La violazione dei principi espressi nelle sentenze della Corte di giustizia e i suoi rimedi

Roberto Cosio
19 Settembre 2022

Gli Stati membri non sono obbligati a prevedere che i singoli possano chiedere la revocazione di una sentenza di ultimo grado per motivi legati a una non corretta interpretazione del diritto dell'Ue. È necessario, però, che nell'individuare dei rimedi giurisdizionali, sia garantito il principio di equivalenza e di effettività.
Premessa

Le questioni sollevate dal Consiglio di Stato nell'ordinanza n. 2327 del 18 marzo 2021 (1) sono di grande importanza.

Possono essere ricondotte ad una duplice problematica:

- se la competenza a valutare (presunte) violazioni dei principi affermati da una sentenza della Corte di giustizia spetti, in sede di revocazione, al giudice di ultima istanza che ha emesso la sentenza o, viceversa, se questa valutazione spetti alla Corte di giustizia;

- se, in questo contesto, l'ordinamento dell'Unione europea osti ad un sistema, come quello italiano, che non consente di usare il rimedio del ricorso per revocatoria per impugnare sentenze del Consiglio di Stato confliggenti con sentenze della Corte di giustizia.

Quest'ultima questione si pone sul piano dei rimedi apprestati dall'ordinamento nazionale per evitare la formazione di qualunque giudicato contrario al diritto dell'Unione (2).

Con la prima questione, declinata in due parti, si intendono esplorare i confini tra interpretazione e applicazione della norma ed il ruolo del rinvio pregiudiziale.

Problemi da esaminare alla luce di ordinamenti autonomi, coordinati e “comunicanti” (3).

Una ordinata esposizione richiede, in via preliminare, di ripercorrere, sia pure in sintesi, la complessa vicenda processuale.

A tal fine, appare utile ripercorrere lo storico di lite, come descritto nell'ordinanza del Consiglio di Stato, evidenziandone i passaggi maggiormente significativi.

La vicenda processuale

L'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha accertato un'intesa orizzontale restrittiva della concorrenza in violazione dell'art. 101 TFUE tra le società ricorrenti, le quali avrebbero tra loro concertato strategie volte ad ostacolare la possibilità di impiego off-label del farmaco ad esclusivo uso ospedaliero “Avastin” per la cura di alcune patologie oculari. Tale strategia sarebbe consistita in “un piano condiviso volto a un'artificiosa differenziazione di Avastin e Lucentis” in ambito oftalmico “ottenuta manipolando la percezione dei rischi dell'uso off label in ambito oftalmico del primo per condizionarne la domanda” al fine di favorire le vendite del più costoso Lucentis. L'Autorità, oltre ad inibire le medesime società ad astenersi in futuro dal porre in essere comportamenti analoghi a quelli oggetto dell'infrazione accertata, ha irrogato, in ragione della gravità e durata delle infrazioni, delle cospicue sanzioni amministrative pecuniarie (4).

Nell'ambito del giudizio di appello venivano sottoposte alla Corte di giustizia una serie di questioni.

La Corte di Giustizia UE, con la sentenza 23 gennaio 2018, forniva i seguenti chiarimenti:

1)“L'articolo 101 TFUE dev'essere interpretato nel senso che, ai fini dell'applicazione di tale articolo, un'autorità nazionale garante della concorrenza può includere nel mercato rilevante, oltre ai medicinali autorizzati per il trattamento delle patologie di cui trattasi, un altro medicinale la cui autorizzazione all'immissione in commercio non copra detto trattamento, ma che è utilizzato a tal fine e presenta quindi un rapporto concreto di sostituibilità con i primi. Per determinare se sussista un siffatto rapporto di sostituibilità, tale autorità deve – sempreché le autorità o i giudici competenti a tal fine abbiano condotto un esame della conformità del prodotto in questione alle disposizioni vigenti che ne disciplinano la fabbricazione o la commercializzazione – tener conto del risultato di detto esame, valutandone i possibili effetti sulla struttura della domanda e dell'offerta”; 2) “L'articolo 101, paragrafo 1, TFUE dev'essere interpretato nel senso che un'intesa convenuta tra le parti di un accordo di licenza relativo allo sfruttamento di un medicinale la quale, al fine di ridurre la pressione concorrenziale sull'uso di tale medicinale per il trattamento di determinate patologie, miri a limitare le condotte di terzi consistenti nel promuovere l'uso di un altro medicinale per il trattamento delle medesime patologie, non sfugge all'applicazione di tale disposizione per il motivo che tale intesa sarebbe accessoria a detto accordo”; 3) “L'articolo 101, paragrafo 1, TFUE dev'essere interpretato nel senso che costituisce una restrizione della concorrenza «per oggetto», ai sensi di tale disposizione, l'intesa tra due imprese che commercializzano due medicinali concorrenti, avente ad oggetto – in un contesto segnato dall'incertezza delle conoscenze scientifiche – la diffusione presso l'Agenzia europea per i medicinali, gli operatori sanitari e il pubblico, di informazioni ingannevoli sugli effetti collaterali negativi dell'uso di uno di tali medicinali per il trattamento di patologie non coperte dall'autorizzazione all'immissione in commercio di quest'ultimo, al fine di ridurre la pressione concorrenziale derivante da tale uso sull'uso dell'altro medicinale”; 4) “L'articolo 101 TFUE dev'essere interpretato nel senso che una siffatta intesa non può giovarsi dell'esenzione prevista al paragrafo 3 di tale articolo”.

Con la sentenza n. 4990 del 2019, il Consiglio di Stato respingeva i ricorsi in appello.

Avverso tale sentenza venivano promossi ricorsi per la sua revocazione.

Il Consiglio di Stato, in questo contesto, sollevava una nuova questione pregiudiziale, avanti la Corte di giustizia, sui seguenti quesiti:

a) Se il giudice nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, in un giudizio in cui la domanda della parte sia direttamene rivolta a far valere la violazione dei principi espressi dalla Corte di Giustizia nel medesimo giudizio al fine di ottenere l'annullamento della sentenza impugnata, possa verificare la corretta applicazione nel caso concreto dei principi espressi dalla Corte di Giustizia nel medesimo giudizio, oppure se tale valutazione spetti alla Corte di Giustizia;

b) Se la sentenza del Consiglio di Stato n. 4990/2019 abbia violato, nel senso prospettato dalla parti, i principi espressi dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 23 gennaio 2018 in relazione a) all'inclusione nel medesimo mercato rilevante dei due farmaci senza tener conto delle prese di posizioni di autorità che avrebbero accertato l'illiceità della domanda e dell'offerta di Avastin off-label; b) alla mancata verifica della pretesa ingannevolezza delle informazioni diffuse dalle società (5);

c) Se gli articoli 4, paragrafo 3, 19, paragrafo 1, del TUE e 2, paragrafi 1 e 2, e 267 TFUE, letti anche alla luce dell'articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, ostino ad un sistema come quello concernente gli articoli 106 del codice del processo amministrativo e 395 e 396 del codice di procedura civile, nella misura in cui non consente di usare il rimedio del ricorso per revocazione per impugnare sentenze del Consiglio di Stato confliggenti con sentenze della Corte di Giustizia, ed in particolare con i principi di diritto affermati dalla Corte di Giustizia in sede di rinvio pregiudiziale”.

Il rinvio pregiudiziale viene effettuato nella consapevolezza che la sentenza impugnata “non pare aver violato i principi espressi dalla sentenza della Corte di giustizia (6)” al fine di “scongiurare la formazione del giudicato, con il conseguente consolidamento della supposta violazione del diritto comunitario” e nella consapevolezza che, allo stato, “non sussiste uno strumento atto a verificare e a garantire che una sentenza emessa da un organo giurisdizionale di ultimo grado non si ponga in contrasto con il diritto comunitario e, nello specifico, con i principi espressi dalla Corte di giustizia”.

In realtà, nel caso di specie, non sembra che il Consiglio di Stato si trovi di fronte a particolari difficoltà di comprensione quanto alla portata della decisione della Corte di giustizia resa il 23 gennaio 2018.

La ragione del rinvio si coglie a un livello più profondo.

Attiene al problema dell'individuazione del giudice competente a pronunciarsi “sulla supposta violazione dei principi affermati dalla Corte di giustizia nella precedente fase processuale”.

Questione che, a sua volta, rinvia al problema di fondo che il rinvio pregiudiziale intende esplorare: l'individuazione del confine tra interpretazione e applicazione della norma nell'ordinamento complesso ed il ruolo del rinvio pregiudiziale in questo contesto.

Le questioni sono state decise il 7 luglio 2022, con la sentenza della CGUE C-261/21.

Esaminiamo, in primo luogo, la mancata riapertura della fase orale.

La richiesta di apertura della fase orale

La Corte di giustizia, in data 24 febbraio 2022, comunicava alla Rosche Italia di giudicare la causa senza le conclusioni dell'Avvocato Generale.

Il giorno successivo – 25 febbraio 2022 – l'EMA rendeva nota l'adozione del parere negativo, del 24 febbraio 2022, relativo all'uso oftalmico del principio attivo bevacizumab.

Il parere sottolinea che le evidenze cliniche esistenti non dimostrano che le diverse produzioni di bevacizuab intraoculari siano equivalenti tra di loro.

Il parere, in ragione di questo presupposto, certifica che la somministrazione di bevacizumab in via itravirale non soddisfa i requisiti di sicurezza ed efficacia che devono caratterizzare il medicinale, ed esso non può quindi essere reputato sicuro dal momento che i relativi rischi superano i possibili benefici.

La Roche Italia, sulla base di questo parere, ha formulato istanza di apertura della fase orale (7) in presenza di un “fatto nuovo” ritenuto “tale da influenzare in modo decisivo la decisione della Corte”.

Il parere, secondo la Roche Italia, risulterebbe decisivo per la definizione del secondo quesito pregiudiziale formulato dal Consiglio di Stato che è bene ricordare:

“Se la sentenza del Consiglio di Stato n. 4990/2019 abbia violato, nel senso prospettato dalla parti, i principi espressi dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 23 gennaio 2018 in relazione a) all'inclusione nel medesimo mercato rilevante dei due farmaci senza tener conto delle prese di posizioni di autorità che avrebbero accertato l'illiceità della domanda e dell'offerta di Avastin off-label; b) alla mancata verifica della pretesa ingannevolezza delle informazioni diffuse dalle società”.

In sostanza, viene ribadita la centralità delle verifiche che spettavano al giudice del rinvio sulla base della sentenza del 23 gennaio 2018.

Verifiche, si legge nell'istanza, che attengono “in definitiva alla configurabilità stessa dell'asserita violazione dell'art. 101 TFUE, posto che l'illiceità della domanda e dell'offerta e/o la non ingannevolezza delle informazioni diffuse da Roche la escludono a priori”.

Ed invero, si legge nell'istanza, “l'illiceità (in termini di non conformità al quadro normativo-regolatorio) della prescrizione (domanda) e della produzione e commercializzazione (offerta) del c.d. Avastin off-label osta all'inclusione dello stesso nel medesimo mercato rilevante di Lucentis, dotato di A.I.C. per le patologie oculari in questione (cfr. il punto 52 della sentenza pregiudiziale del 23 gennaio 2018, causa C-179/16): i due prodotti non sarebbero dunque in concorrenza tra di loro, con la conseguenza che non poteva per definizione esservi alcun rapporto di concorrenza suscettibile di essere ristretto dalle condotte di Roche e di Novartis.

Inoltre, il mancato accertamento della natura ingannevole o meno delle informazioni diffuse risulta anch'esso decisivo, posto che l'ingannevolezza di tali informazioni è un requisito necessario, cumulativo ed aggiuntivo rispetto alla prova della concertazione, di per sé considerata come mero indizio (punti 91-92 della citata sentenza pregiudiziale) – perché si possa configurare, nel caso di specie, un'intesa restrittiva della concorrenza per oggetto ai sensi dell'art. 101 TFUE”.

La Corte, nella decisione del 7 luglio 2022, rigetta l'istanza in quanto “non idonea ad influenzare in modo determinante la decisione della Corte” considerato, peraltro, che “il giudice nazionale è il solo competente a conoscere e valutare i fatti della controversia”.

La decisione offre l'occasione per riflettere sull'istituto della riapertura della fase orale (8).

Il penultimo regolamento di procedura della Corte di giustizia, datato 19 giugno 1991, prevedeva, all'art. 61, una stringata disposizione sulla riapertura della fase orale (9) che lasciava ampia discrezionalità alla Corte di giustizia.

La Corte, in questo periodo (1991-2012) ha applicato l'art. 61: a) quando riteneva necessari ulteriori chiarimenti (10); b) quando doveva decidere la causa sulla base di un argomento che non era stato oggetto di discussione tra le parti (11).

Il nuovo regolamento di procedura, datato 25 settembre 2012, prevede, nell'art. 83, uno specifico elenco di ragioni che possono determinare la riapertura della fase orale.

In particolare, si legge che “La Corte, in qualsiasi momento, sentito l'avvocato generale, può disporre l'apertura o la riapertura della fase orale del procedimento, in particolare se essa non si ritiene sufficientemente edotta o quando, dopo la chiusura di tale fase, una parte ha prodotto un fatto nuovo, tale da influenzare in modo decisivo la decisione della Corte, oppure quando la causa dev'essere decisa in base a un argomento che non è stato oggetto di discussione tra le parti o gli interessati menzionati nell'art. 23 dello statuto” .

Dall'esame della giurisprudenza della Corte si evince che, in gran parte, le istanze sono state rigettate dalla Corte (12).

Nella maggior parte dei casi, si trattava di richieste di riapertura della fase orale per avere la possibilità di replicare alle conclusioni dell'avvocato generale.

In questi casi, la Corte ha rigettato le istanze ricordando come lo statuto e il regolamento di procedura non prevedono la facoltà per le parti di depositare osservazioni in risposta alle conclusioni presentate dall'avvocato generale (13).

In altri casi, nei quali la richiesta era accompagnata dalla produzione di un fatto nuovo (14), la Corte ha rigettato la richiesta perché “il fatto nuovo menzionato dalle parti non è tale da influenzare in modo decisivo la sentenza da pronunciare” oppure perché “tutti gli elementi necessari per risolvere le questioni sollevate sono stati dibattuti tra le parti" (15).

La decisione in commento si pone in linea di continuità con quest'ultimo orientamento.

Non manca, però, qualche caso in cui la Corte ha disposto la riapertura della fase orale come nella causa C-134/13, Raytek e Fluke Europe, sollevata dal giudice del Regno unito, nella causa C-689/13, Puligienica Facility Esco spa, sollevata dal Consiglio di giustizia amministrativa della Regione siciliana e nella causa C-524/15, Menci, sollevata dal Tribunale di Bergamo.

Ipotesi, nel complesso, assai residuali.

Ciò premesso, esaminiamo la decisione sulle questioni sollevate dal Consiglio di Stato.

Il principio di autonomia procedurale ed i suoi limiti

La Corte, in via preliminare, esamina la terza questione che è bene ricordare:


“Se gli articoli 4, paragrafo 3, 19, paragrafo 1, del TUE e 2, paragrafi 1 e 2, e 267 TFUE, letti anche alla luce dell'articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, ostino ad un sistema come quello concernente gli articoli 106 del codice del processo amministrativo e 395 e 396 del codice di procedura civile, nella misura in cui non consente di usare il rimedio del ricorso per revocazione per impugnare sentenze del Consiglio di Stato confliggenti con sentenze della Corte di Giustizia, ed in particolare con i principi di diritto affermati dalla Corte di Giustizia in sede di rinvio pregiudiziale”.

La Corte riformula il quesito escludendo dal suo oggetto l'art. 2, paragrafi 1 e 2, TFUE.

Il Consiglio di Stato, sotto il profilo dei rimedi, ricordava che, allo stato, “non sussiste uno strumento atto a verificare e a garantire che una sentenza emessa da un organo giurisdizionale di ultimo grado non si ponga in contrasto con il diritto comunitario e, nello specifico, con i principi espressi dalla Corte di giustizia”.

In particolare, “all'esito della decisione della Corte Costituzionale n. 123 del 26 maggio 2017 (…) è evidente che il ricorso per revocazione (…) deve essere dichiarato inammissibile, in quanto risulta essere stato proposto per una ipotesi non contemplata dall'ordinamento, ed è noto che per costante giurisprudenza civile (16) e amministrativa, attesa la sua eccezionalità, i casi di revocazione della sentenza sono di stretta applicazione, ai sensi dell'art. 14 delle preleggi”.

Considerato, però, che “non si è ancora formato un giudicato in violazione del diritto comunitario” e che il rimedio del risarcimento del danno implicherebbe per la parte gli oneri di un nuovo giudizio” il Consiglio di Stato, nella consapevolezza di una mancanza di una disciplina comunitaria volta ad armonizzare il diritto processuale nazionale (17), decide di chiedere alla Corte di giustizia “se gli articoli 4, paragrafo 3, 19, paragrafo 1, del TUE e 2, paragrafi 1 e 2, e 267 TFUE, letti anche alla luce dell'articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, ostino ad un sistema come quello concernente gli articoli 106 del codice del processo amministrativo e 395 e 396 del codice di procedura civile, nella misura in cui non consente di usare il rimedio del ricorso per revocazione per impugnare sentenze del Consiglio di Stato confliggenti con sentenze della Corte di Giustizia, ed in particolare con i principi di diritto affermati dalla Corte di Giustizia in sede di rinvio pregiudiziale”.

Occorre ricordare, in questo contesto, che il principio di tutela giurisdizionale effettiva dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell'Unione costituisce un principio generale del diritto dell'Unione derivante dalle tradizioni costituzionali degli Stati membri, che risulta confermato negli artt. 6 e 13 della CEDU nonché attualmente ribadito nell'art. 47 della Carta (18).

Spetta all'ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro, in forza del principio di autonomia processuale, stabilire le modalità processuali dei rimedi giurisdizionali a condizione, tuttavia, che tali modalità, nelle situazioni disciplinate dal diritto dell'Unione, non siano meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe dal diritto interno (principio di equivalenza) e che non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'Unione (principio di effettività) (19).

La Corte di giustizia esclude la violazione del principio di equivalenza (punti 44-46) richiamando il caso Randstad Italia, C-497/20 (20).

In quel caso, la Corte aveva escluso che l'art. 111, ottavo comma, della Costituzione, come interpretato nella sentenza n. 6/2018 della Consulta, violasse il principio di equivalenza laddove limitava la competenza della Corte suprema di Cassazione a trattare ricorsi avverso sentenze del Consiglio di Stato.

La questione della possibile violazione del principio di effettività è più delicata.

In via generale, occorre ricordare che il diritto dell'Unione non produce l'effetto “di obbligare gli Stati membri a istituire mezzi di ricorso diversi da quelli già contemplati dal diritto interno a meno che, tuttavia, dalla struttura dell'ordinamento giuridico nazionale in questione risulti che non esiste alcun rimedio giurisdizionale che permetta, anche solo in via incidentale, di garantire il rispetto dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell'Unione, o che l'unico modo per potere adire un giudice da parte di un singolo sia quello di commettere violazioni del diritto” (21).

La Corte di Lussemburgo, nell'interpretare l'effettività della tutela giurisdizionale, ha puntualizzato che le questioni relative all'interpretazione del diritto dell'Unione europea “godono di una presunzione di rilevanza” (22), come ricorda la Corte costituzionale nella sentenza n. 54 del 4 marzo 2022.

Ed è noto che, in base al principio del primato del diritto dell'Unione, è inammissibile che norme del diritto interno, quand'anche di rango costituzionale, pregiudichino l'unità e l'efficacia del diritto dell'Unione (23).

La Corte, richiamando questi principi, esclude, però, una violazione del principio di effettività perché: a) l'art. 19, paragrafo 1, secondo comma, Tue “non obbliga gli Stati membri a consentire ai singoli di chiedere la revocazione di una decisione giurisdizionale emessa in ultimo grado sulla base del motivo che quest'ultima violerebbe l'interpretazione del diritto dell'Unione fornita dalla Corte in risposta a una domanda di pronuncia pregiudiziale”, b) “tale conclusione non può essere rimessa in discussione” né alla “luce dell'art. 4, paragrafo 3, TUE” né in base all'art. 267 TFUE perché tale disposizione “non può essere interpretata nel senso che un organo giurisdizionale nazionale possa proporre alla Corte una domanda di pronuncia pregiudiziale volta a chiarire se detto organo giurisdizionale abbia correttamente applicato al procedimento principale l'interpretazione fornita dalla Corte in risposta a una domanda di pronuncia pregiudiziale da esso precedentemente sottopostale nello stesso procedimento”.

Tale conclusione, infine, non può essere rimessa in discussione neppure alla luce dell'art. 47 della Carta perché “quando i singoli hanno accesso, nel settore del diritto dell'Unione interessato, a un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge (…) il diritto di accedere a un siffatto giudice , sancito dalla Carta, è rispettato senza che sia possibile qualificare la norma di diritto nazionale che circoscrive la possibilità di chiedere la revocazione delle sentenze dell'organo di ultimo grado della giurisdizione amministrativa a situazioni eccezionali e tassativamente disciplinate come una limitazione, ai sensi dell'art. 52, paragrafo 1, della Carta, del suddetto diritto sancito all'art. 47 della stessa”.

La risposta della Corte era prevedibile.

La decisione sul caso Randstad non faceva pensare a soluzioni diverse (24).

Il diritto dell'Unione, in linea di principio, non osta a che gli Stati membri, conformemente al principio dell'autonomia processuale, limitino i casi di revocazione, purché siano rispettate le garanzie previste dall'art. 47 della Carta (25).

Se le norme di procedura nazionali garantiscono che sia rispettato il diritto all'esame nel merito del ricorso da parte di un giudice (di primo o secondo grado) la norma procedurale, di per sé, non viola l'art. 47 della Carta.

Spetta ai giudici nazionali degli Stati membri garantire la tutela giurisdizionale dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell'Unione.

L'art. 19, paragrafo 1 TUE impone “agli Stati membri di stabilire i rimedi giurisdizionali necessari per garantire una tutela giurisdizionale effettiva” (26).

Ed è noto che la Corte di giustizia ha già rilevato che l'obbligo imposto agli Stati membri ai sensi dell'art. 19, paragrafo 1, Tue “corrisponde al diritto sancito dall'art. 47 della Carta” (27).

Insomma, per la Corte di giustizia la questione deve essere risolta nei confini nazionali ed in base alle scelte che ogni Stato membro riterrà di adottare.

(Segue) Il problema della violazione dei principi stabiliti dalle sentenze della Corte di giustizia: tra risarcimento dei danni e nuove ipotesi di revocazione processuale

Ciò nondimeno, conclude la Corte nella sentenza esaminata, “i singoli che abbiano, eventualmente, subito un danno per effetto della violazione dei diritti loro conferiti dal diritto dell'Unione causata da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado possono far valere la responsabilità di tale Stato membro, purché siano soddisfatte le condizioni relative al carattere sufficientemente qualificato della violazione e all'esistenza di un nesso causale diretto tra tale violazione e il danno subito da tali soggetti”.

Ed era questa la vera ragione che aveva spinto il Consiglio di Stato, per ragioni “difensive” (28) a sollevare, nuovamente, un rinvio pregiudiziale avanti la Corte di giustizia.

Ragione che viene ribadita dal Consiglio di Stato nell'ordinanza di rinvio pregiudiziale n. 2545 del 6 aprile 2022 dove viene evidenziata la difficoltà per il giudice nazionale di ultima istanza di applicare correttamente i criteri elencati nella sentenza Cilfit (29).

Il Consiglio di Stato, nell'operare il rinvio pregiudiziale, sembra, infatti, condizionato dalla preoccupazione della minaccia di azioni di responsabilità (30).

Il tema è estremamente delicato.

Il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia non deve mutare il suo DNA.

In altre parole, l'istituto del rinvio pregiudiziale non può subire una mutazione genetica a causa di possibili azioni risarcitorie alle quali risulta esposto il giudice nazionale di ultima istanza.

Certo l'orientamento Francovich deve essere letto alla luce dell'evoluzione della giurisprudenza della Corte di giustizia.

Dalla sentenza Brasserie du pecheur e Factortame (31) risulta che gli Stati membri sono tenuti a fornire un risarcimento in relazione a una violazione sufficientemente caratterizzata del diritto dell'Unione qualora, da parte loro, sussista una “violazione manifesta e grave (…) dei limiti posti al loro potere discrezionale”.

In sostanza, gli inadempimenti giudiziari potrebbero essere giustificati adducendo che essi sono stati commessi in buona fede o sarebbero altrimenti scusabili alla luce delle circostanze o, in ogni caso, non sarebbero “manifesti e gravi” (32).

Ma non sembra che tale “rassicurazione” sia stata sufficiente per azzerare le “preoccupazioni” dei componenti delle Alte Corti.

Occorre evidentemente qualcosa di più.

La strada maestra è l'intervento del Legislatore, che appare in questo contesto auspicabile.

Il Legislatore nazionale, in linea con i suggerimenti forniti dalla nostra Corte costituzionale (33), potrebbe, infatti, introdurre un nuovo caso di revocazione con riferimento alle violazioni dei principi contenuti nelle sentenze della Corte di giustizia (34) estendendo a questo caso la nuova ipotesi di revocazione delle sentenze rese dal giudice civile ed amministrativo, prevista dall'art. 1, comma 10, della legge n. 206/2021, per le ipotesi di contrasto con una decisione della Corte dei diritti dell'uomo.

Un modo, elegante, per depotenziare quella sorta di “guerra delle Corti” combattuta sull'interpretazione dell'art. 111 della Costituzione.

In mancanza di tale intervento, resta sempre possibile sollevare una questione di legittimità costituzionale degli artt. 395, 396 del codice di procedura civile, nonché dell'art. 106 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, con riferimento agli artt. 24 e 117 della Cost. utilizzando, come parametro interposto l'art. 47 della Carta (35).

Obblighi derivanti da una sentenza pregiudiziale. L'evoluzione dell'oggetto del rinvio pregiudiziale

La Corte di giustizia, alla luce della risposta fornita alla terza questione, ha ritenuto che “non occorre rispondere alla prima e seconda questione”.

Le questioni evocate dal Consiglio di Stato in queste questioni mantengono, però, tutta la loro importanza.

Un approfondimento delle stesse appare utile in attesa che vengano riproposte.

Conviene procedere per gradi, ricordando, in primo luogo, gli effetti delle sentenze della Corte di giustizia ed il mutamento dell'oggetto del rinvio pregiudiziale.

Le decisioni della Corte di giustizia hanno valenza di “fonte del diritto” (36) ed effetto e portata vincolante per il giudice remittente (37) e per le giurisdizioni superiori di grado superiore chiamate a pronunciarsi sulla medesima causa (38).

L'efficacia della sentenza della Corte di giustizia non è limitata al processo, ma si estende anche al di fuori del giudizio principale (efficacia extraprocessuale) (39) con effetto anche per gli altri giudici e le amministrazioni nazionali (40) che devono fare applicazione delle norme dell'UE nell'interpretazione datane dalla Corte di giustizia (41) (42).

L'efficacia delle sentenze della Corte di giustizia, peraltro, non è limitata all'ordinamento dello Stato in cui deve trovare applicazione ma estende la sua portata vincolante a tutti gli Stati membri dell'ordinamento dell'Unione (43).

Ma non basta.

Di fronte al dubbio di non conformità sarà sufficiente che il giudice di merito si rivolga alla Corte di giustizia con un rinvio pregiudiziale per “trasformare”, con la mediazione della sentenza della CGUE, l'atto comunitario (ad esempio una direttiva self executing che, però, è priva di effetti orizzontali) in un atto (la sentenza) che vale come diritto comunitario immediatamente applicabile (44).

Con la conseguenza (per il giudice nazionale) di potere decidere la controversia in base all'applicazione del diritto comunitario discendente dall'interpretazione della Corte di giustizia (45).

Una sentenza-norma che crea una sorta di nomofilachia europea (46) vincolante per tutti i giudici dell'Unione.

Se combiniamo l'efficacia della sentenza-norma della Corte di giustizia con il mutamento dell'oggetto del rinvio pregiudiziale, il risultato è straordinario.

Non si tratta più (o, almeno, soltanto) di chiedere alla Corte di giustizia di interpretare il diritto dell'Unione europea.

Il quesito (formulato nei termini di: se tali norme del diritto dell'Unione ostino a che sia applicata la tale norma del diritto nazionale) comporta che la CGUE deve effettuare una diretta valutazione della compatibilità della norma interna rispetto a quella dell'ordinamento europeo secondo uno schema simile a quello utilizzato dal giudice nazionale quando solleva una questione di legittimità costituzionale.

In tal modo, come è stato sottolineato (47) “la funzione della Corte di giustizia, che pure formalmente non si pronuncia sulla legge interna (né sulla sua interpretazione, rimessa ai giudici interni, né sulla sua validità) diviene in sostanza del tutto assimilabile ad un sindacato accentrato di conformità delle leggi interne a vincoli che esse incontrano (nella specie il vincolo del rispetto degli obblighi derivanti dall'ordinamento comunitario, che sul piano interno si fonda sull'art. 11 e sull'art. 117, comma 1, della Cost.), strutturalmente non dissimile da quello della Corte costituzionale: con l'unica differenza che la pronuncia di quest'ultima, se riconosce l'illegittimità della legge, la dichiara con effetto erga omnes, di cessazione di efficacia della stessa, mentre la pronuncia della Corte di giustizia si limita a imporre al giudice interno di non applicare la legge riconosciuta incompatibile con il diritto comunitario nel caso sottoposto al suo esame, anche se di fatto non potrà non essere seguita, con effetto di disapplicazione della stessa norma interna anche negli altri casi simili”.

Siamo in presenza di una trasformazione del DNA della Corte di giustizia che alla veste di giudice di legittimità (sul piano europeo) sembra aggiungere funzioni da Corte costituzionale europea in linea, peraltro, con la valenza costituzionale della Carta dei diritti fondamentali ormai riconosciuta dalla nostra Corte costituzionale (48).

(Segue) Le indicazioni al giudice remittente. La zona grigia tra fatto e diritto

La trasformazione dell'oggetto del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia comporta, peraltro, che la Corte, sempre più spesso, non si limita a fissare un “principio” che il giudice remittente deve osservare.

La Corte va oltre, “concretizzando” (49) tale principio in una serie di indicazioni che consentono al giudice nazionale di modulare l'applicazione del “principio” in base alle diverse articolazioni che il “fatto” presenta nella singola fattispecie.

Un esempio può chiarire meglio questa evoluzione nei rapporti tra giudice nazionale e Corte di giustizia.

Il Tribunale del lavoro di Madrid, nella causa C-550/19, chiedeva alla Corte di giustizia se l'art. 3, paragrafo 1, primo comma, della direttiva 2001/23 dovesse essere interpretato nel senso che “esso osta a una normativa nazionale secondo la quale, in caso di trasferimento di personale nell'ambito di contratti pubblici, i diritti e gli obblighi del lavoratore trasferito che l'impresa entrante è tenuta a rispettare si limitano esclusivamente a quelli derivanti dall'ultimo contratto che tale lavoratore ha stipulato con l'impresa uscente”.

La Corte di giustizia, dopo aver accertato l'esistenza, nella specie, di un trasferimento d'impresa (50), ha precisato che “non si può dedurre che il trasferimento degli elementi materiali debba essere considerato in abstracto il solo fattore determinante di un trasferimento d'impresa la cui attività riguarda un settore in cui gli elementi materiali contribuiscono in modo rilevante all'esercizio di tal attività. Pertanto, per determinare se il mancato trasferimento dei mezzi di esercizio osti alla qualificazione come trasferimento d'impresa, il giudice del rinvio deve tener conto delle circostanze specifiche del procedimento di cui è investito” (punto 100).

La Corte riprende, in questo passaggio, un distinguo importante operato rispetto alla sentenza Liikenne (51) nella sentenza Grafe e Pohle (52).

La valutazione, in questo contesto, dell'esistenza di un trasferimento d'impresa viene rimessa al giudice del rinvio che, in particolare, dovrà verificare “se (…) l'attività di cui al procedimento principale non richieda materiale specifico e sia fondata essenzialmente sulla manodopera o se, al contrario, come fanno valere la Obras y Servicios Publicos e l'Acciona Agua, tale attività non possa essere qualificata come attività che si basa essenzialmente sulla manodopera, dal momento che quest'ultima costituirebbe un elemento chiaramente accessorio rispetto agli elementi materiali richiesti per l'esecuzione dell'appalto pubblico in questione e questi ultimi non sarebbero stati trasferiti”(punto 96).

Il giudice del rinvio, in questo contesto, non è solo vincolato quanto all'interpretazione della norma dell'Unione, ma anche alle “verifiche” che la Corte gli ha demandato su elementi di fatto e di diritto della vicenda processuale e sostanziale all'origine del rinvio, verifiche necessarie perché la risposta alla Corte non resti incompleta e per ciò stesso inidonea alla corretta applicazione della norma così interpretata (53).

Ed è in questo contesto che, inevitabilmente, si creano delle zone d'ombra tra interpretazione e applicazione della norma sulle quali dobbiamo soffermarci.

La violazione dei principi espressi nelle sentenze della Corte di giustizia. Il giudice competente

A norma dell'art. 267, primo comma, TFUE, la Corte di giustizia è competente a pronunciarsi in via pregiudiziale sull'interpretazione dei Trattati o sulla validità o l'interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell'Unione (54).

L'applicazione del diritto dell'Unione, sia che segua gli orientamenti espressi dalla Corte di giustizia sia in mancanza di essa, spetta ai giudici nazionali.

Appartiene, in sostanza, al giudice nazionale in via esclusiva il potere di decidere la controversia e di valutare i fatti e le emergenze istruttorie (55), applicando le norme di diritto comunitario al caso concreto.

La Corte di giustizia “non è competente a pronunciarsi sui fatti della causa principale, dato che tali questioni rientrano nella competenza esclusiva del giudice nazionale” (56).

Il procedimento ex articolo 267 TFUE è basato su una netta separazione di funzioni tra i giudici nazionali e la Corte di giustizia (57).

Il giudice nazionale è l'unico competente a conoscere e valutare i fatti della controversia, nonché ad interpretare e applicare il diritto nazionale (58).

Enunciato il principio di diritto da parte della Corte di giustizia spetterà al giudice nazionale contestualizzare la regola iuris in relazione alle peculiarità del caso concreto (59).

Il Consiglio di Stato è perfettamente consapevole di questa ripartizione di competenze. Tuttavia, considerato che la domanda proposta dalla società, nella fase rescindente, si fonda soltanto e necessariamente sulla supposta violazioni dei principi affermati dalla Corte di giustizia nella precedente fase processuale, ritiene che “anche le circostanze di fatto e i relativi elementi di prova, che in base alla giurisprudenza già citata dovrebbero essere di esclusiva valutazione del giudice nazionale, vengono a costituire – nella loro prospettata errata o mancata valutazione da parte del giudicante – gli specifici parametri alla stregua dei quali verificare la sussistenza o meno della dedotta violazione dei principi di diritto affermati dalla Corte di giustizia”.

L'affermazione è stata considerata poco “persuasiva” (60) perché il nuovo rinvio alla Corte di giustizia può riguardare la sufficienza dei chiarimenti “e non la loro corretta applicazione”.

Saremmo in presenza (61) “di un malcelato, e finora sconosciuto, strumento impugnatorio, la cui attivazione peraltro esporrebbe a responsabilità lo Stato membro, con tutte le conseguenze immaginabili in tema di dilatazione dei tempi processuali e di sovraccarico della Corte” (62).

Il tema è estremamente delicato.

Com'è noto, “l'applicazione della legge può includere alcuni elementi relativi alla sua interpretazione. Per contro, l'interpretazione della legge difficilmente può essere effettuata in modo astratto, senza tener conto delle circostanze (63) di un singolo caso o di singoli casi, nel valutare la fondatezza dell'interpretazione proposta" (64).

Il nudo fatto non è portatore di domande.

“Comincia ad esserlo quando ha di fronte a sé qualcuno che a esso deve “reagire” e questo “qualcuno” lo comprende (…) attribuendogli un “senso” o significato, per mezzo delle proprie categorie di significato, e un “valore” per mezzo delle sue categorie di valore. Il fatto allora diventa “caso” attraverso l'inevitabile comprensione di significato e di valore da parte di colui che è chiamato a dare risposte (…) in termini di diritto” (65).

Non è, quindi, possibile indicare, in termini astratti e in generale, “dove termini l'interpretazione e dove inizi l'applicazione della legge (e viceversa)” (66).

Questo non significa che interpretazione e applicazione siano la stessa cosa.

Con l'interpretazione si attribuisce un significato ad un testo (67) normativo.

“La disposizione è (…) l'oggetto dell'interpretazione, la norma è il suo risultato. O, detto altrimenti, la disposizione è fonte della norma attraverso l'interpretazione” (68).

Con “l'interpretazione in astratto” si “riduce l'indeterminatezza dell'ordinamento in quanto tale, identificando norme esistenti; mentre l'interpretazione in concreto riduce l'indeterminatezza delle norme, identificando i casi concreti regolati da ciascuna norma” (69).

L'applicazione “è l'uso di una norma fatta da un organo ufficiale, dotato di un potere di risolvere la controversia (un “caso”) o comunque del potere di prendere una decisione autoritativa, cioè in maniera vincolante nei confronti dei soggetti coinvolti nella controversia o dei destinatari della decisione” (70).

Se l'interpretazione è svolta in un contesto finalizzato all'applicazione “allora è verosimile che le circostanze dell'applicazione di fatto condizionino il processo interpretativo, cioè che l'interpretazione svolta dall'organo dell'applicazione risenta (o, a secondo dei punti di vista, debba risentire) delle caratteristiche del caso concreto da decidere” (71).

Resta fermo, in questo contesto, che “il ruolo primario della Corte di giustizia dovrebbe essere l'articolazione o l'affinamento della normativa, la premessa maggiore basata sul diritto dell'Unione da applicare nel procedimento principale (il suo chiarimento, restrizione, ampliamento, previsione di una eccezione e così via)” (72).

Ipotesi che si è verificata, ad esempio, in materia di distacco dei lavoratori.

Il giudice amministrativo austriaco ha sottoposto alla Corte una domanda di pronuncia pregiudiziale vertente sulla conformità al diritto dell'Unione e, segnatamente, al principio di proporzionalità, di sanzioni quali quelle previste dalla normativa nazionale.

La CGUE, nella sua ordinanza del 19 dicembre 2019 (C-645/18), ha dichiarato che l'art. 20 della direttiva 2014/67 deve essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale che prevede, in caso di inosservanza di obblighi in materia di diritto del lavoro relativi alla dichiarazione di lavoratori e alla conservazione di documentazione salariale, l'irrogazione di sanzioni pecuniarie di importo elevato a certe condizioni.

Il giudice amministrativo, a seguito di tale ordinanza, rilevava che il legislatore nazionale non aveva modificato la normativa in materia e che si era creato, tra i giudici austriaci, diversità di opinioni circa le modalità in cui doveva essere applicata la giurisprudenza della Corte in materia.

Di qui, un secondo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia che si è concluso con la sentenza della Grande sezione dell'8 marzo 2022, C-205/20, che ha precisato che l'art. 20 della direttiva 2014/67/UE è dotato di effetto diretto.

L'applicazione del diritto dell'Unione, come eventualmente precisato da una seconda sentenza della Corte di giustizia, resta, ovviamente, affidato ai giudici nazionali.

È giusto ammettere, però, “che tali confini diventano un po' confusi quando elementi fattuali ristretti vengono fatti rientrare nella premessa maggiore definita dal diritto dell'Unione. In casi del genere, un giudice del rinvio potrebbe, infatti, essere perfettamente legittimato ad assicurarsi che elementi di fatto nuovi e diversi facciano effettivamente parte della norma giuridica che la Corte intendeva formulare” (74).

A ben vedere (al di là della complessità del caso) non sembra che ciò si verifichi nella fattispecie in esame.

La ragione del rinvio pregiudiziale, a ben vedere, sembra diverso e attinge a un livello più profondo.

Nella sostanza, si chiede alla Corte di giustizia di precisare quale sia il livello di astrazione nel suo compito interpretativo.

Lo chiarisce, perfettamente, l'Avvocato generale BOBEK, nelle sue conclusioni del 15 aprile 2021 (C-561/19).

Si tratta di passare “dall'inesistenza di un ragionevole dubbio soggettivo quanto alla corretta applicazione del diritto dell'Unione riguardo ad una specifica controversia all'esistenza di una divergenza oggettiva individuata nella giurisprudenza a livello nazionale, che pone quindi in pericolo l'interpretazione uniforme del diritto dell'Unione all'interno dell'Unione europea” (75).

Certo, è sempre più frequente che i giudici nazionali sottopongano alla Corte di giustizia questioni fattuali (come avviene, nel caso di specie, con riferimento alla seconda questione).

Ma come ricorda l'Avvocato generale Jacobs le “soluzioni dettagliate a specifiche questioni non sempre promuovano (un') applicazione uniforme. Siffatte soluzioni possono semplicemente dare origine ad altre questioni” (76).

L'obbligo del rinvio pregiudiziale “dovrebbe sorgere ogni qual volta un giudice nazionale di ultima istanza si trovi di fronte ad una questione di interpretazione del diritto dell'Unione, formulata a un livello di astrazione ragionevole e appropriato. Tale livello di astrazione è logicamente definito dalla portata e dallo scopo della norma giuridica di cui trattasi. Nel particolare contesto delle (indeterminate) nozioni giuridiche del diritto dell'Unione, la corte ha il compito di fornire un'interpretazione di tale nozione. La sua applicazione, compresa la sussunzione di fatti specifici in tale definizione, è una questione di applicazione del diritto dell'Unione” (77).

La sentenza della Grande sezione del 6 ottobre 2021 (C-561/19)[24] sembra accogliere, almeno in parte, questa impostazione specie laddove afferma che il giudice nazionale non “può certamente essere tenuto ad effettuare, a tal riguardo, un esame di ciascuna delle versioni linguistiche della disposizione dell'Unione di che trattasi”.

Un'indicazione che sembra andare “nella direzione di una sorta di “oggettivazione” della questione che potrebbe segnare il passaggio dal convincimento soggettivo sulla mancanza di dubbi interpretativi alla prospettiva oggettiva della manifesta infondatezza della questione” (78).

Sull'insieme di queste questioni la Corte ha, però, deciso di non rispondere.

Ma sono questioni della massima importanza sulle quali, prima o poi, la Corte di giustizia dovrà fornire delle preziose indicazioni.

Note

(*) Avvocato e Dottore di ricerca in Diritto civile - Università Ca' Foscari di Venezia; Avvocato Giuslavorista presso il foro di Catania. Il contributo è frutto di una riflessione comune. Tuttavia i paragrafi dal n. 1 al n. 5 sono da attribuire a Roberta Cosio, mentre quelli dal n. 6 al n. 8 a Roberto Cosio.

(1) Sull'ordinanza del Consiglio di Stato n. 2327/21 si veda B. NASCIMBENE e P. PIVA, Rinvio pregiudiziale e garanzie giurisdizionali effettive. Un confronto fra diritto dell'Unione e diritto nazionale, Giustizia insieme, 30 luglio 2021

(2) Quando tali contrasti sono stati rilevati, la Corte di giustizia ha fatto salva la res iudicata pronunciata in violazione del diritto comunitario, ad eccezione di quei casi in cui vengono in questione principi che disciplinano la ripartizione delle competenze tra gli Stati membri e l'Unione europea in materia di aiuti di stato. Si vedano le sentenze Lucchini (CGUE 18 luglio 2007, C-119/05), Olimpliclub (CGUE 3 settembre 2009, C- 2/08) e Klausner (CGUE 11 novembre 2015, C-505/14). In dottrina, tra gli altri, si veda P. BIAVATI, La sentenza Lucchini: il giudicato nazionale cede al diritto comunitario, Rass. Trib., 2007, 1591; C. CONSOLO, Il primato del diritto comunitario può spingersi fino ad intaccare la “ferrea” forza del giudicato sostanziale?, Corriere giuridico, 2007, 1189 ss; G. PERONI, Il diritto comunitario prevale sul giudicato sostanziale, Dir. comm. Int., 2008, 1 ss; E. SCODITTI, Giudicato nazionale e diritto comunitario, Foro it., 2007, 532 ss; M. T. STILE, La sentenza Lucchini sui limiti del giudicato: un traguardo inaspettato?, Dir. com. sc. Int., 2007, 733 ss; B. ZUFFI, Il caso Lucchini infrange l'autorità del giudicato nazionale nel campo degli aiuti di stato, Giur. it., 2008, 382 ss.

(3) Cfr. Corte Cost. n. 389/1989.

(4) Sulle problematiche antitrust oggi maggiormente dibattute si veda Antitrust fra diritto nazionale e diritto dell'Unione europea, (a cura di E. A. RAFFAELLI), Lefebvre Sarrut Belgium SA, 2021.

(5) Sul tema si veda A. ROSANO, F. Hoffmann-La Roche LTD e altri: Le informazioni ingannevoli possono nuocere alla salute ..e alla concorrenza, www.europeanpapers.eu

(6) La considerazione che “già sul piano astratto, non pare ravvisabile la dedotta grave violazione del diritto comunitario” pone un problema sulla “rilevanza” delle questioni al fine del decidere (sul tema si veda R. PAPPALARDO, La corsa al dialogo nella discordia sulla giurisdizione, Giustizia insieme, 19 ottobre 2021 e, per la giurisprudenza, l'ordinanza delle Sezioni Unite del 3 novembre 2021, n. 31311). Occorre peraltro ricordare che i giudici nazionali mantengono la più ampia facoltà di adire la Corte di giustizia qualora lo ritengano opportuno, anche nell'ipotesi di un primo rinvio pregiudiziale (CGUE, sentenza 3 marzo 2020, C-323/18, punto 46). Secondo la Corte “Tale domanda può essere giustificata quando un giudice nazionale si trovi di fronte a difficoltà di comprensione o di applicazione della sentenza” (CGUE, sentenza 6 marzo 2003, C-466/00, punto 39). Il rinvio in esame trova, comunque, giustificazione nel fatto che vengono sollevate questioni diverse da quelle poste nel primo rinvio pregiudiziale. In questo contesto, è utile ricordare quanto precisato dalla Consulta in ordine alla possibilità “che i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso necessaria anche al termine del procedimento incidentale di legittimità costituzionale” (Corte Cost. Ordinanza 10 maggio 2019, n. 117), in un quadro di dialogo con la Corte di giustizia affinché sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico” (Corte Cost. Sentenza n. 63 del 2019).

(7) Presentata il 16 marzo 2022.

(8) Per una trattazione sistematica del contenzioso “comunitario” si veda V. GIACOBBO- PEYRONNEL, C. VERDURE. (sous la direction de), Contentieux du droit de la concurrence de l'Unione europèenne. Questions d'actualitè et perspective, Bruxell, 2017, P. BIAVATI, Diritto processuale dell'Unione europea, Milano, 2015.

(9) Sulla distinzione tra apertura e riapertura della fase orale si veda P. IANNUCCELLI, Apertura e riapertura della fase orale nell'ambito del rinvio pregiudiziale. Qualche spunto di riflessione, in La Corte di giustizia dell'unione europea oltre i trattati: La riforma organizzativa e processuale del triennio 2021-2015 (a cura di C. AMALFITANO e M. CONDINANZI), Milano, 2018, 173 ss.

(10) CGUE ord. 21 aprile 2010, C-382/08.

(11) CGUE ord. 23 settembre 1998, C-262/96.

(12)

Sul tema si veda E. URZI',

L'istituto della riapertura della fase orale nell'ambito del rinvio pregiudiziale nel nuovo regolamento di procedura della Corte di giustizia

, in

La Corte di giustizia dell'unione europea oltre i trattati, cit. 173 ss.

(13) Ad es. CGUE sentenza 16 dicembre 2010, C-266/09, punto 28.

(14) Nel saggio della E. URZI', L'istituto della riapertura della fase orale nell'ambito del rinvio pregiudiziale, cit. 159-163, ne vengono analizzati nove.

(15) Tra i casi più recenti si veda CGUE sentenza 6 ottobre 2021, C-882/19, punti da 16 a 22.

(16) L'orientamento costante del Consiglio di Stato (CDS 25 novembre 2016, n. 4983) è nel senso che la “svista” che autorizza e legittima la proposizione del rimedio della revocazione, tendenzialmente eccezionale anche nel caso di c. d. revocazione ordinaria (Cass. n. 1957/1983) è rappresentata o dalla mancata esatta percezione di atti di causa, ovvero dall'omessa statuizione su una censura o su una eccezione ritualmente introdotta nel dibattito processuale”. In dottrina non manca chi (B. NASCIMBENE e P. PIVA, Rinvio pregiudiziale e garanzie giurisdizionali effettive, cit.) sostiene che “dovrebbe prevalere un'interpretazione che faccia salva l'effettività del mezzo di ricorso anche alla luce del principio “comunitario” di cui all'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali” (in generale sul tema si veda D.P. DOMENICUCCI, F. FILPO, Art. 47. Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale, in AA.VV., Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, a cura di R. MASTROIANNI, O. POLLICINO, S. ALLEGREZZA, F. PAPPALARDO, O RAZZOLINI, Milano, 2017, 864 ss.). Sulla revocazione nel processo amministrativo si veda S. TARULLO, Giudizio revocatorio e “forza della prevenzione”, Giur. It., 2014, 940. Sulla necessità di ridisegnare sistematicamente un nuovo punto di equilibrio tra i valori della certezza e stabilità della cosa giudicata e dell'esigenza di giustizia sostanziale si veda V. COLESANTI, La revocazione è diventata un istituto inutile?, Riv. dir. proc., 2014, 1, 26 ss.e L.P. COMOGLIO, Requiem per il processo “giusto”, Nuova giur. civ., 2013, 1 ss.

(17) In dottrina R. ADAM e A. TIZZANO, Manuale di diritto dell'Unione, Torino, 2017, 357, si è osservato che la Corte si è riservata una sorta di droit de regard sugli ordinamenti nazionali, per verificare non tanto se essi garantiscano un livello minimo di protezione, bensì se le condizioni procedurali e sostanziali previste siano o meno conformi a parametri di adeguatezza ed effettività che la Corte desume dal corpus del diritto Ue o dai principi generali.

(18) CGUE, sentenza 15 luglio 2021, C-791/19, punto 52.

(19) CGUE, sentenza 10 marzo 2021, C-949/19, punto 43.

(20) Commentata su questa Rivista da R. RORDORF. Sul tema si veda, tra gli altri, M. CLARICH, Giurisdizione: “partita a poker tra Cassazione e Consulta sulle sentenze del Consiglio di Stato, in ntpusdiritto.ilsole24ore, 14 ottobre 2020; G. TROPEA, Il Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), in Giustizia insieme, 7 ottobre 2020; G. COSTANTINO, A. CARATTA, G. RUFFINI, Limiti esterni e giurisdizione: il contrasto fra Sezione Unite e Corte Costituzionale arriva alla Corte Ue. Note a prima lettura di Cass. SS. UU. 18 settembre 2020, n. 19598, in Questione giustizia, 19 ottobre 2020; M. MAZZAMUTO, Le Sezioni Unite della Cassazione garanti del diritto UE?, in Rivista Italiana di diritto pubblico comunitario, fasc. 5, 2020.

(21) CGUE, sentenza 21 dicembre 2021, C-497/20, punto n. 62.

(22) CGUE, sentenza 2 settembre 2021, C-350/20, punto 39.

(23) CGUE, sentenza 22 giugno 2022, C- 439/19, punto 135.

(24) Il caso Randstad, sollevato dalle Sezioni Unite della Cassazione con ordinanza del 18 settembre 2020, n. 19598 (Foro it., 2020, I, 3391, con note di A TRAVI e E. CALZOLAIO) ha dato luogo ha un dibattito pubblicato su Giustizia insieme, del 1 febbraio 2022. La conclusione della vicenda (“dalla quale non pare esca molto bene nessuno dei vertici giurisdizionali italiani” afferma R. RORDORF nel contributo edito Giustizia insieme del 31 gennaio 2022) era prevedibile (cfr. E. ZAMPETTI, Diritto dell'Unione europea e art. 111, co 8 Cost.. Considerazioni a margine del caso Randstad sui profili problematici della nomofilachia differenziata, Giustizia insieme, 14 luglio, 2022). Ribadisce R. RORDORF in un contributo edito su questa Rivista, Brevi note ancora sul caso Randstad, che “se c'è un terreno sul quale il diritto dell'Unione e, per parte sua, la Corte di giustizia appaiono particolarmente cauti nell'invadere la sfera di competenza dei singoli ordinamenti nazionali, quello è certamente il terreno del diritto processuale”. La giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. S.U., 12 luglio 2022, n. 22016, 10 giugno 2022, n. 18802, e 27 maggio 2022, n. 17339) si è subito adeguata alle indicazioni provenienti dalla Corte di giustizia, ribadendo che il ricorso in Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione è proponibile nei soli casi di difetto assoluto di giurisdizione (configurabile quando il giudice speciale affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all'amministrazione ovvero, al contrario, quando la neghi sull'erroneo presupposto che la materia non possa formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale) e nei casi di difetto relativo di giurisdizione (che ricorre quando il giudice amministrativo o contabile affermi la sua giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la neghi sul presupposto che appartenga ad altri giudici). Con la precisazione che tale rimedio non è utilizzabile nemmeno per fare valere violazioni del diritto dell'Unione europea ascritte al giudice amministrativo, il cui accertamento rientra nell'ambito dei limiti interni della giurisdizione perché attinenti alle modalità del suo esercizio.

(25) Si veda CGUE sentenza 17 marzo 2016, C-161/15, punto 27.

(26) CGUE sentenza 14 giugno 2017, C-685/15, punto 54.

(27) CGUE sentenza 27 settembre 2017, C-73/16, punto 58.

(28) Sulle conseguenze del mancato rinvio pregiudiziale e l'azione di risarcimento del danno si veda F. SPITALERI, Facoltà e obbligo del rinvio pregiudiziale, in F. FERRARO, C. IANNONE (a cura di), Il rinvio pregiudiziale, Torino, 2020, 113 e P. DE PASQUALE, Inespugnabile la roccaforte dei criteri CILFIT (causa C-561/19), Quaderni AISDUE, 2021, 179.

(29) Cfr F. FERRARO, Corte di giustizia e obbligo di rinvio pregiudiziale del giudice di ultima istanza: nihil sub sole novum, Giustizia insieme, 23 ottobre 2021. Sul tema si veda Cons. St., sez. IV, 14 luglio 2022, n. 6013 - Pres. Poli, Est. Martino in Giustizia Amministrativa, dove si legge che “allo scopo di prevenire la proposizione dell'azione di risarcimento del danno (ma anche la certezza di essere coinvolti in un accertamento disciplinare) – il giudice nazionale è costretto a disporre un rinvio pregiudiziale pur che sia, allungando di molto i tempi di risoluzione della controversia, in violazione del principio costituzionale (art. 111, comma 2, Cost.) ed europeo (art. 47, comma 2, Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea), della ragionevole durata del processo”.

Il Consiglio di stato è tornato sul tema con sentenza non definitiva del 21 luglio 2022, n. 6410, in una fattispecie in cui l'interessato lamentava la violazione del diritto comunitario, da parte dell'art. 1, co. 3, b-bis della l. 6 agosto 1926, n. 1365, modificato dall'art. 66 della l. 18 giugno 2009, n. 69, che prevede l'esclusione dal concorso notarile di chi ha già conseguito tre inidoneità all'esito delle prove scritte. Il Consiglio di stato, pur prendendo atto di un pregresso orientamento che riteneva compatibile la disciplina nazionale con quella “euro-unitaria”, ha ritenuto di sottoporre alla Corte di giustizia alcune questioni pregiudiziali “di metodo”, incentrate sul tormentato rapporto fra obbligo di rinvio pregiudiziale e i principi internazionali e costituzionali della indipendenza del giudice e della ragionevole durata del processo. Alla luce di tali considerazioni, il Consiglio di stato ha sottoposto alla Corte di giustizia i quesiti che di seguito si riportano, secondo l'ordine logico proprio:

“a) se la corretta interpretazione dell'art. 267 TFUE imponga al giudice nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, di operare il rinvio pregiudiziale su una questione di interpretazione del diritto unionale rilevante nell'ambito della controversia principale, anche qualora possa escludersi un dubbio interpretativo sul significato da attribuire alla pertinente disposizione europea - tenuto conto della terminologia e del significato propri del diritto unionale attribuibili alle parole componenti la relativa disposizione, del contesto normativo europeo in cui la stessa è inserita e degli obiettivi di tutela sottesi alla sua previsione, considerando lo stadio di evoluzione del diritto europeo al momento in cui va data applicazione alla disposizione rilevante nell'ambito del giudizio nazionale – ma non sia possibile provare in maniera circostanziata, sotto un profilo soggettivo, avuto riguardo alla condotta di altri organi giurisdizionali, che l'interpretazione fornita dal giudice procedente sia la stessa di quella suscettibile di essere data dai giudici degli altri Stati membri e dalla Corte di giustizia ove investiti di identica questione;

b) se – per salvaguardare i valori costituzionali ed europei della indipendenza del giudice e della ragionevole durata dei processi – sia possibile interpretare l'art. 267 TFUE, nel senso di escludere che il giudice supremo nazionale, che abbia preso in esame e ricusato la richiesta di rinvio pregiudiziale di interpretazione del diritto della Unione europea, sia sottoposto automaticamente, ovvero a discrezione della sola parte che propone l'azione, ad un procedimento per responsabilità civile e disciplinare.

Per l'ipotesi in cui codesta Corte di giustizia dovesse risolvere negativamente i precedenti quesiti, si sollevano le seguenti ulteriori questioni pregiudiziali:

c) se i principi euro-unitari - di libertà di stabilimento, di libera prestazione di servizi, di concorrenza, di proporzionalità, di legittimo affidamento, di non discriminazione, di libertà professionale, di libertà di accesso alle professioni e di abolizione delle «barriere all'accesso» delle professioni, di “diritto di lavorare”, di uguaglianza davanti alla legge, di motivazione degli atti nazionali - come enucleati dall'appellante incidentale, ostano ad una disciplina qual è quella dell'art. 1, comma 3, lett. b)-bis, legge 6 agosto 1926 n. 1365, che prevedeva quale requisito di ammissione degli aspiranti partecipanti al concorso notarile il “non essere stati dichiarati non idonei in tre precedenti concorsi”.

(30) Considerato che nel caso di specie l'appellante aveva presentato alla Commissione una denuncia di violazione del diritto Ue.

(31) CGUE sentenza del 5 marzo 1996, C-46/93 e C-48/93.

(32) La questione della responsabilità dei giudici per violazione del diritto UE è stata rimessa alle Sezioni unite della Cassazione con Ordinanza (della terza sezione della Cassazione) del 6 luglio 2021, n. 19037.

(33) La Corte costituzionale, nella sentenza 18 gennaio 2018, n. 6, ha osservato che “rimane il fatto che, specialmente nell'ipotesi di sopravvenienza di una decisione contraria delle Corti sovranazionali, il problema indubbiamente esiste, ma deve trovare la sua soluzione all'interno di ciascuna giurisdizione, eventualmente anche con un nuovo caso di revocazione di cui all'art. 395 cpc, come auspicato da questa Corte con riferimento alle sentenze della EDU (sentenza n. 123 del 2017)”.

(34) Sul tema si veda G. COSTANTINO, La riforma della giustizia civile, Bari, 2022, 14.

(35) Con la possibilità, per la Corte, di modulare, nel tempo, gli effetti della eventuale pronuncia di accoglimento. Sul tema della “incostituzionalità prospettata” attraverso uno schema di decisione “in due tempi” si veda R. ROMBOLI, Il nuovo tipo di decisione in due tempi ed il superamento delle rime obbligate. La Corte costituzionale non terza, ma unica camera dei diritti fondamentali, Foro it., n. 9/2020, 2566 e U. ADAMO, È (resterà) due senza tre? Sull'incostituzionalità prospettata: criticità ulteriori di una tecnica decisoria già di per sé problematica, Consultaonline, fasc. II, 28 giugno 2022. Orientamento ribadito nella sentenza n. 183 del 22 luglio 2022, dove la Corte ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, del d.lgs n. 23/20215 segnalando, però, “che un ulteriore protrarsi dell'inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente”.

(36) Cfr. C. Cost. 23 aprile 1985, n. 113.

(37) CGUE, sentenza 16 giugno 2015, C-62/14, punto 16.

(36) Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 12 agosto 2019, n. 5671.

(39) La tesi, sostenuta dalla dottrina francese e dalla giurisprudenza, secondo cui la pronuncia interpretativa si “incorporerebbe” nella norma interpretata, dando vita ad un provvedimento esegetico generale ed astratto idoneo a produrre effetti normativi erga omnes anche al di fuori del processo che originò il rinvio pregiudiziale non è da tutti condivisa. Per approfonditi rilevi critici si veda E. D'ALLESSANDRO, Il procedimento pregiudiziale interpretativo dinanzi alla Corte di giustizia. Oggetto ed efficacia della pronuncia, Torino, 2012, 392, ss.

(40) Cfr. CGUE Sent. 13 gennaio 2004, causa C-453/00.

(41) In questo senso C. cost., sent. n. 284 del 2007.

(42) L'interpretazione della Corte di giustizia vincola, peraltro, la stessa Corte costituzionale «chiamata a decidere un giudizio incidentale di costituzionalità nell'ipotesi in cui la pregiudizialità comunitaria e quella costituzionale siano tra di loro in rapporto di consequenzialità necessaria»; Cfr. E. D'ALLESSANDRO, Il procedimento pregiudiziale interpretativo dinanzi alla Corte di giustizia, cit., 342-346.

(43) E. LAMARQUE, L'interpretazione conforme al diritto dell'Unione europea secondo la Corte costituzionale italiana, in A. BERNARDI (a cura di), L'interpretazione conforme al diritto dell'Unione europea, cit., 101-102.

(44)Il giudice nazionale è tenuto ad interpretare la norma interna non solo in base alle disposizioni comunitarie ma anche (e soprattutto) in base all'interpretazione fornita dalla Corte di giustizia. Dette decisioni integrano, infatti, il significato e le possibilità applicative della norma comunitaria, vincolando il giudice nazionale all'interpretazione fornita dal giudice comunitario, sia in sede di rinvio pregiudiziale che in sede di procedura di infrazione; cfr. CGUE Sent.10 ottobre 2013, C-306/12. Nell'ambito della giurisprudenza costituzionale possono segnalarsi in tal senso le sentenze n. 113 del 1985, n. 389 del 1989, n. 168 del 1991, ord. n. 255 del 1999, ord. n. 62 del 2003 e ord. n. 125 del 2004. Tra le sentenze della Cassazione si veda la sentenza, S.U., 11 novembre 1997, n. 11131. Sul tema si veda M. DE LUCA, Il lavoro nel diritto comunitario (ora eurounitario) e l'ordinamento italiano: (più di) trent'anni dopo, Q.ADL, 2020, 73.

(45) Allorché la Corte di giustizia ha fornito una risposta chiara ad una questione vertente sull'interpretazione del diritto dell'Unione, il giudice nazionale deve fare tutto il necessario affinché sia applicata tale interpretazione (CGUE, sentenza 5 aprile 2016, C-689/13, punto 42). Ove non possa procedere a un'interpretazione della normativa conforme alle prescrizioni del diritto dell'Unione, il giudice nazionale “ha l'obbligo di garantire la piena efficacia delle medesime, disapplicando all'occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi normativa nazionale, anche posteriore, contraria a una disposizione del diritto dell'Unione che abbia effetto diretto senza doverne chiedere o attenderne la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale” (CGUE, sentenza 10 marzo 2022, C- 177/20, punto 43). Sulla “centralità del rinvio pregiudiziale al fine di garantire piena efficacia al diritto dell'Unione” si veda Corte costituzionale sentenza 11 marzo 2022, n. 67 (definita “decisione storica” da A. RUGGERI, Alla cassazione restia a far luogo all'applicazione diretta del diritto eurounitario la consulta replica alimentando il fecondo dialogo tra le corti, a prima lettura della sent. n. 67/2022, Consultaonline, 14 marzo 2022) che fa riferimento alla “massima espansione” delle garanzie (sul tema si veda B. NASCIMBENE e I. ANRO', Primato del diritto dell'Unione europea e disapplicazione. Un confronto fra Corte di Cassazione e Corte di giustizia in materia di sicurezza sociale.Giustizia insieme, 31 marzo 2022.

(46) A. BARONE, The european “nomofilachia” network, RIDPC, 2, 2013, 351.

(47) V.ONIDA, A cinquanta anni dalla sentenza Costa/Enel. Riflettendo sui rapporti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario alla luce della giurisprudenza, in B. NASCIMBENE (a cura di), Costa/Enel: Corte costituzionale e Corte di giustizia a confronto, cinquant'anni dopo, Milano, 2015, 46.

(48) La Carta dei diritti fondamentali viene definita, nella famosa sentenza della Corte costituzionale del 14 dicembre 2017, n. 269, come “dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale” (punto 5.2). Sul rapporto con la CEDU si veda B. NASCIMBENE, Cedu e Carta dei diritti fondamentali dell'unione europea: portata, rispettivi ambiti di applicazione e (possibili) sovrapposizioni, Giustizia insieme, 16 dicembre 2021.

(49) “Concretizzare un principio (…) significa usarlo come premessa in un ragionamento la cui conclusione è la formulazione di una regola: una nuova regola, fino a quel momento inespressa, che ne costituisce attuazione e specificazione”; R. GUASTINI, Interpretare e argomentare, Milano, 2011, 202.

(50) Sul tema si veda la sentenza del CGUE 24 giugno 2021, C-550/19, in Lav. Giur., n. 1/2022, 22 ss, con nota di R. COSIO.

(51) CGUE, sent., 25 gennaio 2001, C-172/99. In dottrina si veda V. SPEZIALE., Appalti e trasferimento d'azienda, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D'Antona”.IT n. 41/2006, E. BARRACO, Le modifiche soggettive: il trasferimento di azienda, in F. CARINCI (diretto da), Diritto del lavoro - Commentario, II, Torino, 2007, 1507; F. ROCCATO, L'ambiguo confine tra la successione degli appalti e il trasferimento di azienda, in Mass. giur. lav., 2008, 459; F. AMENDOLA, Appalti e trasferimenti d'impresa, in R. COSIO. - G. VIDIRI (a cura di), Il trasferimento d'impresa in Italia nel quadro del diritto dell'Unione europea, Milano, 2019, 72-77 e M. MARAZZA., Le garanzie difficili nel sistema degli appalti, in P. Curzio (a cura di), Diritto del lavoro contemporaneo, questioni e tendenze, Bari, 2020, 37-64.

(52) CGUE 27 febbraio 2020, C-298/18, Lav. Giur., 2020, 6, 621-626, con nota di R. COSIO. La Corte, nella sentenza Liikenne, aveva chiarito che: a) Il trasporto pubblico non può essere considerato come un'attività basata essenzialmente sulla manodopera, in quanto richiede materiali e impianti importanti. Quindi, precisa la Corte, “l'assenza di cessione, da parte del vecchio appaltatore, degli elementi patrimoniali materiali utilizzati per l'esercizio delle linee di autobus in questione costituisce una circostanza di cui occorre tenere conto[1]”(punto 39); b) Dal momento che gli elementi materiali contribuiscono in maniera importante all'esercizio dell'attività, la mancata cessione dal vecchio al nuovo appaltatore del servizio di trasporto pubblico con autobus di simili elementi, che sono indispensabili al buon funzionamento dell'entità interessata, “deve indurre a ritenere che quest'ultima non abbia conservato la propria identità” (punto 42); c) Ne risulta, continua la Corte nella sentenza Liikenne, che, in una situazione come quella in esame in tale causa, la Dir. 77/187 “non è applicabile in assenza di cessione di elementi materiali significativi tra il vecchio ed il nuovo appaltatore” (punto 43). La Corte, nella sentenza Grafe e Pohle, opera una “rilettura” di questa sentenza. Il punto di partenza del ragionamento della Corte è costituito dalle precisazioni sul punto 39 della sentenza Liikenne. Affermare che “‘l'assenza di cessione, da parte del vecchio appaltatore, degli elementi patrimoniali materiali utilizzati per l'esercizio delle linee di autobus in questione costituisce una circostanza di cui occorre tenere conto non significa che la cessione degli autobus ‘debba essere considerato in astratto l'unico fattore determinante di un trasferimento d'impresa la cui attività consiste nel trasporto pubblico di passeggeri con autobus'” (punto 30).Occorre tener conto, precisa la Corte, delle “circostanze specifiche del procedimento” per assicurare il raggiungimento dell'obiettivo fissato nella direttiva: tutelare i lavoratori subordinati in caso di trasferimento d'impresa. Nella fattispecie, il mancato trasferimento dei mezzi di esercizio derivava da “vincoli esterni” (punto 33), giuridici, ambientali e tecnici descritti nell'ordinanza di rinvio e ripresi in motivazione (punto 32). Vincoli che non erano presenti nella fattispecie esaminata nella sentenza Liikenne. Da qui l'impossibilità di utilizzare tale sentenza come precedente vincolante e la necessità di demandare al giudice di merito di stabilire “se altre circostanze di fatto tra quelle menzionate ai punti da 24 a 26 della presente sentenza consentano di concludere nel senso che sia stata conservata l'identità dell'entità interessata e che, pertanto, sia ravvisabile un trasferimento d'impresa” (punto 36). Vengono fornite, in questo contesto, due importanti indicazioni al giudice di rinvio per decidere la causa. La prima, attiene alla constatazione, già contenuta nelle conclusioni dell'Avvocato generale che il nuovo operatore “fornisce un servizio di trasporto con autobus essenzialmente analogo a quello fornito dall'impresa precedente, il quale non ha subito interruzioni ed è stato probabilmente prestato in gran parte sulle stesse linee e a favore degli stessi passeggeri” (punto 37). Il secondo chiarimento attiene alla conferma che in determinati settori in cui l'attività si fonda essenzialmente sulla mano d'opera, un gruppo di lavoratori che assolva stabilmente un'attività comune può corrispondere ad un'entità economica. Naturalmente, si deve trattare di una riassunzione di una parte “essenziale” di lavoratori “in termini di numero e competenze” (punto 39). Ma nella valutazione di tale elemento (la riassunzione dei lavoratori) la sentenza effettua una precisazione estremamente importante. Il rilievo del passaggio di un gruppo “essenziale” di lavoratori non rileva più solo nei settori in cui l'attività si fonda essenzialmente sulla mano d'opera ma opera anche in settori (come quello del servizio di trasporto pubblico) in cui gli elementi materiali contribuiscono in maniera importante all'esercizio dell'attività. Il rilievo non è automatico dovendo concorrere con altri elementi (come il trasferimento o meno della clientela, il grado di analogia delle attività esercitate prima e dopo il trasferimento, etc.). Resta però il fatto che in settori, come quello dei trasporti pubblici, l'assenza del trasferimento di elementi materiali (come il trasferimento di autobus o officine) “non preclude necessariamente la qualificazione della fattispecie quale trasferimento di impresa” (punto 40).

(53) Invero, rileva G. TESAURO, Sui vincoli (talvolta ignorati) del giudice nazionale prima e dopo il rinvio pregiudiziale, cit., “quando la Corte di giustizia demanda al giudice nazionale quelle verifiche è perché il loro esito è la conditio sine qua non dell'applicazione corretta della norma dell'Unione di cui si è chiesta ed ottenuta l'interpretazione pregiudiziale della Corte. In altri termini, l'omissione di procedere a quelle verifiche rende il complessivo procedimento del tutto inutile e l'operato del giudice comporterebbe il possibile oggetto di una procedura d'infrazione contro lo Stato, al pari del mancato rispetto dell'interpretazione fornita dalla Corte di giustizia della norma dell'Unione e del mancato rinvio obbligatorio”.

(54) Sul rinvio pregiudiziale, in generale, F. FERRARO, C. IANNONE (a cura di), Il rinvio pregiudiziale, Torino, 2020, R CICCONE, Il rinvio pregiudiziale e le basi del sistema giuridico comunitario, Napoli, 2011, E D'ALLESANDRO, Il procedimento pregiudiziale interpretativo dinanzi alla Corte di giustizia, Torino, 2012. Con particolare riferimento alla giustizia amministrativa, S. FOA' Giustizia amministrativa e pregiudizialità costituzionale, comunitaria e internazionale. I confini dell'interpretazione conforme, Napoli, 2011; ID. Giustizia amministrativa e rinvio pregiudiziale alla CGUE: da strumento difensivo a mezzo per ridiscutere il sistema costituzionale, Federalismi.it, 10 febbraio 2021.

(55) CGUE, sentenza 19 marzo 1964, C-75/63.

(56) CGUE, sentenza 16 ottobre 2003, C-318/98, punto 32.

(57) Sul tema si veda E. D'ALESSANDRO, Il procedimento pregiudiziale interpretativo dinanzi alla Corte di giustizia, cit. e F. FERRARO, C. IANNONE (a cura di), Il rinvio pregiudiziale, cit.

(58) Cfr. CGUE sentenza 12 maggio 2021, C-70/20, punto 25.

(59) Secondo il modello di rapporti tra la Suprema Corte di cassazione e il giudice di merito che appare replicabile, come ben osserva il Consiglio di Stato, nei rapporti tra giudice nazionale e Corte di giustizia. Sul tema si veda G. TESAURO, Sui vincoli (talvolta ignorati) del giudice nazionale prima e dopo il rinvio pregiudiziale: una riflessione sul caso Avastin/Lucentis e non solo, Federalismi.it, 18 marzo 2020.

(60) R. PAPPALARDO, La corsa al dialogo nella discordia sulla giurisdizione, cit.

(61) R. PAPPALARDO, La corsa al dialogo nella discordia sulla giurisdizione, cit.

(62) Sul tema si veda, altresì, S. FOA', Giustizia amministrativa e rinvio pregiudiziale alla CGUE: da strumento “difensivo” a mezzo per ridiscutere il sistema costituzionale, cit.

(63) Sull'accertamento del fatto resta fondamentale il libro sul metodo di KARL LARENZ, Storia del metodo nella scienza giuridica, Milano, 1966, spec. Cap. 3.

(64) Conclusioni dell'Avvocato generale BOBEK, presentate il 23 febbraio 2021, nella causa C-923/19, punto 50.

(65) G. ZAGRABELSKY, La legge e la sua giustizia, Bologna, 2008, 191.

(66) Conclusioni dell'Avvocato generale BOBEK, presentate il 23 febbraio 2021, nella causa C-923/19, punto 50. Il tema non è nuovo. L'Avvocato generale LAGRANGE, nel caso Costa c. Enel, affermava che “tracciare il confine tra applicazione e interpretazione è senza dubbio uno dei problemi più complessi sollevati dall'art. 177” (oggi 267 TFUE).

(67) I testi giuridici costituiscono il punto di partenza imprescindibile nell'attività interpretativa (G. TARELLO, L'interpretazione della legge, Milano, 1980, 101-104). La lingua, ammoniva A. MERCKL, è “il grande portone attraverso il quale tutto il diritto entra nella coscienza degli uomini” (lo ricorda N. IRTI, I cancelli delle parole, Torre del greco, 2015, 31). Con la locuzione “significato proprio delle parole” si prescrive all'interprete di procedere all'interpretazione letterale o grammaticale, ovvero secondo le regole sintattiche e semantiche della “istituzione linguistica” cui appartengono i segni con cui le disposizioni sono state formulate, salvo distinguere tra i vocaboli d'uso ordinario, vocaboli specialistici e, nell'ambito di questi ultimi, i vocaboli tecnico-giuridici (F. MODUGNO, Interpretazione giuridica, Padova, 2009, 318, 105-144). Il testo non è solo il punto di partenza dell'interpretazione, ma ne delimita anche l'orizzonte di senso. Non vi è dubbio che attraverso il canone sistematico e quello della coerenza con l'intero sistema normativo (specie costituzionale) il testo può essere adeguato al contesto, ma non si può affermare che sia possibile “leggere nella disposizione quello che non c'è, anche quando la Costituzione vorrebbe che ci fosse” (cfr. M. LUCIANI, Interpretazione conforme a costituzione, Enc. Dir. Ann., IX, 2016, Milano, 434, nota 350). A questo punto “deve entrare in campo la Corte costituzionale per mezzo della questione di legittimità” (cfr. G. ZAGREBELSKY e V. MARCENO', Giustizia costituzionale, vol. II, Oggetti, procedimenti, decisioni, Bologna, 2018, 219; sul tema si veda M. RUOTOLO, Quando il giudice deve fare da se', Questione giustizia, 22 ottobre 2018). Certo, le questioni si complicano quando occorre verificare la compatibilità con l'ordinamento UE. La pluralità dei contesti linguistici e culturali (sul tema R. COSIO, L'interpretazione conforme al diritto dell'unione europea, in G. BRONZINI e R. COSIO (a cura di), Interpretazione conforme, bilanciamento dei diritti e clausole generali, Milano, 2017, 48 ss) e la necessità di interpretazione “alla luce del diritto comunitario nel suo complesso” (CGUE 11 marzo 2015, nelle cause riunite da C-464/13 a C-465/13) rende più complessa la c.d. interpretazione conforme. Ma occorre ricordare che secondo il consolidato orientamento della Corte di giustizia il principio di interpretazione conforme “non può servire da fondamento ad una interpretazione contra legem del diritto nazionale (CGUE, sentenza 16 giugno 2005, C-105/03, punto 47). La Corte di Cassazione, sotto diverso profilo, è ben consapevole che l'interpretazione non si risolve in un mero cognitivismo e non si appiattisce sulla mera esegesi del testo. L'attività interpretativa implica la legittima scelta della fissazione del possibile significato dell'enunciato secondo le possibilità di senso contenute nella disposizione. Ciò non significa che non vi sia spazio per una interpretazione evolutiva. In una recente sentenza, le Sezioni Unite (Cass. S. U. 28 gennaio 2021, n. 2061), esaminando una complessa questione in materia di leasing finanziario, ha ribadito che attraverso l'interpretazione evolutiva l'ordinamento giuridico è in grado di rispondere, in ogni momento, alle esigenze cangianti della realtà socio-economica di riferimento. Il procedimento interpretativo non può, però, superare quei limiti che si impongono nel suo svolgimento e che danno la misura della distinzione di piani sui quali operano, rispettivamente, il legislatore e il giudice. In questo senso – spiegano le Sezioni Unite – la funzione assolta dalla giurisprudenza è di natura dichiarativa, giacché riferita ad una preesistente disposizione di legge. Affermazioni che richiamano alla mente le parole di un Maestro come EMILIO BETTI (Interpretazione della legge e sua efficacia evolutiva, Ius, 1959, 544) che sottolineava come l'interpretazione della legge “è un procedimento ricognitivo diretto ad identificare e riprodurre negli apprezzamenti dell'interprete, le valutazioni comparative degli interessi in conflitto, che sono già contenute nelle norme giuridiche”.

(68) R. GUASTINI, Interpretare e argomentare, Milano, 2011, 63-64.

(69) R. GUASTINI, Interpretare e argomentare, cit., 15-18.

(70) F. SORRENTINO e G. PINO, Le fonti in generale e l'interpretazione, Torino, 2021, 267.

(71) F. SORRENTINO e G. PINO, Le fonti in generale e l'interpretazione, cit., 272.

(72) Nelle conclusioni della causa C- 923/19, punto 57.

(73) Nelle conclusioni della causa C- 923/19, punto 58.

(74) Conclusioni dell'Avvocato generale BOBEK del 15 aprile 2021 (C-561/19), punto 133.

(75) Conclusioni nella causa Wierner Si (C-338/95, punto 50).

(76) Conclusioni dell'Avvocato generale Bobek del 15 aprile 2021 (C-561/19), punto 145. Considerata l'importanza del caso, le conclusioni dell'avv. gen. Bobek sono state oggetto di numerosi commenti, tra i quali P. DE PASQUALE, La (finta) rivoluzione dell'avvocato generale Bobek: i criteri CILFIT nelle conclusioni alla causa C-561/19, in Osservatorio europeo DUE - dirittounioneeuropea.eu, 11 maggio 2021; F. LIGUORI, Sulla riformulazione dei criteri CILFIT: le Conclusioni dell'A.G. Bobek nel caso Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi, in European Papers, 2021, p. 955; G. MARTINICO, L. PIERDOMINCI, Rivedere CILFIT? Riflessioni giuscomparatistiche sulle conclusioni dell'avvocato generale Bobek nella causa Consorzio Italian management, in Giustizia insieme, 17 giugno 2021.

(77) Sul tema si veda, P. DE PASQUALE, Inespugnabile la roccaforte dei criteriCILFIT (causa C-561/19), in BlogDUE; F. FERRARO, Corte di giustizia e obbligo di rinvio pregiudiziale del giudice di ultima istanza: nihil sub sole novum, in Giustizia Insieme; D. PETRIĆ, How to Make a Unicorn or ‘There Never Was an “Acte Clair” in EU Law': Some Remarks About Case C-561/19Consorzio Italian Management, in CYELP2021, p. 307-328; G. TULUMELLO, Il rinvio pregiudiziale fra mito e realtà (brevi note a primissima lettura della sentenza della Corte di Giustizia dell'U.E., Grande Sezione, 6 ottobre 2021 in causa C-561/19, Consorzio Italian management –Catania Multiservizi SpA/Rete Ferroviaria Italiana, in Giustizia Amministrativa.it, 2021; L.S. ROSSI, “Un dialogo da giudice a giudice”. Rinvio pregiudiziale e ruolo dei giudici nazionali nella recente giurisprudenza della Corte di giustizia, in I Post di AISDUE, IV (2022), aisdue.eu, Sezione “Articoli”, n. 4, 23 maggio 2022, Quaderni AISDUE, ISSN 2723-9969, p. 50 ss. , LUIGI DANIELE, Si può “migliorare” CILFIT? Sulla sentenza Consorzio Italian Management, Eurojus, fascicolo n. 2/2022. F.MUNARI, Il dubbio ragionevole» nel rinvio pregiudiziale, Federalismo.it, 13 luglio 2022.Il Consiglio di Stato, nella sentenza del 14 luglio 2022, n. 6013, ritiene, però, che le conclusioni cui è pervenuta la Corte di giustizia nella sentenza del 6 ottobre 2021, C-61/19, non sono tali da eliminare tutti i dubbi che la materia solleva. In particolare, per escludere ogni ragionevole dubbio da dare alla questione sollevata, si chiede di chiarire se “il convincimento che la stessa evidenza si imporrebbe anche ai giudici degli altri Stati membri ed alla Corte di giustizia debba essere accertato in senso soggettivo, motivando in ordine alla possibile interpretazione suscettibile di essere data alla medesima questione dai giudici degli altri Stati membri e dalla Corte di giustizia ove investiti di identica questione”.