Contenzioso tributario: introdotta la prova testimoniale

Saverio Capolupo
12 Settembre 2022

Con la riformulazione dell'art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 546/1992 è stata introdotta nel giudizio tributario la prova testimoniale al pari di quanto previsto dal codice di rito. Tuttavia, le due discipline non sono del tutto sovrapponibili poiché la prima, prescindendo dal preventivo accordo tra le parti, lascia al Giudice ampia discrezionalità. Di contro, però, sono anche previste delle limitazioni di relativamente agli atti pubblici facenti fede fino a querela di parte. La formulazione della disposizione, ove interpretata letteralmente presenta un'area operativa molto limitata. Non sfugge, invero, che gli atti facenti fede fino a querela di parte comprendono i verbali redatti dalla Guardia di Finanza e dall'Agenzia delle Entrate. È da delimitare l'effettiva portata del termine “Verbali” atteso che, anche per il contraddittorio svolto negli uffici dell'Agenzia, viene previsto il verbale al fine di formalizzare i relativi risultati.
Premessa

Con la recente legge n. 130/2022 che ha modificato la disciplina in materia di contenzioso tributario è stata, sia pure in parte, risolta l'annosa questione della prova testimoniale dinanzi al giudice tributario. Probabilmente è una delle poche note positive della riforma.

La sua esclusione in modo indiscriminato aveva indotto, a suo tempo, la giurisprudenza di merito a sollevare l'eccezione di incostituzionalità dell'art. 7, comma 4, del D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, per contrasto con gli artt. 3, 24 e 53 Cost. soprattutto con riferimento alle ipotesi in cui la prova testimoniale si rivelasse indispensabile per dimostrare un fatto decisivo ai fini della soluzione della controversia in senso favorevole alla parte interessata.

Occorre evidenziare che anche la dottrina in passato si è sempre dimostrata restia ad introdurre detto strumento probatorio nel processo tributario con delle motivazioni francamente spesso prive di valide argomentazioni. In particolare alla base della previgente previsione normativa è stato sempre posto un ipotetico pericolo per gli interessi erariali ovvero una scarsa fiducia nella lealtà e nel senso di responsabilità dei testimoni fatta eccezione per alcuni autori tra cui chi scrive.

La necessità di assicurare una sempre maggiore tutela del contribuente dinanzi al giudice tributario ha posto, però, il tema, negli ultimi tempi, all'attenzione soprattutto della dottrina con sempre maggiore incisività man mano che si è consolidata l'esigenza di assicurare un prelievo equo, perfettamente parametrato alla effettiva capacità contributiva. A ben vedere, la inammissibilità della prova testimoniale si pone quale conseguenza inevitabile di una cultura di sospetto che ha caratterizzato l'evoluzione del rapporto giuridico d'imposta, in un clima perenne di conflittualità.

È frutto, quindi, di una convinzione diffusa sia all'interno dell'Amministrazione finanziaria, sia tra i contribuenti, basata sul superato principio della contrapposizione anziché su quello della collaborazione.

L'esigenza della prova testimoniale

Il divieto della prova testimoniale sancito dall'art. 7 del D.Lgs n. 546/1992 menomava l'esercizio del diritto alla difesa in una delle sue manifestazioni principali non ponendo gli interessati concretamente nelle condizioni di poterlo esercitare compiutamente utilizzando strumenti probatori adeguati.

Il diritto, se vuole restare al passo con l'evoluzione della società, deve saper necessariamente coglierne con tempestività, le innovazioni e procedere alla loro disciplina. Diversamente, la norma giuridica perde una delle sue principali funzioni, quella di assicurare trasparenza e certezza ai comportamenti umani. D'altra parte, l'obbligazione tributaria, in particolare, ed il rapporto fisco/contribuente, in generale, hanno subìto profonde modifiche a motivo del diverso ruolo assunto dalle parti e della centralità del contribuente.

Il tale contesto, come più volte denunciato in differenti sedi, non potevano essere accetta limiti probatori non operanti con la stessa rigidità in altri settori impositivi ma forieri anche di ingiustizie e sperequazioni. Occorreva, poi, tener conto di una sostanziale evoluzione culturale che, sebbene ancora lontana dal capovolgere l'impostazione tradizionale, certamente avverte l'inadeguatezza di condizionamenti e limitazioni al corretto esercizio dei propri diritti, in evidente contrapposizione con l'esigenza di una maggiore considerazione del ruolo del contribuente e della sua posizione.

La natura documentale del processo tributario ha necessariamente limitato l'azione del Giudice il quale, per poter decidere equamente, deve disporre dei più ampi poteri istruttori. L'accertamento della verità, quale bene supremo di una collettività e massima espressione del principio di libertà e democrazia, ha rifiutato qualsiasi tipo di limitazione se non giustificata dalla necessità di un interesse prioritario in una potenziale scala di valori nella quale, però, un compiuto, concreto esercizio del diritto di difesa va certamente collocato all'apice.

Il Giudice tributario, espressione di terzietà, deve necessariamente tendere all'accertamento della verità con l'obbligo di ridurre il più possibile il gap esistente tra quella processuale e quella fattuale. Tale rischio, inevitabilmente, aumenta in misura proporzionale con le limitazioni istruttorie sicché al crescere di queste, per qualità e quantità, aumenta anche il tasso di ingiustizia che non può essere, sempre e comunque, accettato nell'ottica della mera tutela delle esigenze erariali.

La ricerca della verità ed il corretto prelievo tributario devono essere conseguiti, senza alcuna eccezione, con intensità, coerenza, incisività e costanza pari a quelle ritenute necessarie per individuare e reprimere l'evasione fiscale.

Si tratta, allora, di stabilire fino a che punto l'opera di ridimensionamento debba (o possa) essere accettata nonché fissare il livello di rinuncia, non solo per l'accertamento della verità, ma anche della individuazione degli evasori ovvero di penalizzazione, laddove si prelevi più del dovuto.

In sostanza la recente riforma è stata conseguenza di una conseguita consapevolezza del superato indirizzo della giurisprudenza che, rifacendosi alla natura del processo tributario, riteneva che la prova per testi non si conciliasse affatto con la struttura e il carattere di tale processo, più snello e semplificato rispetto a quello civile. Va dato atto che la rigida posizione della Corte Costituzionale e di parte della giurisprudenza nonché le motivazioni addotte a sostegno della costituzionalità dell'art. 7 del D.lgs n. 546/1992 non sono mai state condivise dalla dottrina più attenta soprattutto laddove il Giudice sosteneva la possibilità di differenziare gli ordinamenti processuali «sulla base di una scelta razionale del legislatore, derivante dal tipo di configurazione del processo e dalle situazioni sostanziali dedotte in giudizio (...), anche in relazione all'epoca della disciplina e alle tradizioni storiche di ciascun procedimento».

La giurisprudenza ha tentato di attenuare il rigore del divieto riconoscendo, a determinate condizioni, la validità delle dichiarazioni rese da terzi al di fuori e prima del processo, sebbene abbia correttamente sottolineato la diversità dalla prova testimoniale «che è necessariamente orale e di solito ad iniziativa di parte».

In sostanza tutte le argomentazioni connesse alle caratteristiche del processo tributario sono state in parte superate e, quindi, anche la possibilità che le dichiarazioni rese da terzi agli organi dell'Amministrazione finanziaria trovino ingresso, a carico del contribuente, in un processo nel quale quest'ultimo non poteva avvalersene in quanto non ritenute «in contrasto né con il principio di eguaglianza né con il diritto di difesa del contribuente medesimo». Ma anche l'introduzione della dichiarazione dei terzi non aveva risolto il problema.

Invero, la valenza probatoria delle dichiarazioni dei terzi è stata diversamente riconosciuta in quanto, ove raccolte dall'Amministrazione finanziaria nella fase dell'accertamento, alle stesse è stata attribuita la forza «propria degli elementi indiziari i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione».

In altri termini, non sarebbe possibile porre sullo stesso piano la prova testimoniale e le dichiarazioni rese da terzi in quanto hanno «un'efficacia ben diversa» e tale rilievo è «sufficiente ad escludere che l'ammissione di un mezzo di prova (le dichiarazioni di terzi) e l'esclusione dell'altro (la prova testimoniale) possano comportare la violazione del principio di “parità delle armi”».

Sebbene il giudice sia chiamato sempre ad accertare la verità fattuale al fine di ridurre il più possibile l'eventuale divergenza tra essa e la realtà processuale. anche nel campo civilistico, la prova testimoniale non sia sempre guardata con grande favore, il che si verifica soprattutto nell'area contrattuale.

L'asserita natura inquisitoria del processo tributario è stata erroneamente ritenuta incompatibile con la prova per testi in quanto, nonostante il carattere parimenti inquisitorio del processo penale, la prova testimoniale è indiscutibilmente lo strumento di maggiore rilevanza a disposizione del giudice per l'accertamento dei reati. Parimenti, i presunti caratteri di maggiore snellezza e semplificazione del processo tributario, erano parimenti insignificanti una volta che al Giudice tributario sono stati riconosciuto tutti gli altri poteri istruttori che le sono attribuiti dall'art. 35 del d.P.R. n. 636/1972, come nel caso in cui si avvalga di relazioni tecniche.

La portata degli interessi in gioco nel processo tributario non costituiva certamente una valida argomentazione per escludere la prova per testi. Tenuto conto di tali interessi - e della loro natura pubblicistica - non è stato affatto difficile ipotizzare la validità di una previsione normativa che assegni al giudice la facoltà di individuare, di volta in volta, gli strumenti probatori necessari e, quindi, la sussistenza dei presupposti per l'ammissione dei testimoni allorquando l'inammissibilità della specifica prova si «riveli indispensabile per dimostrare un fatto decisivo ai fini della risoluzione della controversia in senso favorevole alla parte interessata».

In sostanza, la limitazione potrebbe essere accettata laddove sussistano valide e sufficienti alternative per provare il fatto in contestazione; diventa, invece, lesiva degli interessi delle parti qualora le dichiarazioni testimoniali siano indispensabili per dimostrare un fatto essenziale, non altrimenti assumibile con l'ausilio degli altri mezzi istruttori.

La parità processuale delle parti esige che abbiano pari opportunità ed il confronto non vada effettuato tra una di esse ed il giudice bensì fra le stesse.

D'altra parte, i Giudici tributari, in quanto titolari degli stessi poteri dell'ufficio, possono, da sempre, invitare determinati soggetti a fornire informazioni, notizie, dati, ecc. Analogamente alle conclusioni cui si è pervenuti per gli uffici, deve pur sempre trattarsi di persone interessate dall'atto giuridico controverso e non di terzi. Si è trattato, allora, di ampliare la portata della previsione per riconoscere il contributo dei terzi, già ammesso a livello documentale, anche sul piano testimoniale. In tal modo si assicura una concreta attuazione all'art. 24 Cost. e si riduce il rischio di prelievi ingiustificati.

L'introduzione della prova testimoniale

A ben vedere l'introduzione della prova testimoniale per iscritto non è una vera novità processuale in quanto con Legge 18 giugno 2009, n. 69 – è stato introdotto nel Codice di procedura civile dell'art. 257-bis,

La finalità è riconducibile all'esigenza di individuare strumenti per ridurre i tempi del processo, esigenza avvertita da tempo ed in modo generalizzato. Per conseguire tale obiettivo si è riconosciuto al giudice, in presenza di uno specifico accordo tra le parti processuali, di ammettere, come elemento di prova, una risposta scritta ai quesiti oggetto di interrogatorio. La norma, tuttavia, da un lato introduce una mera facoltà per il giudice; dall'altro, esige che ai fini dell'ammissione della testimonianza scritta si tenga conto «della natura della causa e di ogni altra circostanza». In ogni caso non ha avuto un'ampia condivisione nella dottrina e, per quanto risulta neanche in sede processuale civile.

Con l'art. 1, comma 1, lett. c) della legge n. 130/2022 è stato disposto che non è ammesso il giuramento ma la corte di giustizia tributaria, ove lo ritenga necessario ai fini della decisione e anche senza l'accordo delle parti, può ammettere la prova testimoniale, assunta con le forme di cui all'articolo 257-bis del codice di procedura civile. Tuttavia, nei casi in cui la pretesa tributaria sia fondata su verbali o altri atti facenti fede fino a querela di falso, la prova è ammessa soltanto su circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale.

La norma del codice di rito e la riformulazione dell'art. 7, comma 4, non sono, tuttavia, sovrapponibili. Invero, quest'ultima, prescindendo dal preventivo accordo tra le parti, lascia al Giudice ampio spazio. Di contro, però, sono anche previste delle limitazioni di relativamente agli atti pubblici facenti fede fino a querela di parte. La formulazione della disposizione, ove interpretata nella sua formulazione letterale, in realtà presenta un'area operativa molto limitata. Non sfugge, invero, che gli atti facenti fede fino a querela di parte sono certamente i verbali redatti dalla Guardia di Finanza e dall'Agenzia delle Entrate. È da comprendere l'effettiva portata del termine “Verbali” atteso che, anche per il contraddittorio svolto negli uffici dell'Agenzia viene previsto il verbale al fine di formalizzare i relativi risultati.

Escluso che la prova per testimoni possa essere fondatamente assunta per la fase cautelare e, in particolare, ai fini, ad esempio, della sospensione o meno dell'atto impugnato, la dichiarazione di un terzo non può più rivestire alcuna rilevanza se non sia formata secondo il procedimento stabilito per il nuovo istituto, non essendovi più spazio per una mera dichiarazione scritta, sostitutiva della prova testimoniale.

Per contro, l'introduzione della prova testimoniale non sembra essere sostitutiva totalmente della dichiarazione di terzi in quanto mentre quest'ultima deve essere resa secondo uno schema ben preciso mediante l'utilizzo del modello previsto dall'art. 103-bis disp. att. c.p.c., la prima resta libera. Va se, che pur restando fermo il principio del libero convincimento del giudice, la forza probatoria dei due strumenti processuali resta chiaramente diversa, se non altro perché non esiste per la dichiarazione dei terzi la certezza della genuinità della sua provenienza.

A differenza della disciplina processualistica, l'art. 7, comma 4, non fa alcun riferimento alla natura della causa, termine sovente usato nei codici, circostanza che, ovviamente, non implica l'assoluta irrilevanza della natura della controversia ovvero dei suoi elementi costitutivi. Si resta dell'avviso che detti elementi debbano comunque essere considerati al giudice prima di disporre la testimonianza scritta, essendo evidente che laddove i fatti che caratterizzano la lite non mostrano particolari complessità descrittive, non vi sarebbe la necessità di ricorrere alla prova testimoniale.

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