Azione di condanna

Roberto Chieppa
21 Settembre 2022

L'articolo 30 è uno degli articoli più importanti del Codice del processo amministrativo e contiene la disciplina dell'azione di condanna sia in termini generali (comma 1) che con specifico riferimento alla condanna al risarcimento del danno (commi 2-6). Nel primo comma viene appunto disciplinata una azione atipica di condanna, da proporre, nei casi di giurisdizione di legittimità, contestualmente ad altra azione. L'azione di condanna può essere proposta anche in via autonoma nei soli casi di giurisdizione esclusiva e nel caso di domanda di risarcimento del danno.
Inquadramento

Contenuto in fase di aggiornamento autorale di prossima pubblicazione

L'azione di condanna è disciplinata in termini generali dall'art. 30, comma 1, del codice che prevede che “L'azione di condanna può essere proposta contestualmente ad altra azione o, nei soli casi di giurisdizione esclusiva e nei casi di cui al presente articolo, anche in via autonoma” e tale disposizione va letta unitamente all'art. 34 del c.p.a..

L'atipicità dell'azione di condanna emerge dall'art. 34, comma 1, lett. c) del Codice, che consente al giudice di condannare all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio, compresa la condanna al rilascio di un provvedimento richiesto.

In questo modo si raggiunge un risultato analogo a quello a cui puntava l'inserimento (non avvenuto) di una espressa disposizione relativa all'azione di adempimento, che era stata proposta dalla Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato.

L'azione di condanna

Prima dell'entrata in vigore del Codice, il processo amministrativo era già caratterizzato da una tutela ben più ampia della mera azione di annullamento e, con l' art. 44 della legge n. 69 del 2009, il legislatore delegante ha inteso chiaramente ampliare la tipologia delle azioni esperibili, facendo riferimento al risultato che con le stesse può essere conseguito («prevedere le pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa»).

Nel testo predisposto dal Consiglio di Stato, caratterizzato dalla scelta (poi confermata) di inserire nel codice anche la disciplina delle azioni, le norme erano state redatte in coerenza con la tradizionale tripartizione delle azioni di cognizione (costitutive, di accertamento e di condanna) e senza trascurare le specificità dei giudizi amministrativi, dando autonomo rilievo ad azioni che pur rientrando in una delle tre tipologie presentavano tratti peculiari: azione avverso il silenzio rispetto all'azione di accertamento; azione di adempimento rispetto all'azione di condanna.

Nell'ambito di tale sistema era stata disciplinata l'azione di condanna, come azione atipica esercitatile quando era necessaria una tutela in forma specifica mediante la modificazione della realtà materiale (condanna ad un facere) o per porre rimedio all'inadempimento ad un'obbligazione di pagamento o comunque per ottenere ogni altra misura idonea a tutelare la posizione giuridica soggettiva. Il carattere residuale della condanna atipica («all'adozione di ogni altra misura idonea a tutelare la posizione giuridica soggettiva») era esplicitato dalla previsione secondo cui doveva trattarsi di una misura «non conseguibile con il tempestivo esercizio delle altre azioni».

Il comma 1 dell'art. 30, entrato in vigore, configura l'azione di condanna come azione complementare all'esercizio di altre azioni nella giurisdizione di legittimità; non vi è il limite della condanna al solo pagamento di somme di denaro, ed è quindi ammissibile la condanna della p.a. ad un facere, come chiarito anche nella relazione di accompagnamento, ma tale domanda deve essere collegata all'esercizio di altre azioni (ad es., di annullamento). L'azione autonoma di condanna è, invece, ammissibile nelle materie di giurisdizione esclusiva e per la condanna al risarcimento del danno nei limiti fissati dal comma 3. Non si tratta, pertanto, di una azione residuale per ottenere misure non conseguibili con il tempestivo esercizio delle altre azioni, ma di una azione complementare alle altre azioni.

La atipicità dell'azione di condanna trovava già conferma nell'originaria versione dell'art. 34, comma 1, lett. c) del Codice, che (tuttora) prevede, tra i poteri del giudice, quello di condannare «all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio».

Il significato della lettera c) dell'art. 34, comma 1 è stato precisato con le modifiche introdotte con il secondo correttivo al Codice ( d.lgs. 14 settembre 2012, n. 160), con cui è stato aggiunto alla citata lettera che «L'azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto è esercitata, nei limiti di cui all'articolo 31, comma 3, contestualmente all'azione di annullamento del provvedimento di diniego o all'azione avverso il silenzio».

Tale previsione conferma la possibilità di chiedere la condanna al rilascio di un determinato provvedimento in modo simile alla azione di adempimento, prevista nell'ordinamento tedesco.

L'azione di adempimento nell'ordinamento tedesco

È noto che il Consiglio di Stato aveva proposto l'introduzione dell'azione di adempimento, ispirandosi dichiaratamente al sistema processuale tedesco. Infatti, l'azione di adempimento trova nell'ordinamento processuale tedesco una disciplina legislativa compiuta. Il par. 42 del Verwaltungsgerichtsordnung la annovera tra le azioni ammissibili innanzi al giudice amministrativo accanto all'azione di annullamento e all'azione di accertamento.

Il legislatore tedesco ha previsto l'azione di condanna quale azione non costitutiva, ma di prestazione, diretta non all'annullamento di un atto amministrativo, ma all'emanazione di un atto rifiutato o di un atto omesso dalla amministrazione. Essa consente, quindi, al giudice di condannare l'amministrazione all'emanazione di un atto amministrativo sia nel caso di rifiuto espresso, sia in caso di silenzio, sempre che il ricorrente vanti una pretesa giuridicamente qualificata al provvedimento. Ove l'azione di adempimento risulti fondata, la decisione può avere, a seconda dei casi, i seguenti contenuti ai sensi dell'art. 113 del VwGo. Se il giudice considera la questione «matura per la decisione», può dichiarare l'obbligo dell'amministrazione di porre in essere l'attività richiesta. Altrimenti si limita a dichiarare l'obbligo dell'amministrazione di provvedere nei confronti dell'attore, attenendosi al principio giuridico enunciato dal giudice, senza dunque predeterminare in tutto e per tutto il contenuto del provvedimento.

L'espressione «questione matura per la decisione» va intesa in senso non già processuale, bensì sostanziale, cioè in relazione alla pretesa giuridica del soggetto fatta valere nell'istanza proposta all'amministrazione e rivolta all'emanazione del provvedimento. Se la causa «non è matura per la decisione» il giudice può pronunciare esclusivamente in ordine all'obbligo dell'amministrazione di provvedere in favore del ricorrente secondo il punto di vista espresso dal giudice; in sostanza in questo caso l'autorità viene condannata ad una decisione, ma non sono consumati gli spazi discrezionali estranei all'oggetto del giudizio (Masucci, La legge tedesca sul processo amministrativo, Milano, 1991; Clarich, L'azione di adempimento del sistema di giustizia amministrativa in Germania: linee ricostruttive e orientamento giurisprudenziale, in Dir. proc. amm. 1985, 60).

In definitiva, l'azione di adempimento nell'ordinamento tedesco non determina una sovrapposizione dei ruoli del giudice amministrativo e della pubblica amministrazione. Anzi, in modo duttile, cerca di conciliare la massima garanzia della situazione giuridica fatta valere in giudizio con l'esigenza di salvaguardare la sfera riservata del potere amministrativo. Solo in presenza di un potere il quale, anche in seguito agli accertamenti operati in giudizio, non presenti alcun margine di discrezionalità, l'azione di adempimento si conclude con una condanna puntuale ad emanare il provvedimento amministrativo richiesto (denegato o omesso).

Il mancato inserimento dell'azione di adempimento nel Codice

Nel testo del Codice elaborato dalla Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato, con effetti analoghi a quelli previsti nell'ordinamento germanico, era stata introdotta l'azione di adempimento, che si affiancava alle tradizionali azioni di annullamento e avverso il silenzio e completava il sistema processuale garantendo l'effettività della tutela. L'azione di adempimento, che costituiva una specificazione dell'azione di condanna, poteva essere proposta contestualmente all'azione di annullamento (nel termine per essa previsto), mentre, nel caso di inerzia, doveva essere proposta entro i termini dell'azione per il silenzio. La norma sull'azione di adempimento, predisposta dal Consiglio di Stato, andava letta unitamente alla disposizione sulle sentenze di merito, che, tra i poteri del giudice, precisava che era possibile pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio quando si trattava di attività vincolata o veniva accertato che non residuavano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non erano necessari adempimenti istruttori che dovevano essere compiuti dall'amministrazione. Era, inoltre, esplicitato che gravava sulle parti l'onere di allegare in giudizio tutti gli elementi utili ai fini dell'accertamento della fondatezza della pretesa, in attuazione del principio generale di parità delle parti, attuativo dell' art. 111 Cost.

Il Governo aveva espunto l'azione di adempimento, lasciandone però traccia in altre disposizioni.

In primo luogo, nella disciplina dell'azione avverso il silenzio (art. 31, comma 3), è stata confermata la (già vigente) possibilità per il g.a., di pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa dedotta in un giudizio avverso il silenzio ed è stato previsto che il giudice possa pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione. L'accertamento della fondatezza della pretesa non è, quindi, limitato all'attività vincolata, ma si estende ai casi in cui non residuano margini di discrezionalità per la P.A. In realtà, la formula è stata ripresa dal Governo dalla (eliminata) norma sull'azione di adempimento, che riguardava sia i dinieghi che il silenzio.

Dall'art. 31, comma 3, non si poteva, tuttavia, trarre il principio secondo cui l'accertamento della pretesa è consentito solo nei ricorsi avverso il silenzio, e non in caso di domanda di annullamento, in quanto, già prima dell'entrata in vigore del Codice, la giurisprudenza era tesa ad accertare la fondatezza della pretesa anche in sede di annullamento, ove possibile in relazione ai motivi di ricorso proposti e ai margini di discrezionalità, che residuavano dopo la pronuncia in capo all'amministrazione.

Nella sostanza, il sistema previgente non era nelle sostanza molto dissimile da quello tedesco e se ne differenziava per il fatto che nel nostro ordinamento per i provvedimenti denegati l'accertamento della fondatezza della pretesa, si concludeva con una decisione di annullamento dell'atto, la cui parte dispositiva andava letta unitamente alla parte motiva, in cui era precisato quale era l'obbligo conformativo dell'amministrazione. E in alcuni casi, tale obbligo consisteva proprio nel rilascio del provvedimento richiesto e negato.

La differenza tra ordinamento tedesco e italiano non risiedeva, quindi, nei maggiori poteri sostitutivi (di merito) del giudice, ma nel fatto che l'accertamento della pretesa, possibile in entrambi i casi in presenza di attività vincolata o di esaurimento — anche per effetto del giudizio – dei margini di discrezionalità della p.a. conduceva, nel sistema germanico, alla condanna all'emanazione di un determinato provvedimento e, in Italia, all'annullamento del diniego, cui poteva seguire l'obbligo conformativo di rilasciare il provvedimento richiesto, che se non eseguito apriva la strada al giudizio di ottemperanza e, quindi, ad una piena sostituzione del giudice alla p.a. con poteri anche di merito.

Il Codice non ha espressamente introdotto l'azione di adempimento, ma tale elemento non è sufficiente ad escludere che il giudice possa condannare l'amministrazione all'emanazione di un determinato provvedimento (Merusi, In viaggio con Laband, giustamm.it, aprile 2010; A. Travi, Osservazioni generali sullo schema di decreto legislativo con un ‘codice' del processo amministrativo, in giustamm.it, maggio 2010).

Del resto, ogni legge, una volta entrata in vigore, recide immediatamente il cordone ombelicale con i propri autori o correttori e la presenza di una norma nella bozza di testo e la sua eliminazione nel testo finale non può costituire argomento interpretativo per stabilire ciò che è ammissibile o inammissibile nel processo amministrativo.

L'azione di condanna «atipica» nel Codice

L'azione di adempimento era, peraltro, una specificazione dell'azione di condanna e la già descritta atipicità dell'azione di condanna consente che il giudice amministrativo possa condannare la p.a. «all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio» (art. 34, comma 1, lett. c).

Era stato rilevato che il disallineamento formale tra le azioni disciplinate dal Codice e le categorie di pronunce di accoglimento di cui all'art. 34 non poteva condurre alla riduzione della tipologia delle misure adottabili dal giudice, in quanto non avrebbe senso prevedere poteri decisori del giudice molto estesi, ma non esercitabili per la assenza della facoltà di chiederne l'esercizio (Lipari, L'effettività della decisione tra cognizione e ottemperanza, relazione al 56° Convegno di studi amministrativi, Varenna, Villa Monastero, 23-25 settembre 2010, in federalismi.it).

L'atipicità di tali misure non esclude che tra esse possa rientrare anche la condanna all'adozione di un determinato provvedimento, come domanda aggiuntiva rispetto all'azione di annullamento.

In questo caso è rispettata la contestualità delle due azioni, richiesta dall'art. 30, comma 1 (e presente, del resto, anche nell'azione di adempimento ipotizzata dal Consiglio di Stato).

Inoltre, i limiti per tale richiesta di condanna si potevano già trarre dall'ordinamento e dallo stesso Codice, in particolare dalla disposizione sul silenzio sopra ricordata (art. 31, comma 3), che non ha fatto altro che codificare un principio già applicato dal g.a. per procedere all'accertamento della pretesa in caso di azione di annullamento.

Difficilmente si potrebbe spiegare l'ammissibilità di una sorta di azione di adempimento tipica, prevista nel rito del silenzio e la contraria soluzione in caso di diniego espresso, dove la condanna all'adozione di un determinato provvedimento potrebbe invece risultare più agevole per il giudice, potendo questi valutare l'istruttoria svolta dalla P.A. (Lipari, cit.).

Del resto, è stato ritenuto che la domanda di conseguire l'aggiudicazione e il contratto di cui all'art. 124 costituisce una sorta di azione di adempimento (Lopilato, Categorie contrattuali, contratti pubblici e i nuovi rimedi previsti dal decreto legislativo n. 53 del 2010 di attuazione della direttiva ricorsi, in giustamm.it, giugno 2010), che sarebbe quindi già presente nello stesso Codice anche in una norma specifica, oltre che nella clausola generale dell'azione di condanna atipica.

A conferma delle precedenti considerazioni, la giurisprudenza ha condiviso la tesi dell'ammissibilità di una azione di condanna atipica, di contenuto simile a quello dell'azione di adempimento, propria dell'ordinamento tedesco. È stato affermato che è esercitatile, anche in presenza di un provvedimento espresso di rigetto e sempre che non vi osti la sussistenza di profili di discrezionalità amministrativa e tecnica, l'azione di condanna volta ad ottenere l'adozione dell'atto amministrativo richiesto. Ciò è desumibile dal combinato disposto dell'art. 30, comma 1, che fa riferimento all'azione di condanna senza una tipizzazione dei relativi contenuti (sull'atipicità di detta azione si sofferma la relazione governativa di accompagnamento al codice) e dell'art. 34, comma 1, lett. c), ove si stabilisce che la sentenza di condanna deve prescrivere l'adozione di misure idonee a tutelare la situazione soggettiva dedotta in giudizio (Cons. Stato, Ad. plen., n. 3/2011).

Orientamento confermato dalla Adunanza plenaria anche in materia di d.i.a. o s.c.i.a.: l'azione di annullamento proposta dal terzo può essere ritualmente accompagnata, ai fini del completamento della tutela, dall'esercizio di un'azione di condanna dell'amministrazione all'esercizio del potere inibitorio, alla stregua del combinato disposto dell'art. 30, comma 1, che fa riferimento all'azione di condanna senza la tipizzazione dei relativi contenuti (sull'atipicità di detta azione si sofferma la relazione governativa di accompagnamento al codice) e dell'art. 34, comma 1, lett. c), ove si stabilisce che la sentenza di condanna deve prescrivere l'adozione di misure idonee a tutelare la situazione soggettiva dedotta in giudizio. In materia di d.i.a. (o anche di s.c.i.a.), il terzo è legittimato all'esercizio, a completamento ed integrazione dell'azione di annullamento del silenzio significativo negativo, dell'azione di condanna pubblicistica (cd. azione di adempimento) tesa ad ottenere una pronuncia che imponga all'amministrazione l'adozione del negato provvedimento inibitorio ove non vi siano spazi per la regolarizzazione della denuncia ai sensi del comma 3 dell' art. 19 della l. n. 241/1990 (Cons. Stato, Ad. plen., n. 13/2011).

In sostanza, il codice del processo ha introdotto, anche in presenza di un provvedimento espresso di rigetto e sempre che non vi osti la sussistenza di profili di discrezionalità amministrativa e tecnica, l'azione di condanna volta ad ottenere l'adozione dell'atto amministrativo richiesto. L'art. 34 comma 1, lett. c), nel precisare i contenuti della sentenza di condanna, prevede anche l'adozione «delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio»; in base alla successiva lett. e) il giudice dispone «le misure idonee ad assicurare l'attuazione del giudicato». Le due previsioni prefigurano un potere di condanna senza restrizione di oggetto, modulabile a seconda del bisogno differenziato emerso in giudizio; ovvero, all'occorrenza, quale sbocco di una tutela restitutoria, ripristinatoria ovvero di adempimento pubblicistico coattivo. L'ammissibilità della condanna satisfattiva, sotto altro profilo, non è contraddetta dal divieto di pronuncia su poteri non ancora esercitati previsto dal comma 3 dell'art. 34, essendo quest'ultimo finalizzato ad evitare domande dirette ad orientare l'azione amministrativa futura, in cui, cioè, l'amministrazione non abbia ancora provveduto (T.A.R. Lombardia III, 8 giugno 2011 n. 1428).

Va precisato che l'accertamento della spettanza del provvedimento sarà possibile solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione.

Tale ricostruzione si è definitivamente consolidata a seguito della modifica all'art. 34, comma 1, lett. c), apportata dal d.lgs. n. 160/2012, con cui alla citata lett. c) è stato aggiunto il seguente ultimo periodo: «L'azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto è esercitata, nei limiti di cui all'articolo 31, comma 3, contestualmente all'azione di annullamento del provvedimento di diniego o all'azione avverso il silenzio

Viene, quindi, confermata la possibilità di agire chiedendo la condanna al rilascio di un determinato provvedimento e i presupposti sono gli stessi di quelli previsti per l'accertamento della pretesa nel rito avverso il silenzio.

Il limite dei poteri amministrativi non esercitati

Il richiamato art. 34 c.p.a. contiene anche dei limiti ai poteri del giudice, applicabili ovviamente anche in caso di azione di condanna: è stato escluso che il giudice possa pronunciare in relazione a poteri amministrativi ancora non esercitati e ciò al fine di evitare domande dirette ad orientare l'azione amministrativa pro futuro, con palese violazione del principio della divisione dei poteri.

È già stato ricordato che tale previsione era collocata nel testo predisposto dalla Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato nell'articolo, che disciplinava la (ora eliminata) azione di accertamento e che, dovendo continuare a ritenere ammissibile l'azione di accertamento, il limite dei poteri non esercitati opera soprattutto in relazione a tale azione (v. il commento all'art. 31, comma 4).

Ai sensi dell'art. 34 comma 2, il giudice amministrativo in nessun caso può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati (T.A.R. Calabria (Catanzaro) II, 11 febbraio 2011, n. 208). Tale previsione è espressione del principio costituzionale fondamentale di separazione dei poteri e di riserva di amministrazione che, storicamente, nel disegno costituzionale, hanno giustificato e consolidato il sistema della giustizia amministrativa; poiché in tutte le situazioni di incompetenza, carenza di proposta o parere obbligatorio si versa nella situazione in cui il potere amministrativo non è stato ancora esercitato, in tali circostanze il giudice non può fare altro che rilevare, se assodato, il relativo vizio e assorbire tutte le altre censure, non potendo dettare le regole dell'azione amministrativa nei confronti di un organo che non ha ancora esercitato il suo munus (Cons. Stato, sez. IV, n. 888/2016).

Il limite di pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati pone una questione quando è proposto il vizio di incompetenza.

Secondo l'orientamento tradizionale il principio secondo cui la fondatezza della censura di incompetenza dell'autorità che ha emanato l'atto, da esaminarsi prioritariamente rispetto ad ogni altro motivo di ricorso, determina unicamente la rimessione dell'affare all'autorità indicata come competente ed impedisce l'esame delle altre doglianze (nello stesso senso dell'abrogato art. 26 l. n. 1034/1971 (l. T.A.R) è interpretabile il vigente art. 34 comma 2, per cui «In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati»), si fonda sulla circostanza per cui nel processo amministrativo «non è prevista alcuna forma di integrazione del contraddittorio nei confronti dell'organo amministrativo effettivamente competente», e quindi si spiega con l'esigenza di non vincolare al giudicato un soggetto che al processo non è stato in condizione di partecipare. Non sfugge allora che tale esigenza non sussiste nel caso in cui si fa questione della competenza di due organi, il dirigente e il Sindaco, pur sempre appartenenti ad un medesimo soggetto giuridico, ovvero al Comune, che nel processo è stato ritualmente evocato ed ha potuto esercitare appieno il proprio diritto di difesa con riguardo a tutte le censure dedotte (T.A.R. Lombardia (Brescia) II, 8 gennaio 2011, n. 10).

Secondo una lettura oggettiva, i poteri cui si riferisce l'art. 34, comma 2, sono quelli mai esercitati da alcuna autorità; secondo una opposta lettura, d'indole soggettiva, il riferimento è anche ai poteri non esercitati dall'autorità competente, ovvero quella chiamata a esplicare la propria volontà provvedimentale in base al micro ordinamento di settore.

La giurisprudenza ha ritenuto di preferire quest'ultima esegesi, più rispettosa del quadro sistematico e dei valori costituzionali che si correlano a tale norma: diversamente opinando, del resto, verrebbe leso il principio del contraddittorio rispetto all'autorità amministrativa competente nel senso dianzi precisato — sia essa appartenente al medesimo ente ovvero ad ente diverso ma comunque interessato alla materia — dato che la regola di condotta giudiziale si formerebbe senza che questa abbia partecipato, prima al procedimento, e poi al processo, in violazione di precise coordinate costituzionali: l' art. 97, comma 2 e 3 Cost., infatti, riserva alla legge l'ordinamento delle amministrazioni ed il riparto delle sfere di competenza ed attribuzione, impedendo all'autorità amministrativa di derogarvi a suo piacimento ( Cons. Stato, Ad. plen., n. 2/2015). L'art. 34, comma 2, cit., è espressione del principio costituzionale fondamentale di separazione dei poteri (e di riserva di amministrazione) che, storicamente, nel disegno costituzionale, hanno giustificato e consolidato il sistema della Giustizia amministrativa (sul valore del principio e la sua declinazione avuto riguardo al potere giurisdizionale in generale, ed a quello esercitato dal giudice amministrativo in particolare, cfr. da ultimo Corte cost. n. 85/2013, Corte cost. n. 40/2012; Cass., S.U., n. 2312/2012 e Cass., S.U., 2313/2012; Cons. Stato, Ad. plen., n. 9/2014 cit.; Cons. Stato, Ad. plen., n. 8/2014).

Tale principio fondamentale è declinato nel codice del processo amministrativo in svariate disposizioni che si ricompongono armonicamente a sistema: d) divieto assoluto del sindacato giurisdizionale sugli atti politici (art. 7, comma 1); e) divieto del giudice di sostituirsi agli apprezzamenti discrezionali amministrativi e tecnici dell'amministrazione ancorché marginali (art. 30, comma 3); f) tassatività ed eccezionalità dei casi di giurisdizione di merito (art. 134).

Pertanto, in tutte le situazioni di incompetenza, carenza di proposta o parere obbligatorio, si versa nella situazione in cui il potere amministrativo non è stato ancora esercitato, sicché il giudice non può fare altro che rilevare, se assodato, il relativo vizio e assorbire tutte le altre censure, non potendo dettare le regole dell'azione amministrativa nei confronti di un organo che non ha ancora esercitato il suo munus. A ben vedere, nel disegno del codice tale tipologia di vizi è talmente radicale e assorbente che non ammette di essere graduata dalla parte. A quest'ultima, se intende ottenere una pronuncia su tali peculiari modalità di (mancato) esercizio del potere amministrativo, si aprono perciò due strade: non sollevare la censura di incompetenza (e le altre assimilate), oppure sollevarla ma nella consapevolezza della impossibilità di graduarla. In sostanza, bisogna prendere atto che taluni vizi di legittimità esprimono una così radicale alterazione dell'esercizio della funzione pubblica che il codice ha imposto al giudice amministrativo di non ritenersi vincolato, a tutela della legalità dell'azione amministrativa e degli interessi pubblici sottostanti, dalla prospettazione del ricorrente e dalla eventuale graduazione dei motivi da quest'ultimo effettuata. Tale impostazione produce, inoltre, effetti deflattivi sul contenzioso perché dissuade il ricorrente dalla proposizione di impugnative di procedimenti attinti da una pletora di motivi sostanzialmente di facciata e lo stimola a concentrarsi solo sull'interesse sostanziale effettivamente perseguibile; si evitano, per tale via, gli eccessi di tutela spesso forieri di veri abusi del processo, il cui divieto assume, ormai, rilevanza costituzionale ex articolo 54 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea ( Cons. St., Ad. plen., n. 2/2015).

Alla formula per la quale la cognizione non poteva esaurire tutti i profili del potere amministrativo (stante la salvezza degli ulteriori atti dell'autorità amministrativa: artt. 45 R.d. n. 1054/1924 e art. 26 l. n. 1043/1971), il codice ha sostituito il ben diverso divieto di pronunciare su poteri amministrativi non ancora esercitati (art. 34, comma 2), volto soltanto ad impedire la tutela anticipata dell'interesse legittimo. T.A.R. Lombardia III, 8 giugno 2011, n. 1428.

Sommario