Onere della prova

Gabriele Carlotti
Gabriele Carlotti
21 Settembre 2022

La disciplina fondamentale sul riparto dell'onere della prova nel processo amministrativo si rinviene nel comma 1 dell'art. 64 c.p.a. Nella medesima disposizione si trovano enunciati anche gli principi fondamentali che governano il regime delle prove nel giudizio amministrativo, ossia il principio dispositivo, il principio di non contestazione, i poteri ufficiosi del giudice nella acquisizione dei mezzi di prova e nella valutazione delle prove. Altre disposizioni sui poteri di acquisizione ufficiosa dei mezzi di prova da parte del giudice si rinvengono nell'art. 63 c.p.a. e previsioni di rilievo probatorio sono presenti anche in parti del Codice diverse dal Titolo III del Libro II (ad esempio, nell'art. 46 c.p.a.). Ne risulta un quadro di regole confuso, per molti aspetti ancora sensibilmente differente dall'analoga disciplina del processo civile, e in relazione al quale la giurisprudenza amministrativa ha, per di più, espresso orientamenti non sempre univoci e, come tali, inidonei a giungere a una stabile sistemazione della materia.
Inquadramento

Contenuto in fase di aggiornamento autorale di prossima pubblicazione

La principale disposizione sul riparto dell'onere della prova nel giudizio amministrativo si rinviene nell'art. 64, comma 1, c.p.a. La previsione è molto rilevante sul piano sistematico, giacché detta una disciplina unitaria – ossia identica per tutte le possibili forme di giurisdizione esercitabili dal giudice amministrativo (di legittimità, esclusiva ed estesa al merito) — dei principi relativi al regime della prova nel processo amministrativo, valevoli indistintamente per tutte le situazioni giuridiche soggettive dedotte in contenzioso (interessi legittimi o diritti soggettivi). Più in dettaglio, il comma 1 enuncia solennemente che, pure nel processo amministrativo, la formazione delle prove è dominata dal principio dispositivo e che, dunque, spetta alle parti, sulla base delle regole che integrano il principio dell'onere della prova, offrire al giudice amministrativo gli elementi, che siano nella disponibilità delle parti medesime, idonei a dimostrare i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni formulate; al principio dispositivo si correla poi, coerentemente, la previsione, contenuta nel comma successivo, del divieto, per il giudice, di decidere sulla base di elementi differenti dalle prove proposte dalle parti, fatte salve le diverse previsioni di legge e le ipotesi in cui trovi applicazione la regola di non contestazione. Il comma 3 riconosce, poi, in via generale il potere del giudice amministrativo di provvedere anche d'ufficio al completamento dell'istruttoria, seppur limitatamente all'acquisizione di informazioni e di documenti. Tale potere costituisce un bilanciamento dei principi enunciati nel comma 1, dal momento che l'attività acquisitiva del giudice amministrativo (in ossequio al principio inquisitorio) interviene con riferimento a elementi, utili ai fini del decidere, che siano nella disponibilità della pubblica amministrazione (e non, dunque, delle parti, le quali, pertanto, non possono essere gravate dell'onere di fornirli). Infine, il comma 4 dell'art. 64 c.p.a. si occupa del «come» il giudice amministrativo debba valutare il materiale istruttorio acquisito: la disposizione in questa parte enuncia il principio del libero convincimento (o del prudente apprezzamento) delle prove da parte del giudice e precisa il valore e l'oggetto degli argomenti di prova.

Le regole testé richiamate, sebbene già rinvenibili nella giurisprudenza e nella dottrina formatesi nel periodo antecedente all'entrata in vigore del d.lgs. n. 104/2010, hanno marcato, con riferimento al regime della prova e alla disciplina dell'istruttoria processuale, un deciso avvicinamento del giudizio amministrativo a quello civile. Sono state così parzialmente superate le risalenti concezioni fondate sul differente principio acquisitivo o, secondo un'accezione più temperata, del principio dispositivo con metodo acquisitivo, che assegnavano al giudice amministrativo un ruolo molto attivo nella ricerca e nella formazione della prova. L'abbandono di tali concezioni, da parte del Codice, non è stato peraltro completo, residuando – come testimonia il richiamato comma 3 dell'art. 64 c.p.a. – ampi margini per un intervento ufficioso del giudice. Il riconoscimento di tali spazi, per una autonoma iniziativa giurisdizionale si giustifica, peraltro, proprio alla luce dell'ormai compiuta trasformazione del processo amministrativo da giudizio sull'atto a giudizio sul rapporto; sicché l'esercizio di tali poteri ufficiosi, nella prospettiva codicistica, serve a ricostruire quale sia stato, nella fattispecie concreta di volta in volta esaminata, lo svolgimento della complessiva funzione amministrativa.

Ancorché, nell'ambito delle regole sull'istruttoria giurisdizionale non si registri un pieno allineamento tra la disciplina processuale amministrativa e quella civilistica, in ragione delle perduranti differenze strutturali e funzionali tra i due giudizi, nondimeno è evidente l'evocazione, nell'art. 64 c.p.a., dell'art. 2697 c.c. (nel comma 1), dell'art. 115 c.p.c. (nel comma 2) e dell'art. 116 c.p.c. (nel comma 4). Le norme contenute in tali disposizioni connotano fortemente il giudizio amministrativo come processo di parti e non come processo di diritto obiettivo.

Ammissione e assunzione delle prove

Prima di approfondire l'esame di ciascuno dei principi sopra richiamati, merita osservare che il Codice non contiene regole generali sull'ammissione e sull'assunzione dei mezzi di prova (fatta eccezione per le regole specifiche di assunzione dettate per i singoli mezzi di prova disciplinati dal Codice) richiesti dalle parti (i mezzi di prova disposti d'ufficio non richiedono, infatti, alcuna ammissione) e, tanto meno, è previsto uno specifico provvedimento giurisdizionale avente ad oggetto in modo particolare l'ammissione dei mezzi istruttori. Tale lacuna testimonia ulteriormente come la fase istruttoria nel giudizio amministrativo, a differenza di quanto accada nel processo civile, non abbia ancora raggiunto una piena autonomia strutturale e funzionale. Sotto questo aspetto, invero, il Codice risente ancora delle influenze delle tradizionali concezioni del giudizio amministrativo come processo essenzialmente cartolare e ad istruttoria eventuale. In conseguenza di tale lacuna, spetta dunque all'interprete il compito di ricostruire, sulla base delle poche norme dettate dal Codice e dei principi generali del diritto processuale comune, come ricavabili dal codice di procedura civile (art. 39), la disciplina dell'ammissione dei mezzi di prova.

Sicuramente, in ogni caso, il giudice amministrativo non è vincolato alle richieste di parte, ossia non è tenuto ad ammettere i mezzi di prova richiesti dalle parti (ancorché tale richiesta costituisca in alcune ipotesi – ad esempio per disporre una testimonianza scritta – il presupposto indefettibile, richiesto dalla legge processuale, per l'attivazione giurisdizionale). È rimessa, pertanto, alla discrezionalità del giudice la valutazione in ordine alla ammissibilità delle prove. L'esercizio di tale discrezionalità si muove entro le coordinate tracciate dal: a) diritto alla prova (o alla prova contraria), elemento fondamentale del giusto processo (art. 2 c.p.a.), del quale sono titolari le parti; b) principio della completezza dell'istruttoria (desumibile dall'art. 65, comma 1, c.p.a.), che è un corollario del principio di effettività della giurisdizione; e c) principio di utilità (o di indispensabilità) dell'istruttoria, laddove le regole dell'onere della prova e della non contestazione non siano sufficienti al giudice per giungere a una decisione della controversia.

In linea di massima, dunque, il giudice amministrativo non potrà ammettere mezzi di prova illeciti né quelli acquisiti in violazione delle condizioni, di volta in volta, stabilite dalle varie disposizioni processuali. Inoltre, tra i vari mezzi di prova la cui acquisizione sia lecita e rituale, il giudice amministrativo ammetterà quelli richiesti dalle parti, purché essi completino utilmente l'istruttoria sulle circostanze rilevanti ai fini del decidere (ossia non si tratti di prove superflue o sovrabbondanti).

L'onere della prova nel processo amministrativo. La funzione e i limiti dell'onere della prova. Le presunzioni legali e giudiziarie

Si è già accennato alla circostanza, talora non adeguatamente valorizzata, che l'art. 64 c.p.a. detta le regole fondamentali, sugli oneri delle parti e i poteri del giudice riguardo alla prova, valide per tutte le forme di giurisdizione amministrativa (di legittimità, esclusiva ed estesa al merito). In particolare, il comma 1, nell'enunciare il principio dell'onere della prova, evocando l'art. 2697 c.c., riveste una grande importanza sul piano teorico, dal momento che esso testimonia il superamento, in via legislativa, di risalenti ricostruzioni del processo amministrativo, come giudizio essenzialmente documentale (con la conseguente rilevanza solo marginale delle prove differenti da quelle precostituite) e venato da forti tratti di oggettività (a tutela dell'interesse pubblico), in cui il riparto dell'onere della prova tra le parti si presentava asimmetrico e in cui al giudice erano riconosciuti penetranti poteri di intervento, con finalità integrative delle limitate possibilità dell'iniziativa probatoria delle parti (specialmente di quelle private).

Almeno fino al 2000 la teoria fondamentale della prova nel processo amministrativo fu sintetizzata nella felice formula del principio dispositivo con metodo acquisitivo. In altri termini, muovendo dalla considerazione dell'asimmetria delle posizioni esistenti tra le pubbliche amministrazioni e le parti private sul piano del diritto sostanziale, si giunse a ritenere che la parte ricorrente non fosse gravata, in sede processuale, dell'onere di fornire una piena prova dei fatti posti a sostegno delle pretese di volta in volta dedotte in giudizio, ma che essa dovesse unicamente adempiere all'onere di allegare tali fatti (onere di allegazione) e di fornirne soltanto una dimostrazione parziale, anche soltanto di tipo logico (onere del principio di prova), spettando poi al giudice il compito di ricercare d'ufficio e in modo autonomo (è questo il senso del c.d. metodo acquisitivo o inquisitorio), gli elementi di prova eventualmente a sostegno della ricostruzione dedotta dal ricorrente. In questa prospettiva teorica, l'onere del principio di prova, forma attenuata del più intenso onere della prova, si giustificava, pertanto, in ragione della soggezione giuridica del ricorrente rispetto all'esercizio, sul versante sostanziale, dei poteri unilaterali e autoritativi della pubblica amministrazione evocata in giudizio e, altresì, in considerazione della limitata permeabilità del procedimento amministrativo (che fu retto per molti decenni, giova ricordarlo, dal principio della segretezza e dal difetto di significative garanzie di partecipazione), circostanze dalle quali si riteneva discendessero le maggiori difficoltà, per la parte privata, di dimostrare i fatti allegati.

La dottrina osservò, tuttavia, che, affinché potesse sollecitarsi il giudice ad avvalersi dei poteri istruttori ufficiosi (in deroga al principio dispositivo), occorreva in ogni caso che la parte privata adducesse seri e consistenti elementi in ordine ai fatti che intendesse — ma in concreto non fosse riuscita a — dimostrare. In questo senso era, dunque, necessario che la parte allegasse i fatti da provare.

A questo riguardo è diffusa anche la distinzione teorica tra allegazione primaria e allegazione secondaria. La prima riguarda i fatti principali, ossia quelli costitutivi della pretesa fatta valere in giudizio dalla parte; la seconda i fatti la cui dimostrazione permetta di verificare la sussistenza dei fatti principali. Secondo la dottrina la parte deve sicuramente allegare i fatti principali; tale onere, tuttavia, riguarderebbe anche quelli secondari, posto che diversamente il giudice, qualora procedesse autonomamente a introdurli nel giudizio, perderebbe la sua neutralità (v. infra).

Il principio dispositivo con metodo acquisitivo costituiva, dunque, una sorta di temperamento con funzione riequilibratrice, sul versante processuale, della diseguaglianza delle parti sul piano sostanziale e, quindi, delle maggiori difficoltà di norma incontrate dal ricorrente nell'assolvimento del proprio onere probatorio.

La situazione si mantenne pressappoco inalterata, nei termini testé succintamente ricostruiti, fino alla fine del secolo scorso, ossia fino agli anni 1998-2000, quando entrarono in vigore il d.lgs. n. 80/1998 e la l. n. 205/2000.

Occorre però accennare a un'importante e differente evoluzione che riguardò in modo specifico la giurisdizione esclusiva su diritti soggettivi, dal momento che la Corte costituzionale, negli anni ‘80 del secolo scorso, rimosse i precedenti limiti legislativi all'esercizio dei poteri istruttori del giudice amministrativo, consentendogli di disporre, nelle controversie su diritti patrimoniali dei pubblici impiegati, di tutti i poteri spettanti al giudice civile (con le eccezioni della querela di falso, dell'interrogatorio e del giuramento).

Invero il Giudice delle leggi, con la sentenza del 10 aprile 1987, n. 146, dichiarò l'illegittimità costituzionale degli artt. 44, primo comma, del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054 e 26 del r.d. 17 agosto 1907, n. 642, nonché 7, primo comma, della l. 6 dicembre 1971, n. 1034 (nei limiti in cui tale articolo richiamava le sunnominate disposizioni), nella parte in cui, nelle controversie di impiego di dipendenti pubblici, riservate alla giurisdizione esclusiva amministrativa, dette previsioni non consentivano l'esperimento dei mezzi istruttori previsti negli artt. 421, comma da 2 a 4, 422, 424 e 425, c.p.c.

Si avviò così, almeno con riferimento alla giurisdizione esclusiva, un processo di avvicinamento del giudizio amministrativo a quello civile, dovuto al significativo ampliamento dei mezzi di prova ammissibili (il ridotto spettro degli strumenti istruttori costituiva, invero, uno dei fattori di debolezza del giudizio amministrativo). Tale processo ricevette un forte impulso legislativo, con la riforma del 1998, e dalla dottrina, posto che tra gli studiosi del processo amministrativo si diffuse l'idea che il giudizio amministrativo dovesse trasformarsi da un «processo all'atto» in un «processo sul rapporto», ossia che il sindacato giurisdizionale non potesse più focalizzarsi unicamente sullo scrutinio delle eventuali illegittimità delle manifestazioni puntuali di esercizio del potere amministrativo (cioè sugli atti impugnati), ma che dovesse piuttosto estendersi all'intero svolgimento della funzione amministrativa in relazione alla fattispecie concreta dedotta in contenzioso.

La teoria e la prassi dell'istruttoria giurisdizionale nel processo amministrativo era, pertanto, destinata inevitabilmente a mutare a fronte dei cambiamenti normativi e giurisprudenziali risalenti all'ultima decade del secolo scorso. Concorsero a tale cambiamento l'apertura della funzione amministrativa alla partecipazione e all'accesso (grazie agli istituti introdotti dalla l. n. 241/1990), l'affermazione (dapprima a livello internazionale e poi anche costituzionale; v. l' art. 111 Cost.) del principio di parità delle parti, l'estensione del sindacato giurisdizionale anche ai profili di risarcibilità dell'interesse legittimo (del quale fu riconosciuta dal Supremo Collegio la natura sostanziale; v. Cass., S.U., n. 500/1999). Tutte queste novità ebbero dirette e inevitabili ripercussioni anche sul regime delle prove e sulla disciplina dell'istruttoria del giudizio amministrativo.

La svolta si ebbe grazie all' art. 7 della l. 21 luglio 2000, n. 205, con il quale fu sostituito l'art. 35 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80. Il comma 3 di tale disposizione introdusse infatti la possibilità, per il giudice amministrativo, di disporre — nelle controversie appartenenti alla giurisdizione esclusiva, ma senza distinguere in base alla situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio (diritto soggettivo o interesse legittimo) — l'assunzione di tutti i mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile, nonché della consulenza tecnica d'ufficio, esclusi soltanto l'interrogatorio formale e il giuramento.

La nuova, ampia latitudine dello spettro dei mezzi di prova utilizzabili dal giudice amministrativo, in uno con la maggiore trasparenza del procedimento amministrativo, incrinò sensibilmente il fondamento logico-razionale della tesi dell'onere del principio di prova, ossia dell'onere della prova «attenuato», dal momento che le parti private, in forza delle ricordate modifiche normative, cominciarono ad avere la disponibilità di incisivi strumenti probatori e correlate ampie possibilità di dimostrare in giudizio le loro pretese. Risultò così attuabile un regime di reale parità delle parti nel processo e, al contempo, giunsero a maturazione i tempi per una riduzione della precedente autonomia acquisitiva del giudice amministrativo, restituendolo a una dimensione di vera terzietà, anche rispetto al contraddittorio tra le parti nella fase istruttoria.

Il passo successivo è stato – come testimoniato dal richiamato art. 64 c.p.a. - il definitivo ingresso, nel giudizio amministrativo, del principio dell'onere della prova (o, meglio, dell'onere di fornire gli elementi di prova nella disponibilità delle parti), pur rimanendo alcune residue tracce, nel Codice, del metodo acquisitivo (ossia dell'onere della prova attenuato).

A dire il vero, però, nonostante il chiaro tenore dell'art. 64 c.p.a., parte della giurisprudenza amministrativa continua a ritenere che la materia della prova nel giudizio amministrativo sia ancor oggi presidiata dal principio probatorio dispositivo con metodo acquisitivo (in tal senso, ad esempio, Cons. St. V, n. 879/2015).

Si è detto che la regola dell'onere della prova dettata dall'art. 64, comma 1, c.p.a. non distingue tra le varie forme di giurisdizione esercitata dal giudice amministrativo. Va aggiunto che essa nemmeno distingue tra le situazioni giuridiche soggettive la cui violazione risulta dedotta nel contenzioso (interessi legittimi o diritti soggettivi).

Devono a questo punto approfondirsi le analogie e le differenze tra la regola dell'onere della prova nel processo amministrativo e quella dettata dall'art. 2697 c.c. per quello civile.

La differenza più evidente, che costituisce anche il principale adattamento del disposto recato dall'art. 2697 c.c. al processo amministrativo, va ravvisata nella circostanza che l'articolo in rassegna circoscrive l'onere delle parti ai soli elementi di prova nella disponibilità delle parti medesime. Secondo la dottrina si tratta degli elementi che non dipendono direttamente dal potere pubblico autoritativo e di quelli, che pur dipendendo da detto potere, siano nella disponibilità delle parti prima della proposizione del ricorso (o la cui disponibilità sia eventualmente sopravvenuta nel corso del giudizio, ma sempre ad opera di un'iniziativa delle parti).

La valorizzazione della «disponibilità degli elementi di prova» è volta a precludere l'esercizio ufficioso dei poteri istruttori del giudice allorquando le parti siano nella condizione di adempiere all'onere su di esse gravante, in quanto “vicine” all'elemento di prova.

Un'altra rilevante differenza riguarda il fatto che, nell'ambito del diritto civile, il riparto dell'onere della prova è una regola sostanziale (e non a caso si trova collocata nel codice civile), mentre nel giudizio amministrativo si trasforma in norma processuale, collocata nel codice del rito.

Diverse sono anche locuzioni utilizzate nell'art. 2697, primo comma, c.c., là dove alle parti si chiede di «provare i fatti» (costitutivi, modificativi o estintivi), mentre nel comma 1 dell'art. 64 c.p.a., le parti devono «fornire gli elementi di prova» di tali fatti. La differente formulazione delle due disposizioni non è priva di significato, dal momento che la seconda (quella processuale amministrativa) sembra aprire maggiormente alla possibilità di un residuale intervento suppletivo del giudice nei casi in cui gli «elementi di prova» non raggiungano la consistenza di una prova piena, secondo i canoni valutativi del diritto processuale civile.

Come sopra accennato, la regola sul riparto dell'onere della prova nel processo amministrativo postula in ogni caso l'avvenuto assolvimento dell'onere di allegazione dei fatti, nel senso che le parti devono, ancor prima di provarli, individuare e portare a conoscenza del giudice (e della controparte) i fatti da provare. Siffatto onere di allegazione delle parti riguarda, tuttavia, solo i fatti principali o costitutivi, ovvero i fatti sui quali poggia la domanda o l'eccezione o, più precisamente, quei fatti che integrano le fattispecie astratte al cui ricorrere l'ordinamento collega la sussistenza del diritto dedotto in giudizio e oggetto della pretesa azionata (o, per l'eccezione, l'elemento preclusivo al perfezionamento della fattispecie legale). L'onere di allegazione non sempre deve, invece, essere adempiuto dalle parti con riferimento ai fatti c.d. «secondari», ossia in relazione a quei fatti che, una volta allegati e comprovati quelli principali, possono esser oggetto di una valutazione inferenziale del giudicante (come si verifica per le presunzioni o per gli argomenti di prova; v. infra) o di una iniziativa inquisitoria del giudice (nei limiti in cui essa sia consentita), stante l'indifferenza, rispetto alla fonte e alla provenienza, della valutazione degli elementi di prova una volta legittimamente acquisiti al giudizio (v., supra, in ordine alla distinzione, con riferimento all'onere di allegazione, tra fatti primari e fatti secondari).

Prima di procedere oltre, occorre dedicare alcuni cenni alla funzione delle norme sul riparto dell'onere della prova. In estrema sintesi, può affermarsi che esse consentono al giudice di pervenire in ogni caso a una decisione (sul merito) della controversia, precludendogli la via del «non liquet» (vietato in quanto diniego di giustizia): in questo senso è corretto qualificare l'onere della prova come una regola di giudizio. In astratto, le regole sul riparto dell'onere della prova potrebbero essere molteplici; nel nostro ordinamento processuale civile e, ora, anche amministrativo, si è optato per una fisionomia del giudizio che assegna alle parti l'iniziativa probatoria (principio dispositivo; artt. 115 c.p.c. e 64, comma 2) in coerenza (non necessitata, a dire il vero) con il principio della domanda (art. 99 c.p.c.). In sostanza, chi agisce in giudizio per far valere una pretesa, oltre a dover delineare il thema decidendum (che risulterà definitivamente cristallizzato anche in virtù delle eccezioni e delle domande eventualmente avanzate dalle controparti), ha il compito di allegare e dimostrare la sussistenza degli elementi integrativi della fattispecie costitutiva della pretesa azionata (fatti costitutivi o fatti principali), ossia il c.d. «thema probandum». Chi agisce potrebbe, in teoria, limitarsi ad allegare l'esistenza dei fatti costitutivi e a fornire la prova di tali fatti principali, confidando nella possibilità che la controparte, per negligenza o imperizia o indisponibilità di allegazioni contrarie, si astenga dal contestare la sussistenza dei fatti allegati, non impegnando così chi agisce a fornire la prova dei fatti secondari, in quanto resa superflua in virtù dell'operare del principio di non contestazione. Sennonché, come è intuibile, il pericolo di soccombenza (per omessa prova della pretesa azionata) connesso a tale strategia processuale è molto elevato. Il ricorrente, pertanto, opterà di regola per l'offerta degli elementi di prova dei fatti costitutivi e almeno di alcuni elementi di prova dei fatti secondari, eventualmente evocando i fatti notori che possano risultare d'ausilio alla dimostrazione dei fatti costitutivi. In tal modo, a prescindere dall'ammissibilità dei mezzi di prova proposti e dalla loro idoneità dimostrativa, il ricorrente avrà assolto al suo onere della prova. A questo punto la controparte potrebbe confidare, a sua volta, nell'insufficienza dimostrativa dei mezzi di prova dei fatti costitutivi della pretesa azionata, offerti dal ricorrente. Anche questa strategia potrebbe, tuttavia, condurre alla soccombenza e, quindi, il resistente (in genere, la pubblica amministrazione) sceglierà di attivarsi per rendere disponibili al giudicante i mezzi di prova dei fatti (allegati) modificativi o estintivi di quelli indicati dal ricorrente. Quando anche il resistente avrà assolto all'onere della prova su di esso gravante, spetterà alla prudenza del giudice decidere quale parte abbia meglio adempiuto al rispettivo onere e quali mezzi di prova, tra tutti quelli acquisiti al processo, siano provvisti della maggiore efficacia dimostrativa. Tutto questo meccanismo è spesso riassunto nel brocardo onus probandi incumbit ei qui dicit.

Ove riguardata tale dinamica processuale da una differente prospettiva potrebbe correttamente sostenersi che, in concreto, siano le domande e le relative eccezioni a conformare e a determinare il riparto dell'onere della prova.

Va altresì evidenziato che il funzionamento dell'onere della prova non è mai disgiunto, nell'ambito di ogni giudizio di parti (come quello amministrativo), dal principio dispositivo (ricavabile dal comma 2 dell'art. 64 c.p.a., temperato da quello di non contestazione, in base al quale il giudice deve porre a fondamento della decisione solo le prove proposte dalle parti e i fatti non specificatamente contestati. Tale regola — è evidente – postula l'assolvimento (o il mancato assolvimento) dell'onere della prova e costituisce un vincolo per il giudice.

Occorre poi tener conto di una precisazione importante: il principio dell'onere della prova indica esclusivamente a quale parte spetti la prova di un determinato fatto, ma non si occupa della valutazione della correlazione tra i fatti da provare e il mezzo di prova offerto dalla parte onerata, giacché lo stabilire una correlazione del genere costituisce specifico oggetto e fine dell'attività di valutazione delle prove, ossia di una prerogativa del giudice. Si intende così significare che un mezzo di prova, prodotto da una parte, può anche giovare, sulla base della valutazione effettuatane dal giudicante, alla prova di un fatto il cui onere dimostrativo sarebbe gravato sull'altra. Tale concetto è, in genere, configurato come principio dell'acquisizione probatoria (principio ben diverso da quello del c.d. «metodo acquisitivo»), secondo cui ogni mezzo di prova, comunque acquisito al giudizio, può essere oggetto di valutazione prudente del giudice, a prescindere dalla parte che ne abbia determinato l'acquisizione. L'operare di questo principio può talora risolversi in un'attenuazione dell'onere della prova (ad esempio, ciò potrebbe verificarsi allorquando la prova di un fatto estintivo, che avrebbe dovuto dimostrare l'amministrazione resistente, risulti da un documento versato in atti dal ricorrente). La vigenza di questo principio giustifica anche l'utilizzo, a favore dell'una o dell'altra parte, degli elementi di prova acquisiti dal giudice autonomamente.

Sul principio di acquisizione probatoria la giurisprudenza (Cass., sez. lav., n. 21909/2013) ha affermato che affermato che esso comporta l'impossibilità per le parti di disporre degli effetti delle prove ritualmente assunte, le quali possono giovare o nuocere all'una o all'altra parte indipendentemente da chi le abbia dedotte e che trova fondamento nel principio del giusto processo di cui all'art. 111 Cost. e riscontro in disposizioni del codice di rito, quale l'art. 245, secondo comma, c.p.c., secondo cui la rinuncia fatta da una parte all'audizione dei testimoni da essa indicati non ha effetto se le altre non vi aderiscono e se il giudice non vi consente.

L'onere della prova può essere assolto anche in modo indiretto, ossia la parte può non essere in grado di dimostrare direttamente il fatto costitutivo, modificativo o estintivo, ma può fornire la prova di un differente fatto dal quale sia, però, logicamente possibile desumere l'esistenza (o l'inesistenza) di un fatto costitutivo, modificativo o estintivo. La dimostrazione indiretta di un fatto è particolarmente utilizzata nell'ipotesi in cui occorra dimostrare un fatto negativo, la cui prova è sempre stata ritenuta molto difficile (c.d. probatio diabolica).

L'onere della prova conosce, peraltro, dei limiti oggettivi. In particolare, le parti del processo amministrativo non sono mai tenute a provare:

a) l'esistenza e la vigenza di norme giuridiche (che devono essere conosciute d'ufficio dal giudice, secondo i brocardi iura novit curia e da mihi factum, dabo tibi jus);

b) i fatti allegati da una parte e non specificatamente contestati dalle controparti (su cui dispone l'art. 64, comma 2, c.p.a.; v. infra);

c) i fatti notori (v. infra);

d) le massime di esperienza (che sono sempre selezionate dal giudice, sebbene possano essere prospettate negli atti difensivi delle parti; v. infra);

e) le informazioni e i documenti acquisiti d'ufficio dal giudice (artt. 63, comma 1 e 64, comma 3, c.p.a.);

f) i fatti ritenuti provati in esito all'applicazione di una presunzione legale (allorquando la parte abbia dimostrato la sussistenza del fatto principale preso in considerazione dalla norma recante, per l'appunto, una presunzione legale), pur dovendo precisare, al riguardo, che il riferimento alle presunzioni legali concerne esclusivamente quelle relative, dal momento che le presunzioni legali assolute non sono in senso stretto presunzioni (non ammettendo esse alcuna prova contraria), ma consistono piuttosto in una particolare modalità di formulazione normativa della fattispecie astratta (sicché la presunzione legale assoluta individua, in realtà, un elemento di tale fattispecie);

g) l'esistenza e il contenuto del provvedimento impugnato e degli altri atti in base ai quali esso sia stato emanato, posto che l'obbligo di produrre detta documentazione grava sempre e soltanto sull'amministrazione resistente a norma del combinato disposto degli artt. 46, comma 2, e 65, comma 3, c.p.a. (con la conseguenza che, al ricorrere di talune condizioni, l'inottemperanza di tale dovere da parte dell'amministrazione potrebbe condurre alla vittoria del ricorrente);

h) le eccezioni in senso improprio, ossia quelle sempre rilevabili d'ufficio dal giudice.

Non sono, ovviamente, oggetto di prova le presunzioni semplici, giacché esse sono il frutto di un ragionamento inferenziale del giudice.

Con riferimento all'esonero delle parti dall'onere di «provare il diritto», occorre svolgere alcune ulteriori, importanti precisazioni. L'obbligo del giudice amministrativo di conoscere il diritto vigente e applicabile si estende fino alle fonti terziarie (ad esempio, i regolamenti degli enti locali), ma non riguarda i provvedimenti amministrativi a carattere generale (quali, ad esempio, gli strumenti urbanistici, la cui natura di fonte del diritto è ancor oggi controversa e comunque, in genere, esclusa) né le c.d. «norme interne» (come le circolari le quali sicuramente non sono fonti del diritto, a meno che non si tratti di regolamenti «mascherati» da circolari), sicché le parti che intendano sottoporre al giudice disposizioni contenute in tali atti, sono onerate della produzione dei documenti che ne attestino l'esistenza e la vigenza.

Inoltre le parti hanno l'onere di dimostrare l'esistenza di un uso oppure di offrire la prova (contraria) dell'inesistenza di un uso pubblicato in una raccolta ufficiale (art. 9 disp. prel. c.c.).

Invece è obbligo del giudice, a norma dell' art. 14 della l. 31 maggio 1995, n. 218 (riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), l'accertamento della legge straniera, ossia delle norme appartenenti a ordinamenti differenti da quello italiano; il giudice è poi tenuto a conoscere e ad applicare le norme internazionali generali di carattere consuetudinario e quelle di origine pattizia, ossia quelle derivanti dai trattati internazionali che siano stati ratificati dalla Repubblica italiana (e che siano divenuti efficaci secondo le regole internazionali e resi esecutivi nell'ordinamento italiano, in base alla disciplina nazionale). Parimenti il giudice è tenuto a conoscere e ad applicare il diritto dell'Unione europea.

L'onere della prova spesso si atteggia, ma solo in concreto, in modo differente a seconda dell'azione esercitata avanti al giudice amministrativo e delle situazioni giuridiche soggettive coinvolte (sebbene, si ripete, sul punto il Codice non rechi espressamente alcuna formale differenziazione tra le regole sul riparto). Nell'azione di annullamento, che è la tipica azione del diritto amministrativo, con la quale si fa valere una pretesa consistente in un interesse legittimo, il ricorrente dovrà dimostrare il vizio di legittimità denunciato, mentre l'amministrazione dovrà sostenere e, se del caso, dar prova della legalità del proprio operato. Nelle azioni di accertamento e di condanna, in cui sono dedotti diritti soggettivi, il ricorrente dovrà, invece, provare i fatti costitutivi della sua pretesa e la controparte i fatti modificativi o estintivi. Nell'azione avverso il silenzio-inadempimento il ricorrente potrà limitarsi ad allegare l'esistenza dell'obbligo di provvedere e l'inerzia serbata dall'amministrazione, mentre quest'ultima dovrà dimostrare l'inesistenza dell'obbligo oppure l'avvenuto adempimento. Nell'azione per l'accesso, il ricorrente allegherà la circostanza dell'avvenuta richiesta e della mancata o incompleta risposta dell'amministrazione e la resistente dovrà dimostrare che vi sia stata una risposta, che questa fosse completa o che non fosse dovuta oppure l'accesso non fosse consentito. Diverse sono anche le regole sulla prova del danno in caso di responsabilità civile per violazione di un interesse legittimo o di un diritto soggettivo.

La dottrina si è spesso soffermata sulla circostanza, alla quale si è appena accennato, del diverso atteggiarsi, nel giudizio amministrativo, del principio dell'onere della prova a seconda della situazione giuridica soggettiva posta a base della pretesa azionata e della forma di giurisdizione amministrativa al quale appartenga la specifica controversia da decidere. In particolare, nelle liti su diritti soggettivi rientranti nella giurisdizione esclusiva, l'onere della prova risulterebbe identico a quello posto in capo alle parti nel rito civile, tenuto conto della loro posizione di parità, con minore spazio per un intervento ufficioso del giudice (intervento, per contro, più penetrante nelle liti su interessi legittimi).

La giurisprudenza amministrativa ha aderito, talora, a questa impostazione e ciò è testimoniato, ad esempio, dalle pronunce in tema di riparto dell'onere della prova in caso di danno da demansionamento e da mobbing e in tema di danni da mancata aggiudicazione. Nel primo caso si è affermato (T.A.R. Abruzzo, L'Aquila, I n. 201/2017) che, nel giudizio risarcitorio che si svolge davanti al giudice amministrativo, nel rispetto del principio generale sancito dal combinato disposto degli artt. 2697 c.c. e 63, comma 1 e 64, comma 1, c.p.a., non può avere ingresso il c.d. metodo acquisitivo tipico del processo impugnatorio; pertanto, il ricorrente che chiede il risarcimento del danno da cattivo (o omesso) esercizio della funzione pubblica, deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda, sicché il contenuto del preteso demansionamento va comunque esposto nei suoi elementi essenziali dal lavoratore che non può, quindi, limitarsi genericamente a dolersi di essere vittima di un illecito, ma deve almeno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice amministrativo possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di una condotta illecita. Nel secondo caso l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (Cons. Stato, ad. plen. n. 2/2017) ha enunciato il principio per cui, nel caso di mancata aggiudicazione, spetta sempre all'impresa danneggiata offrire, senza poter ricorrere a criteri forfettari, la prova rigorosa dell'utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, poiché nell'azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.), e la valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità — o di estrema difficoltà — di una precisa prova sull'ammontare del danno.

Va, però, ribadito che il Codice non ha recepito siffatta differenziata fisionomia dell'onere del fornire gli elementi di prova, avendo esso dettato in materia, come sopra osservato, regole uniformi, valevoli per tutti i tipi di giurisdizione e senza distinguere in base alla natura delle situazioni giuridiche soggettive dedotte in contenzioso; piuttosto il Codice ha valorizzato la circostanza della «disponibilità», o meno, dello specifico elemento di prova, consentendo l'intervento inquisitorio del giudice amministrativo nei soli casi in cui le parti non abbiano tale disponibilità e comunque nelle sole ipotesi in cui il medesimo giudice, sulla base di valutazioni discrezionali ad esso riservate, ravvisi spazi per un suo «soccorso istruttorio» volto a ristabilire la parità delle parti, in ossequio al fondamentale canone costituzionale scolpito dall' art. 111 Cost. Vero è, ma il profilo attiene alla dimensione fattuale e non a quella giuridica, che una situazione di parziale o totale indisponibilità di elementi di prova si verificherà più frequentemente nelle controversie aventi ad oggetto interessi legittimi e, quindi, principalmente nelle azioni di annullamento appartenenti alla generale giurisdizione amministrativa di legittimità. Soprattutto queste controversie, infatti, riflettono quell'asimmetria delle parti sul piano sostanziale alla quale si è più volte accennato sopra.

Del resto, e in linea con quanto testé osservato, altra dottrina ha criticato quella giurisprudenza che distingue — quanto al principio dispositivo nel processo amministrativo — tra giudizi che vertano su interessi legittimi (nei quali si avrebbe un ampio potere del giudice non soltanto di acquisire la prova dei fatti, ma anche di introdurre surrettiziamente i fatti insieme ai relativi mezzi istruttori) e su diritti soggettivi (ipotesi nella quale spetterebbe unicamente alle parti l'onere d'introdurre i fatti e di fornirne prova); tale atteggiamento è stato condivisibilmente considerato in contrasto con le disposizioni del Codice e con quelle costituzionali (prima tra tutte, l'art. 24 Cost.).

Risvolti processuali dell'onere di allegazione probatoria. Il principio dispositivo. I poteri ufficiosi del g.a.

Le conseguenze della sanzione legislativa dell'onere di allegazione dei fatti e dell'onere di fornire gli elementi di prova disponibili sono stabilite, indirettamente, dallo stesso art. 64 c.p.a., al comma 2, là dove è sancito il divieto per il giudice, fatti salvi i casi (tassativi ed eccezionali) previsti dalla legge, di porre a fondamento della decisione gli elementi di prova non forniti dalle parti o i fatti da queste specificatamente contestati. In altri termini, il comma 2 stabilisce, in linea con l'antico brocardo secondo cui le liti debbono essere decise «iuxta alligata et probata», che gli ambiti entro i quali il giudice può andare alla ricerca della prova, in via suppletiva e al fine di colmare una lacuna negli elementi forniti dalle parti, sono quelli segnati dai confini del principio dispositivo, a sua volta circoscritto dal principio della domanda (quest'ultimo volto a delimitare l'alveo del thema decidendum). Diretto corollario dei limiti del potere istruttorio suppletivo del giudice è l'ulteriore divieto di decidere la controversia ricorrendo alla c.d. scienza privata.

Sono molteplici i «casi previsti dalla legge» di poteri inquisitori del giudice amministrativo che il comma 2 dell'art. 64 c.p.a. fa salvi. Senza pretese di esaustività possono, tra di essi, ricordarsi: il potere acquisitivo del giudice amministrativo, disciplinato dal comma 3 dello stesso art. 64 c.p.a.; l'analogo potere di chiedere alle parti documenti e chiarimenti, a norma dell'art. 63, comma 1, c.p.a.; il potere di ordinare l'esibizione del provvedimento impugnato in forza dell'art. 65, comma 3, c.p.a.; il potere di liquidare in via equitativa il danno, una volta che la parte abbia provato l'an del pregiudizio; il potere di ordinare l'esibizione di documenti o altro a norma dell'art. 210 c.p.c. (ex art. 63, comma 2, c.p.a.) e il potere di disporre l'ispezione ai sensi dell' art. 118 c.p.c. (ex art. 63, comma 2, c.p.a.). Non rientra invece in tale novero il potere ufficioso del giudice di disporre la consulenza tecnica o la verificazione, non essendo tali strumenti mezzi di prova in senso stretto, ma unicamente mezzi per consentire al giudice di valutare fatti ed elementi di prova già acquisiti al giudizio. Solo entro i limiti dei casi fatti salvi dalla legge, può dunque affermarsi che residuino, nell'attuale assetto del processo amministrativo, margini per la sopravvivenza del precedente metodo acquisitivo.

In considerazione dei numerosi e articolati poteri istruttorii ufficiosi, tuttora riconosciuti dal Codice al giudice amministrativo, la dottrina ha affermato che tale giudice continua a rimanere il «signore della prova», secondo la felice espressione già utilizzata da Nigro.

Giova comunque ribadire che siffatti poteri ufficiosi sono ammissibili soltanto nei limiti dell'oggetto della controversia, come risultante dal thema decidendum definito dalle domande ed eccezioni delle parti e delle relative allegazioni. Debbono, pertanto, reputarsi vietate le eventuali iniziative inquisitorie del giudice aventi carattere c.d. «esplorativo».

Completano la regola dettata dal comma 1 dell'art. 64 c.p.a. i successivi commi e, in particolare, il comma 2, che riproduce, come già ricordato, il primo comma dell'art. 115 c.p.c., come sostituito dal comma 14 dell'art. 45 della l. 18 giugno 2009, n. 69, e reca l'affermazione della vigenza anche nel processo amministrativo del principio dispositivo, principio che, per un verso, costituisce, come accennato, un completamento delle regole sul riparto dell'onere della prova e, per altro verso, fissa il richiamato limite ai poteri inquisitori del giudice. Si tratta in ogni caso di poteri la cui attivazione è rimessa a una scelta discrezionale del giudicante, scelta quest'ultima in via generale non sindacabile, salvo il caso in cui non sia stata accolta, senza alcuna motivazione, una specifica sollecitazione di parte.

Un corollario del principio dispositivo e dei connessi limiti all'iniziativa inquisitoria del giudice è il c.d. «divieto della scienza privata», ricavabile dall' art. 97 disp. att. c.p.c., rubricato «Divieto di private informazioni» (per cui il giudice non può ricevere private informazioni sulle cause pendenti davanti a sé né può ricevere memorie se non per mezzo della cancelleria), secondo il quale il giudice – dovendo decidere sulla base delle prove offerte dalle parti e dei fatti non contestati – nemmeno può far ricorso alle sue conoscenze specialistiche, se diverse da quelle strettamente giuridiche o comunque esorbitanti dall'alveo del notorio. La scienza privata, invero, è quoad effectum equivalente all'esercizio di un potere inquisitorio; in ogni caso il suo utilizzo si concreterebbe in un aggiramento del contraddittorio (e del correlato controllo delle parti) in materia di prova e dell'onere di allegazione e, in conclusione, in una violazione dell'imparzialità del giudice. Le ricadute pratiche di tale divieto riguardano il dovere del giudice di disporre una verificazione o una consulenza tecnica ogniqualvolta sia necessario accertare fatti o valutarli, ancorché le relative nozioni appartengano al personale patrimonio di conoscenze del giudicante.

L'acquisizione d'ufficio di informazioni e documenti nella disponibilità della pubblica amministrazione

Come già rilevato, il Codice contempla, talora in deroga alla regola dell'onere della prova, altri vari e interferenti poteri ufficiosi del giudice amministrativo in materia di acquisizione di documenti e di informazioni nella disponibilità della pubblica amministrazione o, in senso più lato, delle parti. Sebbene non possano escludersi in concreto sovrapposizione tra tali strumenti processuali, nondimeno essi poggiano su diversi presupposti applicativi e rispondono ad esigenze istruttorie differenziate. Si allude, in particolare, alle seguenti previsioni:

a) all'art. 63, comma 1, c.p.a. secondo cui il giudice può chiedere alle parti anche d'ufficio chiarimenti o documenti: tale potere, esercitabile anche d'ufficio dal giudice, riguarda entrambe le parti (non soltanto la pubblica amministrazione resistente) e si basa sul principio della «vicinanza alla fonte di prova»; esso inoltre, dal punto di vista oggettivo, si estende ai chiarimenti;

b) all'art. 62, comma 2, c.p.a., in base al quale il giudice, anche d'ufficio, può ordinare anche a terzi l'esibizione in giudizio di documenti o quanto altro ritenga necessario ai fini del decidere: in questo caso la previsione rileva soprattutto per la possibilità di imporre coattivamente la produzione delle res (documenti o altro) la cui acquisizione sia ritenuta indispensabile ai fini della decisione; in più, l'ordine di esibizione, oltre ad avere una specifica disciplina dettata dal codice di procedura civile, può riguardare anche oggetti differenti dai documenti e, soprattutto, può essere indirizzato anche a soggetti terzi, estranei alla lite;

c) all'art. 64, comma 3, c.p.a., in virtù del quale il giudice può disporre, anche d'ufficio, l'acquisizione di informazioni e documenti utili ai fini del decidere che siano nella disponibilità della pubblica amministrazione: in questo caso l'acquisizione è configurata soltanto come «utile» (non come necessaria) e l'ordine di acquisizione può essere indirizzato sia nei confronti della pubblica amministrazione evocata in giudizio sia nei confronti di qualunque altra amministrazione estranea al processo; inoltre l'acquisizione può concernere anche informazioni (e non soltanto documenti);

d) al combinato disposto degli artt. 46, comma 2, e 65, comma 3, c.p.a.: in tal caso l'ordine giurisdizionale ha ad esclusivo oggetto il provvedimento impugnato, nonché gli atti e i documenti in base al quale esso sia stato emanato; a ben vedere, poi, esso non incide su meri elementi documentali, ma sullo stesso «oggetto» del giudizio amministrativo (ossia sull'atto impugnato), almeno nelle controversie instaurate a seguito dell'esercizio di un'azione di annullamento.

Per completezza va anche segnalato che il giudice può acquisire documentazione e informazioni dalla pubblica amministrazione anche attraverso l'esperimento di una verificazione o di una consulenza tecnica.

Infine, sebbene si tratti di una questione dibattuta, il giudice amministrativo, stante il rinvio generalizzato ai mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile, potrebbe anche avvalersi dello strumento informativo disciplinato dall'art. 213 c.p.c., ancorché tutte le utilità ipoteticamente offerte da tale istituto risultino ricomprese in quello tipizzato dal comma 3 dell'art. 64 c.p.a.

Il principio di non contestazione e l'onere di contestazione

Ancora in base al comma 2 dell'art. 64 c.p.a., il giudice può porre a fondamento della sua decisione anche i fatti non contestati dalle parti. In altri termini, una parte può ritenersi esonerata dall'onere di provare i fatti (principali) allegati – ad esempio, nella parte narrativa del ricorso, di cui all'art. 40, comma 1, lett. c), c.p.a. – e non contestati dalla controparte, in tutti i casi in cui sussista, a carico della predetta controparte, uno specifico onere di contestazione di tali fatti. Sotto questo aspetto, l'art. 64, comma 2, c.p.a. ha sancito l'esistenza, in capo alle parti, non solo dell'onere di allegazione e della prova dei fatti costitutivi delle pretese fatte valere (o, a seconda della posizione assunta nel giudizio, dei fatti estintivi o modificativi di dette pretese), ma anche di un onere di specifica contestazione dei fatti allegati dalle controparti, onde scongiurare che il giudice possa considerare tali fatti come provati o come «ammessi», quasi alla stregua di una ficta confessio poggiante su una generica acquiescenza espressa attraverso l'inerzia difensiva della parte interessata a contrastare le richiamate allegazioni.

Circa i limiti dell'onere di contestazione la dottrina ha osservato che, dall'onere delle parti di fornire gli elementi che sono «nella loro disponibilità», si ricaverebbe la regola secondo cui la non conoscenza di un fatto risulterebbe equivalente alla indisponibilità di elementi riguardanti il fatto stesso, con la conseguenza che i fatti non conosciuti, non essendo nella disponibilità della parte, esulerebbero dall'onere di contestazione.

Il principio di non contestazione -in base al quale il giudice è tenuto a considerare come provati o come non bisognevoli di prova (ossia pacifici) i fatti non specificatamente contestati - trova a sua volta fondamento logico nel principio dispositivo, nel dovere delle parti di cooperare per la realizzazione della ragionevole durata del processo, nonché nella previsione del potere del giudice di desumere argomenti di prova dal comportamento tenuto dalle parti nel corso del processo a norma del comma 4 dello stesso art. 64 c.p.a.

L'operatività del principio di non contestazione va, però, incontro ad alcuni limiti. Innanzi tutto, come prevede espressamente il comma 2 dell'art. 64 c.p.a., esso si applica unicamente nei confronti delle parti costituite, giacché solo esse sono processuale tenute a conoscere quali fatti abbia allegato la controparte.

Al riguardo va, tuttavia, segnalato che si registrano posizioni giurisprudenziali – ancorché non del tutto convincenti - volte ad applicare il principio di non contestazione anche nell'ipotesi della mancata costituzione della parte resistente: in tal senso, T.A.R. Toscana, III n. 60/2017, secondo cui la mancata costituzione in giudizio dell'amministrazione intimata consentirebbe al giudice amministrativo di applicare il principio di non contestazione ex art. 64 c.p.a., alla cui stregua dovrebbero, quindi, considerarsi come provati i fatti e le circostanze dedotte dal ricorrente.

Inoltre l'onere di contestazione può riguardare solo un'allegazione avversaria che presenti i caratteri della precisione e della specificità, escludendosi conseguentemente che una parte debba contestare anche le affermazioni generiche o, finanche, le mere difese o tutti gli argomenti spiegati dalla controparte. Ancora, il principio di non contestazione non può operare in relazione a quegli elementi che occorre comunque dimostrare o comprovare (ad esempio, attraverso la produzione del documento allorquando la forma scritta sia richiesta dall'ordinamento ad substantiam o ad probationem). Non vale poi il principio di non contestazione per elementi diversi dai «fatti» e, quindi, esso non può essere utilizzato per ritenere «provata» una tesi o una qualificazione giuridica sol perché non contestata dalla controparte, giacché l'individuazione e l'applicazione del diritto è una prerogativa riservata al giudice (secondo il brocardo iura novit curia). Infine il giudice deve comunque tener conto di tutti gli elementi di prova acquisiti nel corso del processo e, quindi, non è vincolato al dovere di decidere sulla base dei fatti non contestati, qualora - a prescindere dall'inerzia di parte che non abbia adempiuto all'onere di contestazione – i fatti non contestati risultino comunque smentiti da altre prove, in coerenza con il principio dell'acquisizione probatoria.

In tema, la giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, Sez. V, n. 4194/2013), ha affermato che il principio di non contestazione, che fa obbligo al giudice di porre a fondamento della sua decisione i fatti non specificatamente contestati dalle parti costituite, non risulta violato dal rilievo assegnato ad una «contestazione implicita», che si verifica allorché la parte si limiti a narrare un fatto logicamente e strutturalmente incompatibile con quando dedotto dalla parte avversa, atteso che la specificità che si richiede alla contestazione non necessariamente comporta che essa debba essere anche espressa.

Il fatto notorio

Sebbene l'art. 64 c.p.a. non abbia riprodotto anche il secondo comma dell'art. 115 c.p.c., non si dubita che anche nel giudizio amministrativo viga il principio del fatto notorio. In altri termini, anche il giudice amministrativo, al pari di quello civile, può porre a fondamento della decisione, senza bisogno di provarle, le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza. Il fatto notorio rappresenta, dunque, una deroga sia all'onere della prova, posto che le parti non sono tenute a provare il «notorio» (né è consentito provarne l'inesistenza), sia al principio dispositivo, dal momento che il giudice potrebbe d'ufficio ricorrere al «fatto notorio», ritenendo provati, i fatti che rientrino nella comune esperienza. Va, però, precisato che il fatto notorio rappresenta una deroga all'onere della prova, ma non anche all'onere di allegazione.

Configurandosi come un'eccezione a principi generali del processo, la nozione di «fatto notorio» deve essere applicata entro limiti molto rigorosi. Il fatto notorio si distingue, infatti, dalle massime di esperienza sia dalla scienza privata del giudice (il cui uso a fini decisorii è sempre vietato).

Il fatto notorio è l'insieme dei fatti storici conosciuti, come incontestabili, da qualunque persona di cultura media appartenente a una collettività (della quale faccia parte anche il giudice) in una epoca determinata e in un dato luogo.

Il Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. IV, n. 4102/2011) ha affermato, infatti, che il fatto notorio va ricondotto ad una nozione rigorosa, che lo qualifichi quale fatto acquisito alla conoscenza della collettività (anche del solo luogo ove esso è invocato) con tale grado di certezza da apparire indubitabile e incontestabile. Nello stesso senso si è espressa anche la Corte di cassazione (Cass. VI, n. 4948/2013), secondo cui costituisce fatto notorio, cioè un fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire incontestabile.

Esula, pertanto, dal concetto di fatto notorio ogni fatto la cui percezione (o intellegibilità) postuli il possesso nel percipiente di particolari conoscenze o comunque di un'interpretazione o di una valutazione.

Le massime di esperienza

Si avvicina alla nozione di fatto notorio, pur distinguendosene sotto diversi profili, il concetto di «massime di esperienza». Queste consistono in regole probabilistiche di inferenza, selezionate tra quelle condivise dalla collettività di riferimento del giudicante in un determinato contesto storico, oppure costruite di volta in volta dal giudice stesso sulla base della comune esperienza, dell'id quod plerumque accidit e di leggi scientifiche di copertura (tipiche, in questo ultimo senso, le massime di esperienza utilizzate, talora, per ricostruire il nesso causale nei giudizi risarcitori). Il fondamento rinvenibile nella comune esperienza riconduce anche tali massime alla base normativa rappresentata dal secondo comma dell'art. 115 c.p.c. che assume il valore di una previsione esprimente un principio di carattere generale, applicabile come tale anche nel giudizio amministrativo in forza del rinvio esterno di cui all'art. 39, comma 1, c.p.a.

Il prudente apprezzamento del giudice

Il comma 4 dell'art. 64 c.p.a. stabilisce che il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento e che può desumere argomenti di prova dal comportamento tenuto dalle parti nel corso del processo. Tale previsione evoca i due commi dell'art. 116 c.p.c.

Si è osservato che il comma 4 dell'art. 64 c.p.a. non avrebbe riprodotto l'ultima parte dell'art. 116 c.p.c., relativa alla clausola di salvezza dei casi in cui la legge disponga altrimenti; ciò allo scopo di ribadire il divieto di ingresso nel giudizio amministrativo di prove legali.

Il rilievo sistematico del comma risiede nell'enunciazione del principio del prudente apprezzamento (o del libero convincimento), secondo il quale il giudice, nel valutare le prove, non è gravato da vincoli eteronomi che gli impongano di attribuire all'esito di taluni mezzi di prova un valore predeterminato o che stabiliscano come obbligatoria, da parte del giudice, la considerazione di alcuni mezzi istruttori rispetto ad altri o che ne prevedano una gerarchia. Siffatto principio nel giudizio amministrativo assume una valenza e una latitudine assai più vaste rispetto al processo civile, in ragione dell'assenza nel processo amministrativo di prove legali (fatta eccezione per le prove precostituite di natura documentale assistite da fede privilegiata); sotto questo profilo il Legislatore sembrerebbe aver attribuito al giudice amministrativo una maggior «fiducia» (la prova legale, invero, nasce storicamente dall'esigenza di limitare la discrezionalità valutativa del giudice in materia di prova e, quindi, in questo senso è espressione di una qual sorta di «sfiducia» verso il decidente).

Diretti corollari del principio del libero convincimento sono il potere di desumere argomenti di prova dal comportamento processuale delle parti, il principio dell'acquisizione probatoria, già richiamato, secondo il quale, ai fini della valutazione da parte del giudicante, non rileva la provenienza soggettiva della singola prova (ossia da quale parte la prova sia stata richiesta o prodotta) né la dichiarata finalità della sua assunzione, nonché, infine, il potere del giudice di ammettere fonti di prova atipiche.

L'apprezzamento del giudice, tuttavia, anche nel processo amministrativo, deve essere «prudente», ossia non è senza limiti e non deve risolversi in abusi o arbitrii, posto che:

a) l'esercizio della discrezionalità giurisdizionale, di cui è espressione la valutazione delle prove, deve essere comunque logicamente motivato, sebbene non esistano regole precostituite di preferenza tra una prova e l'altra; la motivazione è, invero, funzionale alla possibilità di un sindacato che possa spingersi fino alla verifica della corretta selezione delle massime di esperienza, nonché della ragionevole costruzione e del rigoroso utilizzo delle regole inferenziali nelle prove per induzione;

b) il giudice amministrativo è inoltre tenuto al rispetto della valenza delle (poche ed eccezionali prove legali) ammissibili nel processo amministrativo;

c) anche il giudice amministrativo dovrà osservare i vincoli eventualmente discendenti dalla legge, come le presunzioni legali, le regole di formazione di valide presunzioni semplici (si vedano, al riguardo, gli artt. 2727,2728 e 2729 c.c.), le conseguenze derivanti dalla non contestazione di taluni fatti, le specifiche condizioni di ammissibilità di taluni mezzi di prova (ad esempio, la necessità dell'istanza di parte per la prova testimoniale) e, infine, i divieti del ricorso alla scienza privata o alle prove atipiche illecite o all'utilizzo di prove illegittimamente acquisite.

Gli argomenti di prova

Si è sopra accennato che il potere del giudice di desumere argomenti di prova dal comportamento tenuto dalle parti nel corso del processo è un corollario del principio del prudente apprezzamento.

L'argomento di prova è, all'evidenza, qualcosa di diverso dalla prova e va anche distinto dalla presunzione (semplice). A differenza di quest'ultima, l'argomento di prova non consiste nella prova piena, seppure logica (quale è la presunzione), che il giudice trae da un fatto noto per risalire a uno ignoto (da provare), ma consiste piuttosto in un elemento di convincimento, di natura logica, destinato a integrare o a completare un più ampio giudizio probatorio o, in altri termini, in un supporto all'attività di valutazione delle prove riservata al giudice.

L'essenziale caratteristica dell'argomento di prova è, dunque, la sua sussidiarietà, nel senso che l'argomento da solo – a differenza della presunzione semplice — non può mai costituire prova, ma richiede di essere accompagnato ad altri elementi, acquisiti nel corso del giudizio, dei quali esso concorre a chiarire o a rafforzare il significato processuale.

Un'altra caratteristica dell'argomento di prova è la sua atipicità, sicché non ne è possibile declinarne una precisa tassonomia, posto che il giudice può trarre argomenti di prova da qualunque contegno delle parti, sia omissivo sia commissivo, tenuto sia nel giudizio sia al di fuori di esso, purché «nel corso del processo». Esistono, tuttavia, anche ipotesi in cui la legge stessa prevede la possibilità, per il giudice, di trarre argomenti di prova in presenza di certi comportamenti delle parti. Un esempio eloquente è offerto dal secondo comma dell'art. 118 c.p.c., richiamato dall'art. 63, comma 2, c.p.a., secondo il quale il giudice può trarre argomenti di prova dall'ingiustificato rifiuto della parte di eseguire un'ordinanza con la quale sia stata disposta una ispezione.

In ogni caso l'esercizio del potere giurisdizionale di desumere argomenti di prova è sempre discrezionale (tanto si desume dall'utilizzo della parola «può» nel comma 4 della previsione in rassegna) e va motivato.

Nel giudizio amministrativo è ricca la casistica di casi in cui sono utilizzati argomenti di prova ai fini del decidere. Invero, si traggono sovente argomenti di prova dai comportamenti omissivi delle parti, specialmente di quelli tenuti dalla pubblica amministrazione, rispetto a una richiesta proveniente dal giudice (come, ad esempio, il non aver offerto i chiarimenti o il non aver prodotto i documenti richiesti dal giudicante). Peraltro, anche a prescindere dalla ipotesi specifica dell'inottemperanza a un ordine giurisdizionale, i comportamenti ostruzionistici e le condotte omissive della pubblica amministrazione si prestano alla formazione di argomenti di prova, dal momento che, a differenza delle parti private, le amministrazioni – la cui intera attività è dominata dal principio di legalità e volta alla cura dei superiori interessi pubblici — sono soggette a una disciplina sostanziale che impone loro il rispetto di elevati standard prestazionali, in termini di buon andamento, efficacia ed efficienza delle funzioni e dei servizi ad esse istituzionalmente affidati.

In tema va ricordata la decisione dell'Adunanza plenaria del Cons. St. n. 32/1995, con la quale si è statuito che, in presenza di un'istruttoria disposta e non adempiuta dall'amministrazione, il giudice amministrativo, in applicazione della regola di giudizio di cui all' art. 116 c.p.c., può dare per provati i fatti affermati dal ricorrente. Successivamente, tuttavia, lo stesso Cons. Stato, n. 4822/2005 ha limitato tale regola alla sola ipotesi in cui l'esito applicativo di essa non contrasti con gli altri elementi rilevabili dall'istruttoria processuale.

Possono, nondimeno, venire in rilievo anche comportamenti di carattere commissivo: potrebbe, ad esempio, divenire oggetto di un argomento di prova l'adozione, da parte dell'amministrazione resistente, di taluni provvedimenti nei confronti delle parti ricorrenti «nel corso del processo», ma al di fuori di esso.

In linea di massima, tuttavia, gli argomenti di prova vengono desunti soprattutto dai quei contegni delle parti che siano espressione di una qual sorta di renitenza alla collaborazione con il giudice o con le altre parti o nelle condotte dilatorie o, ancor più in generale, in qualunque comportamento che confligga con il fondamentale canone della buona fede.

Non si configura come un argomento di prova il dovere del giudice di considerare come provati i fatti non specificatamente contestati dalle parti. In questo caso, infatti, il significato del comportamento omissivo delle parti è tipizzato dal comma 2 dell'art. 64 c.p.a. e la valutazione da dare alla specifica condotta omissiva è, dunque, stabilita direttamente dalla legge processuale. Al riguardo il giudice non esercita, pertanto, alcun libero apprezzamento.

Possono essere utilizzati come argomenti di prova, desunti da comportamenti processuali, anche le affermazioni contenute negli atti di difensivi delle parti allorquando essi consistano in un'ammissione esplicita o implicita di talune circostanze sfavorevoli alle parti medesime.

Particolari argomenti di prova sono quelli menzionati nel comma 6 dell'art. 11 c.p.a. La disposizione, in tema di decisione sulle questioni di giurisdizione, prevede infatti che, qualora un giudizio – inizialmente introdotto avanti a un diverso giudice – sia riproposto davanti al giudice amministrativo, le prove raccolte nel processo davanti al giudice privo di giurisdizione possono essere valutate come argomenti di prova. Si tratta di un ulteriore effetto della translatio iudicii, chiaramente ispirato al principio di conservazione dei mezzi giuridici. Onde non disperdere l'attività processuale compiuta avanti al giudice sprovvisto di iurisdictio la norma affida alla intermediazione valutativa del giudice amministrativo la possibilità di recuperare gli elementi istruttori acquisiti in pregresso. Ovviamente, in ragione della carente potestà giurisdizionale del giudice precedentemente adito, si è ragionevolmente stabilito di non riconoscere in modo automatico a tali elementi un valore probatorio pieno, riservando invece alla discrezionalità del giudice amministrativo la possibilità di utilizzarli alla stregua di argomenti di prova. Del resto, tale soluzione è coerente con la diversità di regime della prova civile che registra, rispetto al processo amministrativo, più casi di prove legali.

Sull'applicazione dell'art. 11, comma 6, c.p.a. si è pronunciato il Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. VI, n. 2128/2018) affermando il principio secondo cui le prove acquisite nel giudizio civile sono rilevanti nel processo riproposto avanti al giudice amministrativo. In termini, anche Cons. Stato, Sez. IV, n. 3852/2015. In tema, anche T.A.R. Brescia II, n. 20/2017, secondo cui la natura di argomenti di prova delle prove acquisite dal giudice privo di giurisdizione va comunque valutata tenendo conto degli effetti derivanti dall'applicazione del principio di non contestazione. In altre parole, il giudice amministrativo deve porre a fondamento della decisione anche i fatti non specificatamente contestati dalle parti costituite, ancorché acquisiti al processo in conseguenza della translatio iudicii.

L'onere della prova in materia elettorale e nei giudizi risarcitori

Va segnalato che esistono due categorie di controversie amministrative nelle quali l'onere della prova o, meglio, l'onere di fornire elementi di prova nella disponibilità delle parti è stato configurato dalla giurisprudenza in maniera del tutto peculiare. Tali controversie sono quelle in materia di operazioni elettorali e di liti risarcitorie da mancato affidamento di gare pubbliche di appalto e concessioni.

Con riferimento ai giudizi elettorali, l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (Ad. plen., n. 32/2014) ha affermato che, nella materia elettorale, l'onere della prova subisce una attenuazione (incidenter, si segnala che siffatta attenuazione riguarderebbe anche la specificità dei motivi di ricorso). Ciò perché accade frequentemente che il soggetto interessato a ricorrere non disponga di elementi documentali idonei a provare le illegittimità in cui sia incorso il seggio elettorale, e che la prova della fondatezza della doglianza non possa essere raggiunta se non mediante l'esercizio dei poteri istruttori di cui dispone il giudice. In tale contesto, qualora le regole dell'onere della prova dovessero applicarsi con il rigore ordinariamente imposto dalle norme processuali generali, che sanzionano con l'inammissibilità il ricorso non sorretto dalla prova delle censure dedotte, l'indisponibilità degli atti da parte del ricorrente finirebbe per privarlo del diritto di difesa. Da ciò discende che, nel caso di ricorsi elettorali, l'onere, gravante sul ricorrente, di indicare i mezzi di prova deve considerarsi circoscritto all'allegazione dei soli elementi indiziari, pur estranei agli atti del procedimento, ma dotati dell'attendibilità sufficiente a costituire un principio di prova plausibile ed idoneo a legittimare l'attività acquisitiva del giudice e, in questo senso, possono considerarsi principi di prova idonei anche le dichiarazioni sostitutive dell'atto notorio, rilasciate da terzi e prodotte a sostegno di un ricorso elettorale.

Anche nella materia del risarcimento del danno da mancata aggiudicazione di un contratto pubblico la giurisprudenza amministrativa segue particolari regole probatorie, ispirate anche agli orientamenti espressi dalla Corte di giustizia dell'Unione europea. In particolare, il principale condizionamento di origine sovranazionale è correlato alla circostanza che, secondo la giurisprudenza unionale, in materia di risarcimento da mancato affidamento di gare pubbliche di appalto e concessioni, non è necessario provare la colpa dell'amministrazione aggiudicatrice, poiché il rimedio risarcitorio risponde al principio di effettività della tutela previsto dalla normativa comunitaria; più in dettaglio, le garanzie di trasparenza e di non discriminazione operanti in materia di aggiudicazione dei pubblici appalti fanno sì che una qualsiasi violazione degli obblighi di matrice sovranazionale consente all'impresa pregiudicata di ottenere un risarcimento dei danni, a prescindere da un accertamento positivo della colpevolezza dell'ente aggiudicatore e dunque della imputabilità soggettiva della lamentata violazione (Corte di giustizia UE, III, 30 settembre 2010, in causa C-314/09, «Stadt Graz», nonché 10 gennaio 2008, in causa C-70/06; 14 ottobre 2004, in causa C-275/03).

Va poi ricordato che il Codice detta una specifica regola sulla quantificazione del danno, contenuta nel comma 3 dell'art. 30 c.p.a., secondo la quale nel determinare l'entità del risarcimento il giudice deve valutare tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, deve escludere il ristoro dei danni che il ricorrente avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti.

Oltre a tali considerazioni, va soggiunto che la giurisprudenza amministrativa, nel corso del tempo, ha indicato disparati criteri dosimetrici – non sempre tra loro coerenti — per individuare l'entità del quantum risarcibile. In materia è intervenuta una importante sentenza dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (ad. plen. n. 2/2017) con cui si è cercato di ordinare e razionalizzare tale corpus di variegate regole pretorie.

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