Principio di effettività della tutela giurisdizionale

Roberto Chieppa
21 Settembre 2022

L'art. 1 del Codice del processo amministrativo sancisce che “La giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo” e apre il primo Capo del Libro I del Codice del processo amministrativo, che è dedicato ai principi generali con una impostazione non conosciuta negli altri Codici. I principi generali del Codice e, tra questi, in primo luogo il principio di effettività della tutela giurisdizionale, svolgono la funzione di criteri interpretativi delle altre disposizioni, da utilizzare per dare una soluzione anche a questioni non normate, prima di ricercare tale soluzione all'esterno del Codice (tramite il rinvio al c.p.c.).
Inquadramento

Contenuto in fase di aggiornamento autorale di prossima pubblicazione

Il principio di effettività e pienezza della tutela giurisdizionale è il principio guida dell'intero Codice e l'interprete deve sempre scegliere tra più soluzioni quella che garantisce la migliore attuazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale.

Il richiamo ai principi del diritto europeo, contenuto nello stesso art. 1 del c.p.a., va riferito ai principi sia dell'Unione europea, sia della CEDU, che il giudice deve utilizzare quali criteri interpretativi.

L'effettività della tutela giurisdizionale quale primo criterio interpretativo del la disciplina del processo amministrativo acquisisce così una maggiore dignità, anche se non nasce con l'entrata in vigore del Codice.

Infatti, fin dall'entrata in vigore del T.U. della legge sul Consiglio di Stato (R.d. n. 1054/1924), e anche dopo la legge istitutiva dei T.A.R. (legge n. 1034/1971), a differenza del processo civile, il processo amministrativo è stato retto da poche regole e ciò ha consentito che, anche a normativa immutata, il giudice amministrativo avesse un maggiore margine per adattare tali regole e costruirne in via pretoria di nuove, al fine della ricerca di strumenti di tutela sempre più effettivi.

Tale evoluzione è stata tuttavia graduale ed ha subito anche dei momenti di arresto nel corso degli anni ed è partita da un modello di processo, ovviamente impugnatorio, in cui la tutela risultava spesso di tipo formale.

Nel passato, molte delle decisioni di annullamento risultavano in concreto inidonee a fornire al cittadino una tutela effettiva, in quanto l'amministrazione poteva, dopo l'annullamento, riesercitare il potere nello stesso modo previa correzione del profilo formale viziante accertato dal giudice (ad es., con una motivazione più estesa).

Ciò determinava che spesso la pretesa sostanziale, che giustificava l'interesse all'azione di annullamento, non veniva alla fine soddisfatta ed era in passato priva di una tutela in via risarcitoria.

Tali difficoltà nell'erogare una tutela effettiva hanno spinto il giudice amministrativo a ricercare tecniche di sindacato della discrezionalità amministrativa più incisive, attraverso una attenta verifica dei fatti oggetto del procedimento amministrativo e mediante l'utilizzo di figure sintomatiche di tipo intrinseco, quali la logicità, la ragionevolezza e la proporzionalità del provvedimento amministrativo.

Nell'ambito di tale evoluzione l'effettività della tutela è stato il principio cardine che ha guidato le decisioni del giudice amministrativo e dopo l'entrata in vigore del Codice tale funzione del principio di effettività è stata ulteriormente potenziata.

Il valore dei principi generali

I principi generali mirano a costituire per l'interprete gli elementi di fondo, caratterizzanti la disciplina del processo amministrativo.

L'individuazione di alcuni principi generali, riferibili alla giustizia ed al processo amministrativo e già in parte contenuti in dati positivi, derivanti dal diritto europeo e costituzionale, ha lo scopo di fornire un ausilio, all'interprete e al giudice, per definire le controversie che non possano essere decise applicando una precisa disposizione o disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe.

Al riguardo, l'art. 39 del Codice contiene un rinvio esterno, che è stato opportunamente riferito alla applicabilità delle disposizioni del c.p.c. per quanto “non disciplinato” dal Codice (e non “per quanto non espressamente previsto”, come indicato in un primo testo della bozza di Codice).

Il rinvio al codice di procedura civile per quanto non espressamente previsto avrebbe attenuato l'autonomia del Codice da quello di procedura civile, in quanto l'interprete avrebbe dovuto solo verificare se una questione processuale era risolta espressamente dal Codice del processo amministrativo e, in caso contrario, passare all'applicazione delle disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili o espressione di principi generali.

L'art. 39 determina, invece, che dopo la ricerca della soluzione della questione tra le previsioni espresse del Codice, l'interprete debba dapprima ricercare se dai principi contenuti nel Capo I o comunque desumibili dal Codice si possa trovare la corretta definizione del problema processuale.

I principi hanno poi l'ulteriore funzione — propria come è noto delle clausole generali — di dotare il sistema di una sorta di valvola, aperta verso la realtà sociale, in grado di indirizzare l'interprete ed il giudice verso un costante adattamento del diritto positivo alle finalità fondamentali che il legislatore ha voluto conseguire con la codificazione.

Tale adattamento ha costituito una costante nella evoluzione del processo amministrativo: al centro della tutela deve, quindi, essere posto il cittadino e in questo senso si è diretto il processo amministrativo secondo un percorso evolutivo durato negli anni.

Effettività della tutela e oggetto del processo amministrativo

Il principio dell'effettività della tutela è stato perseguito anche attraverso un più stretto legame tra la motivazione delle decisioni del giudice e il loro contenuto dispositivo. Mentre il dispositivo è restato legato al modello impugnatorio, risolvendosi — in caso di accoglimento del ricorso — nell'annullamento dell'atto impugnato, è dal contenuto della motivazione delle sentenze che dipende il reale effetto conformativo delle pronunce del giudice, intendendosi per questo gli obblighi di esecuzione della sentenza che gravano sulla p.a. Ad un dispositivo identico (“annulla l'atto impugnato”) possono corrispondere effetti conformativi profondamente diversi: un annullamento per un vizio della motivazione, obbliga l'amministrazione solo a rimotivare l'atto, ben potendo in tale sede determinarsi in modo diverso, e favorevole per il privato, ma non essendo obbligata in tal senso; al contrario un annullamento disposto sulla base del riconoscimento della spettanza al privato del bene della vita richiesto (ad es., l'edificazione) comporta il ben più rilevante effetto conformativo del rilascio del provvedimento, qualora ciò non sia impedito da sopravvenienze.

L'evoluzione del processo amministrativo e la trasformazione di alcuni dei suoi istituti è stata tutta diretta ad arrivare ad assicurare al privato tale effetto conformativo, a consentirgli di conseguire il bene della vita cui aspira.

In questo senso, è stato più volte affermato che l'oggetto del processo amministrativo, pur rimanendo formalmente ancorato al modello impugnatorio, si sia spostato (o si stia spostando) dall'atto impugnato al rapporto controverso.

Tale affermazione può essere in sé fuorviante, in quanto per giudizio sul rapporto si intende quel giudizio, in cui a fronte di una controversia interviene il giudice, che stabilisce quale è l'assetto degli interessi corretto, attribuendo il bene della vita controverso a questo o a quella parte del processo (nel giudizio sul rapporto, dopo la presentazione del ricorso, è il giudice che decide sostituendosi alla p.a. anche per la parte di attività non ancora svolta); tuttavia, non è questo il modello del nostro processo amministrativo, in cui al giudice amministrativo non spetta sostituirsi all'amministrazione, ma compete verificare se il potere sia stato esercitato in modo legittimo, o meno, dalla p.a..

In tale verifica, il giudice deve tendere, per quanto possibile, ad accertare la fondatezza, o meno, della pretesa sostanziale dedotta in giudizio, non fermandosi all'esame dei vizi solamente formali, ma spingendo oltre nei limiti dei vizi dedotti con il ricorso; è evidente che un ricorso proposto con la deduzione del solo vizio del difetto di motivazione, o di altro vizio procedimentale o formale, non consentirà al giudice amministrativo di accertare la fondatezza della pretesa sostanziale dedotta in giudizio, ma quando le censure coinvolgono tale aspetto, è compito, e anzi dovere, del giudice procedere a tale accertamento.

In applicazione del principio sancito dall'art. 1 del Codice del processo amministrativo (sulla ‘tutela piena ed effettiva'), il giudice può emettere le statuizioni che risultino in concreto satisfattive dell'interesse fatto valere e deve interpretare coerentemente ogni disposizione processuale. Cons. Stato, sez. VI, n. 2755/2011.

In omaggio ai canoni costituzionali e comunitari di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale richiamati dall'art. 1, la portata dell'obbligo comportamentale sancito dal precetto giudiziario non può essere sganciato dall'apprezzamento dell'interesse sostanziale al quale è preordinata la proposizione del ricorso. Ne deriva che, anche a fronte di una sentenza che si limita all'annullamento della procedura con effetto di riedizione, senza spingersi al giudizio sulla fondatezza della pretesa al conseguimento diretto dell'aggiudicazione, l'amministrazione è tenuta, onde soddisfare l'interesse del ricorrente vittorioso, non solo a ripetere la procedura emendandola dai vizi colti dalla sentenza ma anche, in caso di esito favorevole al ricorrente del procedimento, ed ove non sussistano ragioni ostative debitamente esternate, ad adottare gli atti, consequenziali all'aggiudicazione, necessari allo scopo di assicurare al ricorrente medesimo l'“id quod interest” (Cons. Stato, sez. V, n. 6688/2011).

L'effettività della tutela giurisdizionale di cui all' art. 1 c.p.a., implica che il Commissario ad acta/ausiliario del giudice, nominato in sostituzione dell'amministrazione rimasta inerte, porti a conclusione il procedimento amministrativo sostituendosi in tutte le eventuali varie competenze dell'ente sostituito, al fine di giungere all'adozione del provvedimento amministrativo conclusivo e soddisfare così l'istanza del privato ricorrente. Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 4 dicembre 2012, n. 1075.

Pienezza della tutela

L'accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale può arrivare a volte “fuori tempo massimo”, quando il c.d. bene della vita non è più conseguibile (ad es., appalto già eseguito; edificazione non più possibile) e in questi casi la tutela per essere effettiva deve essere piena, ovvero estesa anche all'aspetto risarcitorio.

La tutela offerta dal giudice amministrativo non poteva essere considerata piena quando in passato il giudice aveva a disposizione solo lo strumento dell'annullamento dell'atto e non anche quello della condanna al risarcimento del danno.

Effettività della tutela e disciplina delle azioni

Il tratto distintivo dell'evoluzione del processo amministrativo è stato la ricerca dell'effettività della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.) e tale evoluzione è stata consacrata proprio con l'entrata in vigore del Codice del processo amministrativo e con la codificazione dei principi generali, primo fra tutti quello dell'effettività e della pienezza della tutela.

Il principio di effettività e di pienezza della tutela trova una ricaduta immediata nella disciplina delle azioni che si articola nel libro primo, configurando forme di tutela di ricchezza ed estensione del tutto analoghe alle forme di tutela esistenti nel processo civile, con le specificità necessarie alla natura delle vicende trattate dalla giurisdizione amministrativa che si caratterizzano pur sempre per la presenza del pubblico potere (v. artt. 27 e ss.)

La codificazione ha avuto come scopo l'effettività e l'effettività è il principio che connota il nuovo processo amministrativo.

Va, infine, ricordato che il principio dell'effettività è intimamente collegato ad altri principi: l'effettività della tutela risulterebbe ad esempio attenuata in assenza della certezza del diritto, chiaro indice di affidabilità di un sistema; l'interprete (il giudice in primo luogo) deve sempre tendere verso una interpretazione certa ed uniforme.

Entrambi i principi verrebbero poi vanificati se la decisione del giudice arriva oltre un ragionevole tempo di attesa (sul punto v. art. 2).

Effettività della tutela e principi del diritto europeo

L'art. 1 ha richiamato, accanto ai principi costituzionali, i principi del diritto europeo.

Con tale espressione si è inteso fare riferimento ai principi sia dell'Unione europea, sia della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (Cedu).

Viene confermata quella tendenza dell'ordinamento a strutturarsi come un sistema connotato dall'esistenza di una rete europea di garanzie costituzionali e processuali, da tribunali sovranazionali e nazionali, che interagiscono come giurisdizioni appartenenti a sistemi differenti ma tra loro collegati.

È stato rilevato come negli ultimi decenni il diritto sovranazionale ha acquisito una forza sempre più pervasiva rispetto alle fonti nazionali.

L' art. 117, comma 1, Cost. (dopo la modifica costituzionale del 2001) ha previsto che la potestà legislativa si esercita nel rispetto, oltre che della Costituzione e del diritto comunitario, anche degli “obblighi internazionali”.

Essa, secondo l'interpretazione ormai più accreditata (recepita anche dalla Corte costituzionale a partire dal 2007), ha dato luogo ad una costituzionalizzazione degli obblighi internazionali anche di fonte pattizia (è appena il caso di ricordare che la costituzionalizzazione degli obblighi internazionali di fonte consuetudinarie già era sancita dall' art. 10 Cost. che rinvia alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute). Le norme degli accordi internazionali diventano, in questo modo, norme interposte nel giudizio di costituzionalità e la loro violazione determina l'incostituzionalità della legge per violazione (indiretta) dell'art. 117, comma 1, Cost. (Corte cost. n. 347/2007 e Corte cost. n. 348/2007).

Il processo di armonizzazione, ormai collaudato per il diritto dell'Unione europea, si è progressivamente esteso ai principi del diritto europeo derivanti dalla Cedu.

Il termine “diritto europeo” appare il più idoneo a rappresentare tale fenomeno ed è stato preferito ad altre espressioni ipotizzate, quali “i principi del diritto dell'Unione europea e del Consiglio d'Europa” nel cui ordinamento è incardinata la Convenzione europea dei diritti dell'uomo (Cedu).

In conseguenza del richiamo operato dal Codice, i principi della Cedu divengono direttamente applicabili dal giudice interno, ove non si renda necessario un controllo di costituzionalità sulla norma interna incompatibile con la norma europea

La giurisprudenza costituzionale ha ritenuto vincolante nell'ordinamento interno la Cedu, ma ha ritenuto che la prevalenza sulle leggi interne passi attraverso un tentativo di interpretazione conforme, seguito non dalla disapplicazione, ma dal classico schema della illegittimità costituzionale per violazione di norma interposta; in questo caso la Cedu si configura quale norma interposta che integra il parametro dell' art. 117, comma 1, Cost., così come si riteneva che il diritto comunitario integrasse il parametro dell'art. 11 negli anni '70, prima di ammettere la disapplicazione (Corte cost. n. 348 e n. 349/2007, cui hanno fatto seguito Corte cost. n. 39/2008; Corte cost. n. 311/2009 e Corte cost. n. 317/2009; Corte cost. n. 136/2010, Corte cost. n. 187/2010 e Corte cost. n. 196/2010; Corte cost. n. 1/2011; Corte cost. n. 113/2011; sulla perdurante validità di questa ricostruzione dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, v. Corte cost. n. 80/2011).

La Corte ha chiarito che «l'art. 117, primo comma, Cost., ed in particolare l'espressione “obblighi internazionali” in esso contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche diverse da quelle comprese nella previsione degli artt. 10 e 11 Cost. Così interpretato, l'art. 117, primo comma, Cost., ha colmato la lacuna prima esistente quanto alle norme che a livello costituzionale garantiscono l'osservanza degli obblighi internazionali pattizi. La conseguenza è che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della Cedu, si traduce in una violazione dell'art. 117, primo comma, Cost.

La Corte ha, inoltre, precisato nelle predette pronunce che al giudice nazionale, in quanto giudice comune della Convenzione, spetta il compito di applicare le relative norme, nell'interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo, alla quale questa competenza è stata espressamente attribuita dagli Stati contraenti.

Nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna e una norma della Convenzione europea, il giudice nazionale comune deve, pertanto, procedere ad una interpretazione della prima conforme a quella convenzionale, fino a dove ciò sia consentito dal testo delle disposizioni a confronto e avvalendosi di tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica.

Solo quando ritiene che non sia possibile comporre il contrasto in via interpretativa, il giudice comune, il quale non può procedere all'applicazione della norma della Cedu (allo stato, a differenza di quella comunitaria provvista di effetto diretto) in luogo di quella interna contrastante, tanto meno fare applicazione di una norma interna che egli stesso abbia ritenuto in contrasto con la Cedu, e pertanto con la Costituzione, deve sollevare la questione di costituzionalità (anche sentenza n. 239 del 2009), con riferimento al parametro dell' art. 117, primo comma, Cost., ovvero anche dell' art. 10, primo comma, Cost., ove si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta. La clausola del necessario rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, dettata dall' art. 117, primo comma, Cost., attraverso un meccanismo di rinvio mobile del diritto interno alle norme internazionali pattizie di volta in volta rilevanti, impone infatti il controllo di costituzionalità, qualora il giudice comune ritenga lo strumento dell'interpretazione insufficiente ad eliminare il contrasto» (in questi termini Corte cost. n. 311/2009, par. 6 Cons. diritto).

In sostanza, la Corte costituzionale ha affermato che l'espressione “obblighi internazionali”, contenuta nell'art. 117, comma 1, Cost., si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche diverse da quelle comprese nella previsione degli artt. 10 e 11 Cost. Così interpretato, l'art. 117, primo comma, Cost., ha colmato la lacuna prima esistente quanto alle norme che a livello costituzionale garantiscono l'osservanza degli obblighi internazionali pattizi. La conseguenza è che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della Cedu, si traduce in una violazione dell'art. 117, primo comma, Cost. (Corte cost. n. 311/2009 e successivamente Corte cost. n. 93/2010).

Sollevata la questione di legittimità costituzionale, spetta alla Corte costituzionale il compito anzitutto di verificare che il contrasto sussista e che sia effettivamente insanabile attraverso una interpretazione plausibile, anche sistematica, della norma interna rispetto alla norma convenzionale, nella lettura datane dalla Corte di Strasburgo. La Corte dovrà anche, ovviamente, verificare che il contrasto sia determinato da un tasso di tutela della norma nazionale inferiore a quello garantito dalla norma Cedu, dal momento che la diversa ipotesi è considerata espressamente compatibile dalla stessa Convenzione europea all'art. 53. In caso di contrasto, dovrà essere dichiarata l'illegittimità costituzionale della disposizione interna per violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla invocata norma della Cedu.

Alla Consulta è precluso di sindacare l'interpretazione della Convenzione europea fornita dalla Corte di Strasburgo, cui tale funzione è stata attribuita dal nostro Paese senza apporre riserve; ma alla Corte costituzionale compete di verificare se la norma della Cedu, nell'interpretazione data dalla Corte europea, non si ponga in conflitto con altre norme costituzionali e il verificarsi di tale ipotesi, pure eccezionale, esclude l'operatività del rinvio alla norma internazionale e, dunque, la sua idoneità ad integrare il parametro dell' art. 117, primo comma, Cost.; e, non potendosi evidentemente incidere sulla sua legittimità, comporta — allo stato — l'illegittimità, per quanto di ragione, della legge di adattamento.

La Corte costituzionale ha, infatti, reiteratamente affermato di non poter sindacare l'interpretazione della Convenzione fornita dalla Corte di Strasburgo: le norme della Cedu, quindi, devono essere applicate (anche dai giudici comuni) nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (Corte cost. n. 113/2011 e Corte cost. n. 1/2011; Corte cost. n. 93/2010; Corte cost. n. n. 311/2009 e Corte cost. n. 239/2009; Corte cost. n. 39/2008; Corte cost. n. 349/2007 e Corte cost. n. 348/2007).

In ordine a tale vincolo, la Corte costituzionale ha, tuttavia, recentemente chiarito (Corte cost. n. 49/2015, relativa al c.d. caso Varvara, sulla possibilità — esclusa dalla Corte Edu — di applicare la confisca urbanistica anche con la sentenza che dichiara estinto il reato per prescrizione) che l'interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo diventa parametro vincolante capace di esplicitare ed integrare la portata precettiva delle norme Cedu solo quando tale interpretazione sia espressione di un “diritto consolidato”, generato dalla giurisprudenza europea, mentre nessun obbligo di recepimento esiste a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento divenuto definitivo.

La Corte costituzionale, inoltre, pur affermando di non poter sostituire la propria interpretazione di una disposizione della Cedu a quella consolidata della Corte di Strasburgo si è, tuttavia, riservata “un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell'ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi” (Corte cost. n. 311/2009; Corte cost. n. 237/2011). La Corte costituzionale, quindi, può «valutare come ed in qual misura il prodotto dell'interpretazione della Corte europea si inserisca nell'ordinamento costituzionale italiano». Ciò in quanto la norma Cedu, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell'art. 117 Cost., da questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto ciò che segue, in termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni cui questa Corte è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza».

Il richiamo ai principi del diritto europeo e l'intensità del sindacato giurisdizionale

L'iniziale indifferenza del diritto comunitario rispetto ai sistemi processuali nazionali è stata da tempo sostituita da una sempre maggiore invasività, che, seppur limitata ad alcuni settori, tra i quali emerge quello degli appalti, ha poi finito per condizionare anche altri ambiti dei processi nazionali.

L'autonomia dei processi nazionali è stata, quindi, progressivamente erosa sia per settori, come dimostra il grado di dettaglio della direttiva ricorsi in materia di appalti, sia in termini generali, come — ad esempio — in conseguenza dell'affermazione dell'obbligo di dare piena ed effettiva attuazione al diritto comunitario anche attraverso il riesame di decisioni divenute definitive per esaurimento dei rimedi giurisdizionali disponibili con passaggio in giudicato delle relative pronunce (Corte Giust. CE, 13 gennaio 2004, C-453/00, Kühne & Heitz)

Sotto altro profilo, va evidenziato come, a fronte dei già menzionati obblighi imposti dall'ordinamento comunitario ai sistemi processuali degli Stati membri, lo standard di tutela offerto dal giudice comunitario non sia particolarmente elevato con riguardo al controllo sui fatti e sulle valutazioni tecniche compiute dall'amministrazione.

Fin dalla nota sentenza Upjohn, la Corte di Giustizia ha escluso che il diritto comunitario richieda agli Stati membri particolari standard di incisività del controllo giurisdizionale sulla valutazione amministrativa degli elementi tecnici e, quindi, rimedi giurisdizionali che consentano al giudice di sostituire la sua valutazione degli elementi di fatto a quella dell'autorità amministrativa competente (Corte Giust. CE, 21 gennaio 1999, C-120/97, Upjohn Ltd. c. Licensing Authority, con cui è stato ritenuto compatibile con il diritto comunitario un rimedio giurisdizionale interno (inglese), che non consente al giudice di sostituire la propria valutazione degli elementi di fatto a quella delle autorità nazionali competenti in materia di revoca delle autorizzazioni all'immissione in commercio di sostanze medicinali).

È vero che in quella occasione la Corte, pur affermando la compatibilità comunitaria della soluzione inglese, che sottrae al giudice il controllo sostitutivo della valutazione amministrativa, non ha escluso la compatibilità di soluzioni diverse e più avanzate, ma è anche vero, come è stato fatto notare, che la Corte ha forse perso l'occasione di affrontare più compiutamente le tematiche di diritto sostanziale concernenti l'attività discrezionale della pubblica amministrazione e le connesse tematiche del grado di controllo giurisdizionale (Caranta, Tutela giurisdizionale effettiva delle situazioni soggettive di origine comunitaria ed incisività del sindacato del giudice nazionale (Kontrolldichte), in Riv. it. dir. pubbl. com. 1999, 503).

Con riguardo al controllo giurisdizionale sul fatto e sulle valutazioni tecniche sembra, quindi, che l'autonomia dei singoli ordinamenti non sia stata intaccata, senza alcuna “comunitarizzazione” di un determinato standard di incisività della tutela.

Tuttavia, negli ultimi anni si sono registrate aperture verso un livello di tutela più elevato sia in sede comunitaria (Corte Giust. CE, 29 aprile 2004, C-387/99), sia in ordinamenti, come quello italiano, in origine meno aperti a soluzioni più efficaci applicate in Francia e soprattutto in Germania.

Si deve, inoltre, rilevare che a fronte di un incisivo sindacato, tradizionalmente svolto dal giudice comunitario sulle decisioni amministrative discrezionali soprattutto grazie al parametro della proporzionalità, la giurisprudenza comunitaria si sia attestata su standard meno avanzati con riguardo al controllo sui fatti e sulle valutazioni tecniche.

Non vi è quindi un obbligo per gli Stati membri di adeguarsi a determinati e generalizzati standard di tutela, anche se le spinte verso modelli di tutela più effettivi provenienti da Francia, Germania e ora anche Italia potranno contribuire ad un innalzamento del livello anche in sede comunitaria.

Tale passaggio appare indispensabile affinché la tutela giurisdizionale nei confronti dei pubblici poteri possa definitivamente superare una dimensione strettamente nazionale, che la ha caratterizzata nel passato, ma che è oggi sempre più condizionata da regole, principi e obblighi di rinvio provenienti da fonti non nazionali (De Pretis, La tutela giurisdizionale amministrativa in Europa tra integrazione e diversità, in Riv. it. dir. publ. com. 2005) e dall'esigenza di garantire una tutela omogenea anche in presenza di quei procedimenti composti, in cui le soluzioni non possono essere diverse in sede di sindacato delle fasi nazionali o comunitarie del procedimento.

Sommario