprudenza di legittimità risulta allineata su posizioni coincidenti, avendo di recente affermato “L'art. 2058, comma 2, c.c., che prevede la possibilità di ordinare il risarcimento del danno per equivalente, anziché la reintegrazione in forma specifica, in caso di eccessiva onerosità di quest'ultima, non trova applicazione alle azioni intese a far valere un diritto reale, la cui tutela esige la rimozione del fatto lesivo - come nel caso della domanda di riduzione in pristino per violazione delle norme sulle distanze -, atteso il carattere assoluto del diritto leso” (Cass. civ., sez. II, 23 settembre 2020, n. 19942, in Giust. civ., Mass., 2020).
Il quadro sino ad ora prospettato lascerebbe ipotizzare, allora, la possibilità di ricostruire la modalità risarcitoria prevista dall'art. 2058 c.c. quale rimedio azionabile nei confronti di qualsivoglia violazione, quasi fosse uno strumento di carattere generale, ma tale conclusione non appare così pacifica, ad avviso di altra opinione dottrinale (R. SCOGNAMIGLIO, Il risarcimento del danno in forma specifica, in Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile, 1957, 201 e ss.), in quanto, secondo il richiamato autore, deve ritenersi possibile ricorrere allo strumento in questione solo in presenza di danni provocati da fatti e/o condotte che integrino ipotesi di responsabilità civile (R. SCOGNAMIGLIO, op. loc. ult. cit.).
Un ultimo aspetto da sottolineare brevemente attiene ai rapporti tra domanda di reintegrazione in forma specifica e di risarcimento per equivalente, che la giurisprudenza di legittimità ha ricostruito, in concreto, come un rapporto tra contenitore e contenuto, traendone le discendenti conseguenze, anche in ordine al dovere di pronuncia del giudice, avendo affermato: “In tema di danni, rientra pertanto nei poteri discrezionali del giudice del merito (il cui mancato esercizio non è sindacabile in sede di legittimità) attribuire al danneggiato il risarcimento per equivalente, anziché in forma specifica come domandato dall'attore (sulla base di valutazione che si risolve in giudizio di fatto, ai sensi dell'art. 2058, comma 2, c.c., del pari insindacabile in Cassazione), costituendo il risarcimento per equivalente, un minus rispetto al risarcimento in forma specifica e intendendosi, perciò, la relativa richiesta implicita nella domanda di reintegrazione, con la conseguenza che non incorre nella violazione dell'art. 112 c.p.c. il giudice che pronunci d'ufficio una condanna al risarcimento per equivalente” (Cass. civ., sez. II, 19 gennaio 2017, n. 1361, in Giust. civ., Mass., 2017).
Come affermato con recente decisione, i giudici di legittimità hanno riconosciuto tale facoltà per il giudice di merito a maggiore ragione in un caso come quello oggetto della vicenda in questione, ritenendo “La domanda di risarcimento del danno subìto da un veicolo a seguito di incidente stradale, quando abbia ad oggetto la somma necessaria per effettuare la riparazione dei danni, deve considerarsi come richiesta di risarcimento in forma specifica, con conseguente potere del giudice, ai sensi dell'art. 2058, comma 2, c. c., di non accoglierla e di condannare il danneggiante al risarcimento per equivalente, ossia alla corresponsione di un somma pari alla differenza di valore del bene prima e dopo la lesione, allorquando il costo delle riparazioni superi notevolmente il valore di mercato del veicolo" (Cass. civ., sez. VI, 30 marzo 2022, n. 10196, in Giust. civ., Mass., 2022), in tal modo allineandosi al pensiero delle Sezioni Unite, le quali hanno affermato l'unicità della pretesa risarcitoria, pur se veicolata attraverso una duplice alternativa attuativa (quale appunto quella riconosciuta dall'art. 2058 c.c.), per cui la parte ben può, tramite una mera emendatio, convertire l'originaria richiesta nell'altra mentre il giudice di merito, per converso, può attribuire d'ufficio al danneggiato il risarcimento per equivalente, anziché in forma specifica (Cass. sez. un., 28 maggio 2014, n. 11912). |