Rapporti con l'arbitrato (art. 12 c.p.a.)

Raffaele Tuccillo
21 Settembre 2022

L'art. 12 del codice del processo amministrativo, rubricato “Rapporti con l'arbitrato”, anche al fine di superare la querelle emersa in dottrina e in giurisprudenza, espressamente prevede la possibilità di deferire al giudizio arbitrale alcune controversie, la cui cognizione è affidata alla giurisdizione amministrativa. Il legislatore ha, quindi, disciplinato il giudizio arbitrale alla stregua di una alternativa alla giurisdizione amministrativa, esercitata dal giudice togato.
Inquadramento

Contenuto in fase di aggiornamento autorale di prossima pubblicazione

L'art. 12 c.p.a. disciplina i “Rapporti” della giurisdizione amministrativa “con l'arbitrato”, riconoscendo la possibilità di deferire ad arbitri talune controversie, la cui cognizione è affidata alla giurisdizione amministrativa. L'arbitrato viene, quindi, riconosciuto come una alternativa alla giurisdizione amministrativa in presenza di alcuni requisiti oggettivi. Questa disposizione sembra introdurre, attraverso il deferimento delle controversie ad arbitri, una limitazione oggettiva al potere di cognizione e decisione del giudice amministrativo; limitazione che diventa ancor più palese ove si condivida la tesi, peraltro maggioritaria, che affida alla corte d'appello, territorialmente competente, la cognizione dell'impugnativa avverso il lodo.

La disposizione in esame, nella sua versione originaria, mancava di disciplinare espressamente il procedimento arbitrale, così lasciando irrisolti tutti i problemi esegetici posti dall'articolo 6 l. 21 luglio 2000 n. 205, tra cui quello dell'esecutività del lodo, ex art. 825 c.p.c., e quello dei mezzi di impugnazione, ex art. 827 c.p.c. Tale lacuna è stata colmata, a seguito del d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195 contenente disposizioni correttive e integrative, con l'introduzione nell'art. 12 del c.p.a. dell'espressione "ai sensi degli articoli 806 e seguenti del codice di procedura civile", con cui si è chiarito che la disciplina del procedimento arbitrale contemplato dal citato art. 12 è quella dettata dal codice di procedura civile.

In tal modo, il d.lgs. n. 104/2010, ha introdotto una disposizione generale sull'arbitrato, che ha istituito tale strumento procedimento sostitutivo della giurisdizione, per le questioni attinenti a diritti soggettivi, applicabile anche alle controversie rientranti nella giurisdizione del giudice amministrativo.

Evoluzione normativa dell'arbitrato nei confronti della PA

Il ricorso allo strumento arbitrale nelle controversie che coinvolgono la pubblica amministrazione è oggetto di un dibattito antico, ma mai sopito.

Il principale ostacolo alla diffusione dello strumento arbitrale in tali controversie è stato storicamente ravvisato nella indisponibilità delle situazioni giuridiche soggettive connesse alla tutela di un interesse pubblico e, dunque, nella ritenuta generale indisponibilità del potere amministrativo. Peraltro, la riconducibilità dell'arbitrato, in sede di impugnazione del lodo, nell'alveo della giurisdizione ordinaria, determinando una deroga alla giurisdizione del giudice amministrativo, era considerata – fintantoché l'ordinamento non ne prevedesse altri esempi - difficilmente compatibile con la regola, allora piuttosto rigida, del riparto di giurisdizione.

Alla medesima stregua, anche l'ordinamento normativo ha manifestato nei confronti dello strumento arbitrale nei confronti della PA un atteggiamento ondivago. Esemplare in tal senso è stata la evoluzione normativa dell'arbitrato in materia di contratti relativi ai lavori pubblici. La prima disciplina dell'istituto risale al 1865 (legge sui lavori pubblici del 20 marzo 1865, n. 2248, allegato F) e, da allora, la normativa ha oscillato tra la possibilità e l'obbligo di ricorrere all'arbitrato: a leggi espressione di un disfavore legislativo per l'arbitrato, se ne sono alternate altre espressione di un favor per esso. Dalla legge Merloni (l. n. 109/1994), espressione di un disfavore legislativo per l'arbitrato, si è passati ad un favor per lo stesso con la l. n. 216/1995, c.d. Merloni-bis, che sembrava introdurre un arbitrato obbligatorio, per pervenire ad un arbitrato “da legge” o “obbligatoriamente amministrato” dalla Camera arbitrale per i lavori pubblici con la l. n. 415/1998, c.d. Merloni-ter, a cui la legge Merloni-quater (art. 7, legge 1 agosto 2002, n. 166) non ha apportato modifiche rilevanti. In seguito, la legge 14 maggio 2005, n. 80, art. 5, comma 16-sexies, ha introdotto un nuovo assetto nell'arbitrato in materia di lavori pubblici e configurato un sistema a doppio binario: l'arbitrato amministrato dalla Camera arbitrale permaneva solo in via sussidiaria quando le parti non si accordavano sulla nomina del terzo arbitro, presidente del collegio arbitrale; mentre in tutti gli altri casi vigeva l'arbitrato “ad hoc” regolato dal Codice di procedura civile, se pur con alcuni temperamenti. Infine, con il d.lgs. n. 50 del 18 aprile 2016, Codice dei contratti pubblici si è giunti al sistema oggi in vigore che, agli artt. 209 e 210, regola l'istituto arbitrale nel settore. In questo modo l'arbitrato nei lavori pubblici ha assunto la fisionomia di un arbitrato speciale amministrato, destinato ad un ambito di applicazione limitato a “le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall'esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell'accordo bonario di cui agli articoli 205 e 206”.

Risulta altresì opportuno segnalare l'importante step effettuato con l'art. 6 della l. 21 luglio 2000 n. 205, con cui il legislatore ha manifestato la volontà di superare il principio di inammissibilità dell'arbitrato nelle materie devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo, consentendo il ricorso a tale strumento, purché rituale e di diritto, per la risoluzione delle controversie riguardanti diritti soggettivi, a prescindere dalla loro tutelabilità innanzi al giudice ordinario o a quello amministrativo. Con tale disposizione, il criterio formale dell'ammissibilità dell'arbitrato fondato sul giudice cui è devoluta la controversia è stato, quindi, sostituito dal criterio sostanziale della natura della situazione giuridica fatta valere in giudizio.

Il citato art. 6 l. n. 205/2000 conteneva, dunque, due limiti posti a confine dell'uso dell'arbitrato nel diritto amministrativo: un limite esterno di carattere oggettivo, nella misura in cui si provvedeva a circoscrivere l'ambito di applicazione dell'arbitrato alle sole controversie concernenti diritti soggettivi; e un limite interno relativo alla tipologia di arbitrato, che poteva, e può, essere solo quello rituale e di diritto, escludendo, dunque, il ricorso all'arbitrato irrituale e a quello secondo equità.

Il d.lgs. d.lgs. n. 104/2010, riproducendo il contenuto del citato art. 6, L. 21 luglio 2000 n. 205, contempla l'arbitrato rituale di diritto, ai sensi degli artt. 806 e seguenti c.p.c., fra gli strumenti di risoluzione delle controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo.

L'ambito oggettivo di applicazione dell'arbitrato: le controversie compromettibili

L'art. 12 definisce l'ambito oggettivo in cui è ammesso l'arbitrato per le controversie astrattamente riconducibili alla giurisdizione amministrativa. Secondo la disposizione possono essere risolte “mediante arbitrato rituale di diritto ai sensi degli articoli 806 e seguenti del codice di procedura civile” “le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo”.

In linea di principio, la disposizione appare con chiarezza limitare l'ambito di operatività dell'istituto arbitrale in funzione della posizione giuridica di diritto soggettivo, che forma oggetto della domanda; al contrario, il ricorso all'arbitrato deve ritenersi escluso per la risoluzione di controversie aventi ad oggetto interessi legittimi, ovvero aventi ad oggetto situazioni giuridiche soggettive che si confrontano con un potere autoritativo, più o meno discrezionale, esercitato dalla pubblica amministrazione nell'esercizio di una funzione espressamente attribuita alla cura di quest'ultima da una norma di legge.

Il limite alla cognizione degli arbitri riservato alla tutela dei diritti soggettivi è individuato, prevalentemente, nell'art. 103, comma 1, Costituzione, che sembrerebbe deferire in modo esclusivo la tutela degli interessi legittimi nei confronti della pubblica amministrazione al Consiglio di Stato e agli altri organi di giurisdizione amministrativa. Tuttavia l'esclusione degli interessi legittimi dalla compromettibilità in arbitri deriverebbe non solo dalla esplicita previsione di legge, ma anche dal principio generale, tuttora vigente nel nostro ordinamento giuridico, riguardante il divieto di deferire ad arbitri “diritti indisponibili”, previsto dall'art. 806 c.p.c.

L'impostazione è stata confermata dalla Corte di Cassazione che con la sentenza a Sezioni Unite n. 25508/2006, riferita all'art. 6 della legge 21 luglio 2000, n. 205, ha chiarito che mentre possono formare oggetto di compromesso le controversie aventi ad oggetto diritti soggettivi devolute al giudice amministrativo, resta preclusa la compromettibilità in arbitri delle liti su interessi legittimi (conf. Cass. civ., n. 2126/2014).

In tali casi, infatti, il requisito della disponibilità della res litigiosa, presupposto per la compromettibilità delle liti, sancito dall'art. 806 c.p.c., non potrebbe ritenersi sussistente, atteso che la legittimità dell'azione amministrativa, su cui l'interesse legittimo fonda la propria tutela, è indisponibile e irrinunciabile tanto per la pubblica amministrazione quanto per il privato. In altre parole, se la spettanza del bene della vita cui (o alla cui conservazione) il privato ambisce può essere compressa secundum ius, in nome dell'interesse pubblico, non si può rinunciare alla legittimità dell'esercizio del potere (che compressione determina) senza violazione di legge.

Risulta opportuno segnalare che alla tesi tradizionale, prevalente in giurisprudenza e in dottrina, che esclude dall'arbitrato gli interessi legittimi sono, di recente, state svolte talune critiche. Secondo alcune voci dottrinali, il riferimento ai “diritti soggettivi”, contenuto nell'art. 12 c.p.a., non si riguarderebbe affatto la contrapposizione utilizzata per il criterio generale di riparto della giurisdizione, ma andrebbe inteso in senso atecnico e pluricomprensivo: la formula, pertanto, intenderebbe stabilire l'ulteriore estensione del campo di azione dell'arbitrato e non una sua limitazione. Peraltro l'art. 12 c.p.a. si limiterebbe ad introdurre un riferimento positivo alle situazioni di diritto soggettivo, senza, tuttavia, escludere gli interessi legittimi dall'ambito delle situazioni compromettibili (F. Lubrano, Arbitrato e pubblica amministrazione, in Studi Punzi, Torino, 2008, II, 492.81; L. Ferrara, L'arbitrato nelle controversie amministrative. In particolare, la compromettibilità degli interessi legittimi, in La giustizia arbitrale, a cura di V. Puortì, Napoli, 2015, 250). Anche la Corte di Cassazione (Cass. Sez. Un., 22 gennaio 1982, n. 427) si sarebbe espressa nel senso della transigibilità dell'interesse legittimo in liti attinenti ai rapporti di vicinato, poiché nessuna disposizione vieta che si possa disporre di detto interesse personale e che quindi lo stesso possa essere oggetto di transazione, qualificandosi come aliquid datum o come aliquid retentum. Il problema della indisponibilità dell'interesse legittimo non si porrebbe mai per la posizione del privato, bensì per la posizione giuridica del soggetto pubblico, in funzione dell'esercizio del potere amministrativo correlato alla posizione di interesse legittimo: dunque indisponibile non è in sé l'interesse legittimo, bensì la situazione giuridica soggettiva contrapposta all'interesse legittimo, ossia il potere della amministrazione pubblica (F.G. Scoca, La capacità della pubblica Amministrazione di compromettere in arbitri, in AA.VV. Arbitrato e pubblica amministrazione, a cura di G. Alpa, Torino 1999, 106).

Ebbene, nonostante le segnalate critiche appare ancora maggioritaria la tesi della esclusione della compromettibilità in arbitri delle controversie aventi ad oggetto interessi legittimi. Ciononostante la limitazione contenuta nell'art. 12 c.p.a. ai diritti soggettivi pone dubbi e ambiguità. Ed, infatti, l'art. 806 c.p.c. fissa un limite negativo alla estensione dell'arbitrato, ossia le controversie che abbiano ad oggetto “diritti indisponibili”, ma non indica, in senso affermativo, che esso si debba circoscrivere ai diritti soggettivi. Peraltro, il catalogo delle posizioni giuridiche soggettive suscettibili di tutela nell'ordinamento giuridico appare più complesso della dicotomia tra diritto soggettivo e interesse legittimo: si pensi alla elasticità del diritto soggettivo e dell'attitudine a comprendere posizioni giuridiche come le aspettative, gli interessi diffusi e collettivi o le situazioni di fatto qualificate.

La disposizione pone dubbi sull'ambito di applicazione del procedimento arbitrale, in particolare: sulla compromettibilità in arbitri delle controversie relative a diritti soggettivi riconducibili alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo e di quelle relative al risarcimento del danno conseguente alle lesione di interessi legittimi.

In evidenza

L'orientamento dominante in giurisprudenza reputa che l'arbitrato di cui all'art. 12 c.p.a. debba essere limitato esclusivamente alle controversie relative a diritti soggettivi, senza possibilità di estensione a interessi legittimi.

L'art. 12 ha “natura eccezionale” e, come tale, non si riferisce ai casi nei quali la situazione giuridica azionata abbia natura di interesse legittimo oppure nei quali la clausola compromissoria demandi agli arbitri una decisione da adottare secondo equità, ciò in quanto le parti non possono disporre di interessi pubblici, coinvolti nella controversia unitamente alla situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo, nonché delle forme e modalità di tutela di quest'ultima che la legge affida inderogabilmente al giudice amministrativo. (TAR Napoli (Campania), Sez. III, 1 dicembre 2016, n. 5553). Il Consiglio di Stato ha, inoltre chiarito che non rientra nell'ambito di operatività della clausola compromissoria, inserita in una convenzione tra un imprenditore e un Comune per regolamentare l'attività estrattiva e disciplinare gli interventi di ripristino ambientale alla scadenza della concessione mineraria, la controversia, rientrante nella giurisdizione del giudice amministrativo, relativa alla legittimità dell'atto amministrativo di pianificazione territoriale adottato dal medesimo ente locale, pur se incidente sullo svolgimento dell'attività estrattiva, atteso che la controversia investe interessi legittimi (Consiglio di Stato, Sez. IV, 3 marzo 2004, n. 1052). E' utile anche segnalare che la Corte di Cassazione ha precisato che l'art. 6, comma 2, della L. 21 luglio 2000, n. 205 deve essere interpretato in modo rigoroso e restrittivo: la norma nello stabilire che le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto, è norma di “stretta interpretazione”, posto che l'accordo delle parti, manifestato nel patto compromissorio, indirettamente comporta una deroga alla giurisdizione, avendo l'effetto di affidare al giudice ordinario, in sede di impugnazione del lodo la cognizione di controversie, che, in assenza del patto, sarebbero devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo. Pertanto, il carattere eccezionale della disposizione citata fa sì che la stessa sia applicabile solo quando la posizione azionata abbia consistenza di diritto soggettivo; per cui non è sufficiente la mera idoneità della pretesa a formare oggetto di transazione (Cass., Sez. Un., 30 novembre 2006, n. 25508).

Segue. Le controversie relative a diritti soggettivi rientranti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo

Sotto il primo aspetto, la tesi prevalente, in dottrina e giurisprudenza, in relazione al previgente art. 6, comma 2, l. 205/2000, era quella di ammettere la devoluzione ad arbitri delle sole controversie rientranti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Ciò in quanto la disposizione conteneva una deroga alla giurisdizione, avendo l'effetto di affidare al giudice ordinario, in sede di impugnazione del lodo, le controversie che, in assenza del compromesso, sarebbero state affidate alla giurisdizione del giudice amministrativo e, dunque, doveva reputarsi di stretta interpretazione (Cass. civ., S.U., n. 14090/2004; Cass. civ., S.U., n. 22903/2005; Cass. civ., S.U., n. 25508/2006). Tale impostazione era, peraltro, confermata dalla interpretazione sistematica dell'art. 6 l. n. 205/2000, che si inseriva in un corpo di norme teso a disciplinare specificamente i poteri del giudice amministrativo in seno alla giurisdizione esclusiva.

Con l'entrata in vigore dell'art. 12 in esame la giurisprudenza ha espresso un duplice orientamento: (i) in alcune recenti sentenze si è affermato che l'art. 12 deve essere interpretato in senso estensivo rispetto al previgente sistema normativo, in quanto ha consentito di risolvere mediante arbitrato rituale di diritto le controversie concernenti diritti soggettivi, a prescindere dalla loro possibilità di tutela dinanzi al giudice ordinario o al giudice amministrativo (TAR Campania Napoli Sez. III, 09 marzo 2016, n. 1290); (ii) al contrario altro orientamento giurisprudenziale reputa l'art. 12 norma di natura eccezionale e, dunque, di necessaria stretta interpretazione, atteso che l'accordo delle parti, espresso nel patto compromissorio, può comportare una deroga indiretta alla giurisdizione, laddove la controversia riguardi una materia per la quale il legislatore abbia previsto la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (TAR Campania Napoli, n. 5553/2016).

Appare allo stato prevalente il primo orientamento che ritiene la compromettibilità in arbitri delle controversie anche quando devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in virtù della consistenza della posizione giuridica azionata in giudizio.In questo senso si è espresso un orientamento dottrinale, secondo il quale l'art. 12, benché abbia sostanzialmente riprodotto il contenuto del citato art. 6 l. 205/2000, si pone all'interno del Codice del processo amministrativo, d.lgs. n. 104/2010, in un contesto differente (Libro I, Titolo I, Capo III), tale da attribuire alla disposizione in questione una portata più generale, estesa non solo alla giurisdizione esclusiva ma a tutta la giurisdizione amministrativa. La collocazione sistematica dell'art. 12 e la funzione di riordino e di disciplina della giurisdizione amministrativa perseguita dal d.lgs. n. 104/2010 indurrebbero a ritenere che tra le controversie compromettibili si possano ammettere anche quelle relative ai diritti patrimoniali consequenziali che rientrano nella giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo (A. Sandulli, 205; Picozza, 449).

Alla medesima stregua le Sezioni Unite della Corte di cassazione (18 gennaio 2022, n. 1392) hanno evidenziato che al fine di valutare la compromettibilità in arbitrato di una controversia derivante dall'esecuzione di accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento amministrativo, devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, occorre valutare la natura delle situazioni giuridiche azionate, potendosi ricorrere allo strumento arbitrale solo se tali situazioni abbiano la consistenza di diritto soggettivo, ai sensi dell'art. 12 c.p.a., e non invece la consistenza di interesse legittimo. In questo modo confermando che il criterio per la valutazione della compromettibilità in arbitri di una controversia in cui è parte la PA risiede esclusivamente nella natura della posizione giuridica di cui si domanda la tutela, non rilevando l'eventuale sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

D'altra parte la scelta di deferire una materia alla giurisdizione esclusiva non incide meccanicamente sulla natura delle situazioni giuridiche, trasformandole da disponibili in indisponibili. L'unico limite al ricorso all'arbitrato deve ravvisarsi nella indisponibilità delle situazioni giuridiche controversie (rectius nella natura di interessi legittimi), ma la disponibilità dei diritti deriva dalla loro regolazione sostanziale, non dalla loro difesa giudiziale, non sussistendo una correlazione tra disponibilità di un diritto e relativa tutela (A. Amorth, Annotazioni sull'arbitrato nelle controversie amministrative, in Studi in onore di Cesare Grassetti, Milano, 1980, 41 e ss.)

I sostenitori della estensione della comprettibilità in arbitri anche delle controversie, vertenti su diritti soggettivi, devolute alla giurisdizione esclusiva, evidenziano anche che spesso interessi legittimi e diritti soggettivi sono in concreto indistinguibili, proprio nei casi delle controversie rientranti nella giurisdizione esclusiva. Nella prassi sono frequenti i casi in cui sono contemporaneamente coinvolti diritti soggettivi e interessi legittimi; per cui il criterio distintivo introdotto dall'art. 12 c.p.a. potrebbe risultare di difficile applicazione.

Altro argomento a sostegno della tesi in esame attiene alla necessità che il principio della indisponibilità dell'interesse pubblico debba essere riletto alla luce degli artt. 11 e 15 L. n. 241/1990, la quale consente alla pubblica amministrazione di definirne il contenuto mediante accordi di disposizione dell'interesse pubblico (G. Greco, Accordi e contratti della pubblica amministrazione tra suggestioni interpretative e necessità di sistema, in Dir. amm., 2000, 413).

In evidenza

Si segnala la pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione dell'11 maggio 2021, n. 12428 secondo la quale la convenzione urbanistica, quale accordo sostitutivo ex art. 11 l. n. 241 del 1990, non è suscettibile - per tutto ciò che non è disposto dal regolamento contrattuale – di produrre obblighi per la pubblica amministrazione correlati a diritti soggettivi del privato attraverso l'integrazione legale dell'accordo, in ragione della incompatibilità del principio di integrazione del contratto sulla base della buona fede con la norma attributiva del potere amministrativo. Pertanto la controversia derivante dalla mancata adozione di provvedimenti da parte della pubblica amministrazione che abbia determinato la non eseguibilità della convenzione urbanistica non può essere risolta mediante arbitrato rituale in quanto è afferente ad interessi legittimi. Al contrario, la controversia relativa ad una pretesa risarcitoria fondata sulla lesione dell'affidamento del privato nell'emanazione di un provvedimento amministrativo a causa di una condotta della pubblica amministrazione che si assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede, in quanto concernente diritti soggettivi, può essere compromessa mediante arbitrato rituale. Ciò a condizione che sia identificabile un comportamento della pubblica amministrazione, diverso dalla mera inerzia o dalla mera sequenza di atti formali di cui si compone il procedimento amministrativo, che abbia cagionato al privato un danno in modo indipendente da eventuali illegittimità di diritto pubblico ovvero che abbia indotto il privato a non esperire gli strumenti previsti per la tutela dell'interesse legittimo pretensivo a causa del ragionevole affidamento riposto nell'emanazione del provvedimento non più adottato.

Segue. La compromettibilità in arbitri delle controversie riguardanti il risarcimento del danno derivante dalla lesione di un interesse legittimo

Altro aspetto problematico attiene alla compromettibilità in arbitri delle controversie riguardanti il risarcimento del danno derivante dalla lesione di interessi legittimi o dal ritardo nell'esercizio della funzione pubblica.

Secondo un orientamento dottrinale l'art. 12 avrebbe inteso consentire la risoluzione mediante arbitrato rituale di tutte le controversie risarcitorie e, dunque, anche di quelle relative a interessi legittimi. In tali circostanze, infatti, agli arbitri non verrebbe affidata una questione concernente un interesse legittimo, bensì solo le conseguenze patrimoniali dell'illegittimo o mancato esercizio del potere amministrativo che a quell'interesse legittimo corrisponde.

Altra tesi esclude invece la possibilità di una simile estensione dell'ambito applicativo del procedimento arbitrale, in quanto il risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi costituisce pur sempre una forma di tutela di tale situazione giuridica soggettiva, seppur per equivalente e non in forma specifica.

Tale ultima lettura, peraltro, è in linea con la pronuncia della Corte Costituzionale n. 204/2004, secondo la quale il potere del giudice amministrativo di disporre il risarcimento del danno ingiusto non costituisce una nuova materia attribuita al giudice amministrativo, bensì solo una forma ulteriore di tutela.

Al contrario, possono formare oggetto di arbitrato le controversie relative a situazioni nelle quali l'amministrazione abbia agito iure privatorum. Ove l'amministrazione non spende il potere ad essa attribuito per il perseguimento dell'interesse pubblico, il regime giuridico che ne regola l'azione - e il regime giuridico delle controversie che la riguardano - non si differenzia da quella di ogni altro soggetto dell'ordinamento: la mera circostanza che la pubblica amministrazione sia parte di un giudizio non determina conseguenze processuali, se non l'applicazione delle disposizioni riguardanti la rappresentanza in giudizio e il foro competente.

In tali ipotesi, dunque, le amministrazioni pubbliche, come oggi ricordato dall'art. 1-bis l. 241/1990, sono sottoposte al diritto comune e non vi sarà neppure spazio per un vero e proprio arbitrato amministrativo, dovendo trovare applicazione l'istituto arbitrale di diritto comune.

Allo stesso modo, devono reputarsi transigibili e arbitrabili le controversie, su diritti soggettivi, riguardanti i danni subiti dal privato in relazione ad attività meramente esecutiva della Pubblica Amministrazione, svolta al di fuori della valutazione attinente alla ponderazione di interessi pubblici, che sono sottratte alla giurisdizione del giudice amministrativo ed attribuite alla cognizione del giudice ordinario (Cass. civ., S. U., n. 22521/2006).

Il rito: arbitrato irrituale e di equità

La norma in commento stabilisce che le controversie aventi ad oggetto diritti soggettivi, devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo, possono essere deferite ad arbitri, mediante il ricorso all'arbitrato rituale di diritto. La formula impiegata dall'art. 12 c.p.a. “ai sensi degli artt. 806 e seguenti”, configurando una ipotesi di rinvio integrale al codice di rito, dovrebbe indicare la piena riconduzione alla regolamentazione procedimentale generale dell'arbitrato.

L'espresso richiamo all'arbitrato rituale pone fine al dibattito giurisprudenziale sorto, in seguito all'entrata in vigore dell'art. 6 l. 205/2000, sulla ammissibilità del ricorso all'arbitrato irrituale o libero.

La ratio della scelta si rinviene nella rilevanza degli interessi pubblici coinvolti nelle materie devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo, atteso che, anche quando opera sul piano negoziale, la pubblica amministrazione è pur sempre portatrice di un interesse pubblico a cui il suo agire deve ispirarsi. Ne consegue l'inammissibilità del ricorso allo strumento dell'arbitrato libero, che non assicurerebbe adeguate garanzie di trasparenza e pubblicità della scelta degli arbitri, nonché dell'iter procedimentale per la definizione della controversia (TAR Sicilia - Catania, n. 621/2010).

Le ragioni della preclusione si rinvengono anche nella tradizionale concezione dell'arbitrato irrituale come uno strumento fondato esclusivamente sull'autonomia privata che, per tale sua natura, si conclude con un lodo avente valore contrattuale e con il quale le parti esprimono la volontà di attribuire a terzi non già il potere di decidere una controversia tra loro insorta, bensì il potere di concludere un atto negoziale volto alla composizione della lite (Cass. civ., n. 19182/2013; Cass. civ., n. 7574/2011; Cass. civ., n. 24558/2015).

In questo senso si sono espresse le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza n. 8987/2009, in relazione ad un appalto di lavori, laddove hanno negato la possibilità di compromettere in arbitrato irrituale le controversie nelle quali è coinvolta una pubblica amministrazione. Ricorrendo all'arbitrato irrituale, l'amministrazione pubblica verrebbe, infatti, a trovarsi vincolata al rispetto di una decisione definita sulla base di criteri che non necessariamente sono stati preventivamente definiti, e ciò in contrasto con i principi che regolano l'agire della pubblica amministrazione, in forza dei quali non è consentito delegare a terzi estranei la formazione della volontà negoziale della pubblica amministrazione (in questo senso TAR Lombardia Milano, n. 1607/2014).

D'altra parte l'Amministrazione nel suo operare negoziale benché si trovi su un piano paritetico a quello dei privati, non assume la medesima posizione del privato, essendo in ogni caso portatrice di un interesse pubblico, a cui il suo agire deve ispirarsi. Pertanto alla Pubblica Amministrazione è preclusa la possibilità di avvalersi, nella risoluzione delle controversie derivanti da contratti, accordi o convenzioni, dell'arbitrato irrituale, poiché la decisione della lite verrebbe in tal modo affidato a soggetti individuati in assenza di qualsiasi procedimento legalmente predeterminato e, quindi, privo di adeguate garanzie di trasparenza e pubblicità (TAR Molise, Sez. I, 16 dicembre 2010, n. 1552).

Si segnala, tuttavia, un orientamento dottrinale che reputa possibile il ricorso all'arbitrato irrituale per le controversie nelle quali la pubblica amministrazione agisce iure privatorum. L'art. 12, infatti, nel prevedere il ricorso esclusivamente all'arbitrato rituale in relazione alle controversie devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo, consentirebbe nei restanti casi, ossia in relazione alle controversie devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, il ricorso all'arbitrato irrituale. Tale impostazione sarebbe suffragata dalla affievolita distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale, stante l'identità di funzioni tra arbitri – rituali e irrituali – ai quali viene affidato il compito di giudicare e decidere una lite con un lodo che, a prescindere dalla natura, ha pur sempre gli effetti di un negozio stipulato tra le parti. (Goisis; Angelini – Sigona, 611; in senso contrario alla possibilità di ricorre all'arbitrato irrituale per le Pubbliche Amministrazioni Cassese, 313; De Lise, 1999).

In evidenza

La giurisprudenza è prevalentemente orientata ad escludere la possibilità di ricorrere all'arbitrato irrituale per le controversie in cui sia parte una pubblica amministrazione anche se devolute alla giurisdizione del giudice ordinario. Il principio è stata chiarito dalla sentenza Cass. civ. S.U., n. 8987/2009, a tenore della quale la pubblica amministrazione, nel suo operare negoziale, non assume una posizione equiparata a quella del privato, anche quando agisce come privato. Di recente, la Corte di Cassazione, Sez. III, con l'ordinanza dell'8 aprile 2020, n. 7759, ha ribadito che la Pubblica Amministrazione non può avvalersi, per la risoluzione delle controversie derivanti da contratti conclusi con privati, dello strumento del cd. arbitrato irrituale o libero poiché, in tal modo, il componimento della vertenza verrebbe ad essere affidato a soggetti (gli arbitri irrituali) che, oltre ad essere individuati in difetto di qualsiasi procedimento legalmente determinato e, pertanto, senza adeguate garanzie di trasparenza e pubblicità della scelta, sarebbero pure destinati ad operare secondo modalità parimenti non predefinite e non corredate dalle dette garanzie. Gli argomenti addotti a supporto di tale si basano sulla natura “negoziale” dell'arbitrato libero: che, risolvendosi in una delega a terzi (gli arbitri-mandatari) della formazione della volontà dell'amministrazione, sarebbe incompatibile con i princìpi che regolano l'agere amministrativo nella misura in cui consentirebbe che il perseguimento del pubblico interesse sia affidato a soggetti estranei alla p.a., individuati «senza adeguate garanzie di trasparenza e pubblicità della scelta», «destinati a operare secondo modalità parimenti non predefinite » e, per di più, «sottratti a ogni controllo, con l'effetto di rendere evanescente anche l'eventuale individuazione di qualsiasi conseguente responsabilità» (G. Tota, Ancora sull'arbitrato irrituale nelle controversie di cui sia parte una pubblica amministrazione, in Riv. Arb., 3, 2020, 426).

La chiara formulazione dell'art. 12, in commento, consente altresì di escludere il ricorso all'arbitrato secondo equità nelle controversie riguardanti diritti soggettivi rientranti nella giurisdizione del giudice amministrativo. La preclusione sembra fondarsi sulla opportunità che gli interessi pubblici di cui è portatrice la pubblica amministrazione siano oggetto di una decisione stricto iure (Verde, 1). Il giudizio secondo equità, infatti, non essendo basato sulla applicazione di regole astratte predeterminate per legge e conosciute o conoscibili da tutti, contrasterebbe con il dovere di trasparenza cui è sottoposta la pubblica amministrazione.

Inoltre, l'ammissibilità dell'arbitrato secondo equità obbligando la Pubblica Amministrazione al rispetto di una decisione definita sulla base di criteri non preventivamente definiti, contrasterebbe con i principi che regolano l'agire della PA, in forza dei quali non è consentito delegare a terzi estranei la formazione della volontà negoziale della pubblica amministrazione (TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 19 giugno 2014, n. 1607). 1089 caratteri spazi inclusi

Segue. Il procedimento arbitrale

Come anticipato, l'art. 12 c.p.a. contiene un rinvio “in blocco” a tutte le norme che regolano e disciplinano l'arbitrato contenute nel codice di procedura civile. Tuttavia, molte delle disposizioni cui il rinvio si riferisce sono concepite con precipuo riguardo alla organizzazione e alla struttura della giurisdizione ordinario, per tale ragione la concreta operatività del rinvio richiede un adeguamento.

Sulla interpretazione del rinvio contenuto nell'art. 12 c.p.a. si sono contrapposte due tesi. L'una ritiene che debbano applicarsi tutte le disposizioni letteralmente richiamate, compresa anche la devoluzione alla giurisdizione ordinaria della eventuale impugnazione del lodo. Secondo altri, al contrario, le disposizioni del codice di rito andrebbero in ogni caso interpretate in modo coerente con i principi e le regole tipiche della giurisdizione amministrativa. Ciò comporterebbe ad esempio la necessità di interpretare le norme che richiamano il presidente del tribunale come riferite al presidente del TAR.

Sembra da preferire la tesi intermedia (M. Lipari, L'arbitrato e la giurisdizione amministrativa: certezze acquisite e questioni aperte, in Giur. it., 2019, 1243; sul tema in generale M. Vitale, L'arbitrato, in Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, a cura di B. Sassani-R. Villata, Torino, 2012, p. 1334 ss.) che considera necessaria una verifica in ordine alla concreta applicabilità di ciascuna delle norme richiamate dall'art. 12 c.p.a. Dovrebbero, quindi, considerarsi applicabili quelle disposizioni che concernono il rapporto professionale tra arbitro e parti o le regole sulla emissione del lodo come:

- l'art. 807, che a pena nullità richiede la forma scritta per il compromesso;

- l'art. 808 bis, che consente alle parti di stabilire con una apposita convenzione che siano decise da arbitri le controversie future relative ad uno o più rapporti determinati;

- l'art. 808 quater, sulle regole per la interpretazione della convenzione arbitrale;

- l'art. 808 quinquies, sulla efficacia della convenzione arbitrale.

Alla medesima stregua dovrebbero trovare integrale applicazione le norme (quali gli artt. 810, 811, 813 ter, 814, 815) che attribuiscono talune competenze, soprattutto riguardo la nomina di arbitri, al presidente del tribunale territorialmente competente. Nonostante ci siano voci contrarie, appare prevalente la tesi che considera le funzioni attribuite al presidente del tribunale tipicamente riconducibili alla funzione di volontaria giurisdizione, senza alcuna incisione sullo sviluppo del procedimento e della decisione finale della controversia. Anche le disposizioni riguardanti la disciplina del procedimento arbitrale, contenute nel Capo III del codice di rito, dovrebbero trovare applicazione, come la sede dell'arbitrato, l'intervento di terzi, la compensazione o la anticipazione delle spese a carico delle parti.

Maggiori incertezze pone la applicazione dell'art. 818 c.p.c., che riguarda la competenza all'adozione delle misure cautelari, in corso e ante causam. Ed, infatti, gli arbitri non possono concedere sequestri, né altri provvedimenti cautelari; e ai sensi dell'art. 669 quinquies c.p.c. in presenza di una clausola compromissoria la domanda cautelare si propone al giudice che sarebbe stato competente a conoscere il merito della controversia. Autorevoli voci dottrinali ritengono che i poteri cautelari, sia ante che in corso di causa, spettino al TAR, che sarebbe competente a decidere il merito della lite. L'art. 669 quinquies c.p.c., infatti, nel richiamare il giudice competente per il merito, si riferirebbe anche al giudice munito di giurisdizione: in mancanza di patto compromissorio la lite sarebbe attribuita al giudice amministrativo, unico munito di giurisdizione, a cui andranno anche indirizzate le istanze cautelari.

Trovano diretta e completa applicazione le norme relative alla formazione del lodo e alla sua efficacia, quali quelle riguardanti il termine per la decisione, la deliberazione e i requisiti del lodo, la formazione delle copie. Qualche dubbio interpretativo pone invece l'art. 825 c.p.c., secondo il quale la parte che intende far eseguire il lodo nel territorio della Repubblica ne propone istanza depositando il lodo, insieme con la convenzione arbitrale, presso la cancelleria del tribunale nel cui circondario ha sede l'arbitrato. Il tribunale accertata la regolarità formale del lodo lo dichiara esecutivo con decreto, avverso il quale è ammesso reclamo mediante ricorso alla corte d'appello. Ebbene è discusso se la competenza debba permanere in capo al giudice ordinario o debba intendersi riferita al giudice amministrativo. Tuttavia, sembra che il procedimento in esame non abbia natura pienamente giurisdizionale e il potere del giudice sia limitato ad una mera verifica formale, che farebbe propendere per l'attribuzione di tale competenza al tribunale ordinario. Egualmente si potrebbe ritenere che spetti al giudice ordinario la competenza relativa alla correzione del lodo, di cui all'art. 826 c.p.c., non implicando il procedimento alcuna ingerenza sulla verifica dei contenuti del lodo e del procedimento arbitrale, ma al contrario consistendo in una attività di natura sostanzialmente amministrativa o ordinatoria. Il giudice ordinario si limiterebbe ad una attività di mera correzione materiale del lodo non travalicando la sfera di giurisdizione affidata e riservata al giudice amministrativo.

Segue. Impugnazione del lodo arbitrale

La questione maggiormente dibattuta in dottrina attiene al regime di impugnazione del lodo arbitrale, previsto dall'art. 828 c.p.c. Sebbene non vi siano incertezze sulla applicabilità dell'art. 827 c.p.c. e dunque sulla individuazione dei rimedi esperibili avverso il lodo; maggiori ostacoli sono stati rinvenuti nella operatività dell'art. 828 c.p.c., secondo il quale l'impugnazione per nullità del lodo si propone dinanzi alla Corte d'Appello nel cui distretto è la sede dell'arbitrato, nel termine di novanta giorni dalla notificazione del lodo stesso. Medesima competenza è individuata dall'art. 831 c.p.c. per le impugnazioni per revocazione e per opposizione di terzo.

L'applicazione integrale delle norme sopra citate porterebbe a una modifica della giurisdizione sulla controversia, operata mediante il mero esercizio della autonomia e libertà delle parti: le parti attraverso la devoluzione della controversia agli arbitri opererebbero anche una deroga alla giurisdizione del giudice amministrativo.

Prima dell'introduzione del codice del processo amministrativo, giurisprudenza e dottrina si erano divise sulla necessità che del giudizio di impugnazione del lodo conoscesse il Consiglio di Stato o la Corte d'Appello.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, prima con l'ordinanza n. 15204/2006 e in seguito con la sentenza n. 16887/2013, hanno affermato che l'impugnazione di lodi arbitrali rituali pronunciati nell'ambito di controversie riconducibili alla sfera dell'art. 6 l. n. 205/2000, deve essere proposta dinanzi alla Corte d'Appello. A tale conclusione si giungerebbe attraverso la interpretazione sistematica delle norme dettate in tema di arbitrato rituale: l'unica disposizione volta alla determinazione del giudice competente su detta impugnazione è l'art. 828 c.p.c., se ne deve, quindi, escludere che la giurisdizione, in tali ipotesi, possa competere al Consiglio di Stato.

Peraltro, l'orientamento per cui le impugnazioni arbitrali, in tali casi, dovrebbero essere devolute al Consiglio di Stato, inteso quale giudice di appello rispetto al TAR, e, dunque, collocato in posizione di simmetria rispetto alla Corte di Appello, quale giudice di secondo grado rispetto al Tribunale, muove dall'erronea considerazione che l'art. 828 c.p.c. abbia investito la Corte d'Appello in quanto giudice di seconda istanza rispetto alle sentenze che il Tribunale sarebbe stato competente ad emettere, in assenza del compromesso o della clausola compromissoria. A ben guardare, l'art. 828 c.p.c., nell'attribuire la competenza alla Corte di Appello nella cui circoscrizione è la sede dell'arbitrato, ha introdotto un criterio di attribuzione della competenza diverso rispetto agli ordinari criteri previsti dagli artt. 18 e ss. c.p.c. per la determinazione della competenza territoriale del giudice di primo grado.

Al contrario, un orientamento dottrinale ha osservato che la devoluzione del giudizio di impugnazione del lodo alla Corte d'Appello in luogo del Consiglio di Stato, determinerebbe la violazione dell'art. 25 Cost., sottraendo la decisione della controversia al giudice naturale precostituito per legge, ossia, nel caso in esame, al giudice amministrativo. Il ricorso all'arbitrato finirebbe con il rappresentare uno strumento di deviazione o di deroga alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, alterando così la volontà del legislatore (De Nictolis, 1004). Ciò a maggior ragione ove venga deferita alla Corte d'Appello non solo la cognizione della fase rescindente del lodo ma anche la fase rescissoria, che comporterebbe necessariamente la conoscenza e l'accertamento della originaria situazione giuridica sottesa alla controversia (Consolo, 2000, 12; Marinucci).

La necessità di devolvere il giudizio di impugnazione al giudice amministrativo è stata affermata anche da Cons. St. n. 3655/2003 (nonché da TAR Salerno, n. 940/2003). L'impugnazione del lodoarbitrale, in quanto alternativo alla pronuncia del giudice amministrativo di primo grado, deve essere proposto davanti al giudice amministrativo, a cui è per legge attribuito il compito di conoscere e valutare la fondatezza dell'azione risarcitoria conseguente alla lesione di un interesse legittimo, o la fondatezza di qualsiasi pretesa patrimoniale nascente da una convenzione di tipo pubblicistico rimessa alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Attualmente può dirsi consolidata l'opinione secondo cui l'impugnazione del lodo arbitrale sia proponibile dinanzi alla Corte d'Appello. Il rinvio espresso agli artt. 806 ss. c.p.c. induce a ritenere che debbano trovare applicazione anche gli artt. 825 - 831 c.p.c., con conseguente estensione agli arbitrati in cui è parte la pubblica amministrazione delle norme sulla esecuzione e impugnazione del lodo dettate dal codice di rito e, dunque, dovrebbe confermare la lettura interpretativa per cui il lodo arbitrale, in mancanza di una espressa previsione di legge, debba essere impugnato dinanzi al giudice ordinario.

Ne consegue che competente a conoscere dell'impugnazione del lodo pronunciato su diritti soggettivi devoluti alla giurisdizione del giudice amministrativo è la Corte d'Appello territorialmente competente, ossia quella nella cui circoscrizione è la sede dell'arbitrato, ai sensi dell'art. 828 c.p.c.

Con tale disposizione il legislatore ha inteso garantire la preservazione dell'arbitrato come strumento di diritto comune, assicurando l'unità del rito arbitrale, sia per le controversie devolute al giudice ordinario che al giudice amministrativo.

Tale impostazione è stata condivisa dal prevalente orientamento giurisprudenziale secondo cui l'impugnazione di lodi arbitrali rituali, compresi quelli pronunciati nell'ambito di controversie riconducibili alla sfera dell'art. 12 d.lgs n. 104/2010, così come quella di ogni altro lodo arbitrale rituale, deve essere proposta dinanzi alla Corte d'Appello (T.A.R. Campania Napoli, n. 5553/2016). Risulta, dunque, ad oggi, pacifica la devoluzione del giudizio di impugnazione avverso il lodo rituale, anche ove sia parte una pubblica amministrazione, alla Corte d'Appello territorialmente competente. La chiarezza del rinvio contenuto nell'art. 12 in commento alle disposizioni del codice di procedura civile non consente la sopravvivenza di ulteriori dubbi interpretativi circa la devoluzione del giudizio di impugnazione del lodo dinanzi al Consiglio di Stato (o al TAR secondo un minoritario orientamento).

Dall'analisi testuale dell'art. 12, in esame, sembra, in ogni caso, doversi ritenere che competente a conoscere dell'impugnazione dei lodi sia la Corte d'Appello, alla quale è devoluta (confermando così l'orientamento espresso dalla Corte di Cassazione nella citata sentenza n. 16887/2013) non solo la cognizione della cd. fase rescindente dell'impugnazione del lodo, ma anche il potere-dovere, in caso di accoglimento dell'impugnazione e salvo contraria volontà di tutte le parti, di decidere nel merito nella controversia (cd. fase rescissoria, ai sensi dell'art. 830, secondo comma, c.p.c.). Argomento a sostegno della tesi pare, inoltre, si possa ricavare dal generico rinvio agli artt. 806 ss. c.p.c. previsto nell'art. 12 c.p.a. e dalla formulazione dell'art. 830 c.p.c.,
ove sono indicati i casi in cui alla Corte d'Appello è precluso di decidere nel merito la controversia: la mancata indicazione fra le ipotesi ivi elencate di quella in esame induce a ritenere che l'impugnazione di lodi resi su materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo trovi la propria esclusiva disciplina negli artt. 829 ss. c.p.c.

In evidenza

L'art. 829 c.p.c. ammette l'impugnazione del lodo arbitrale per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia solo se è ammessa espressamente dalle parti o se disposta dalla legge, come nelle controversie ai sensi dell'art. 409 c.p.c. e se la violazione delle regole di diritto concerne una questione pregiudiziale che non può formare oggetto di arbitrato. La disposizione, confermando il carattere eccezionale della impugnazione per motivi di diritti, applicata all'arbitrato di cui all'art. 12 c.p.a. potrebbe ledere, o quantomeno meno limitare, l'operatività del principio secondo il quale per le controversie attribuite alla giurisdizione esclusiva amministrativa è ammesso solo l'arbitrato di diritto. Tuttavia l'art. 829 c.p.c. non si pone in contrasto con quanto stabilito dall'art. 12 c.p.a. atteso che l'esclusione dell'impugnazione per motivi di diritto non trasforma ex se il procedimento in un arbitrato secondo equità.

Revocazione e opposizione di terzo

Il rinvio contenuto nell'articolo 12 c.p.a. alle disposizioni contenute negli artt. 806 e ss. c.p.c. determina anche l'applicabilità ai lodi aventi ad oggetto diritti soggettivi devoluti alla giurisdizione del giudice amministrativo dei rimedi della revocazione e dell'opposizione di terzo.

L'art. 831 c.p.c., applicabile anche alle controversie in esame, consente, infatti, il ricorso alla revocazione nelle ipotesi previste dai numeri 1, 2, 3, e 6 dell'art. 395 c.p.c., ossia: 1) se il lodo è il risultato del dolo di una delle parti nei riguardi dell'altra; 2) se si è giunti alla pronuncia del lodo sulla base di prove riconosciute o dichiarate false dopo la emissione del lodo stesso o che si ignorava fossero state riconosciute false prima di tale pronuncia; 3) se in seguito alla pronuncia del lodo sono stati rinvenuti documenti decisivi che la parte interessata non ha potuto produrre per causa di forza maggiore o per il fatto dell'avversario; 6) se il lodo è il risultato del dolo dell'arbitro, o degli arbitri, accertato con sentenza passata in giudicato.

Resta, quindi, esclusa la possibilità di esperire la revocazione nelle ipotesi in cui il lodo sia l'effetto di un errore risultante dagli atti e nel caso di conflitto tra giudicati.

Alla revocazione avverso i lodi si applicano i termini e le forme stabiliti nel libro secondo del codice di procedura civile, pertanto, la revocazione sarà esperibile anche ove siano scaduti i termini per l'appello purché la scoperta del dolo, della falsità, dei documenti o la pronuncia della sentenza siano successivi alla scadenza del termine stesso.

Il lodo pronunciato a norma dell'art. 12 potrà essere oggetto altresì di opposizione di terzo, sia ordinaria che revocatoria, ex art. 404 c.p.c. Ne consegne che: il lodo reso tra altre persone potrà essere impugnato dal terzo ove pregiudichi i suoi diritti – opposizione ordinaria -; gli aventi causa e i creditori di una delle parti potranno impugnare il lodo che sia l'effetto del dolo o della collusione a loro danno – opposizione revocatoria-.

L'opposizione revocatoria deve essere proposta entro trenta giorni dalla scoperta del dolo o della collusione.

Giudizio di ottemperanza

Il codice del processo amministrativo ha risolto anche i dubbi sollevati da dottrina e giurisprudenza circa la possibilità di esperire il rimedio del giudizio di ottemperanza per l'attuazione dei lodi arbitrali. L'art. 112, comma 1, lett. e) c.p.a. ha previsto la proponibilità dell'azione di ottemperanza per l'attuazione dei “lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili al fine di ottenere l'adempimento dell'obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato”. Ad oggi, il lodo arbitrale, dunque, dichiarato esecutivo con decreto, ai sensi dell'art. 825 c.p.c., è titolo esecutivo ai sensi dell'art. 474 c.p.c., costituisce presupposto per la trascrizione e annotazione nei registri immobiliari ed è suscettibile di formare oggetto di giudizio di ottemperanza.

Il ricorso per l'ottemperanza deve essere proposto al TAR nella cui circoscrizione ha sede il collegio arbitrale che ha emesso il lodo di cui si chiede l'ottemperanza.

Il Consiglio di Stato nella sentenza n. 2542/2011 ha chiarito che l'azione di ottemperanza per l'esecuzione di un lodo arbitrale divenuto esecutivo ed inoppugnabile doveva reputarsi ammissibile anche prima dell'entrata in vigore dell'art. 112, comma 2, lett. e) c.p.a. che lo ha normativamente ed espressamente consentito. Il nuovo codice ha recepito la prevalente interpretazione che riteneva equiparabile il lodo ad una sentenza con l'applicazione dell'art. 824-bis c.p.c. per cui "il lodo ha dalla data della sua ultima sottoscrizione gli effetti della sentenza pronunciata dall'autorità giudiziaria".

Prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 104/2010, la giurisprudenza sul tema aveva formulato opinioni non uniformi. Secondo un orientamento il lodo rituale, stante la natura negoziale dello stesso, non costituiva provvedimento idoneo ad attivare il giudizio di ottemperanza innanzi al giudice amministrativo. La caratteristica precipua della giurisdizione “che la rende una funzione squisitamente caratterizzante la sovranità dello Stato non è l'attività di giudizio in quanto tale”, quanto piuttosto il cd. monopolio della forza, ossia l'attitudine esclusiva alla forza del giudicato, “idonea ad esaurire ogni potestà di giudizio sullo specifico frammento di vita” (TAR Puglia – Lecce, n. 2800/2008; TAR Campania – Napoli, n. 1967/2009; Cass. civ., S.U. n. 527/2000). Tale attitudine tipica della sentenza, sarebbe carente nel lodo arbitrale. La mera attribuzione al lodo degli effetti della sentenza non inciderebbe sulla natura intrinseca di atto negoziale: al lodo può essere estesa l'efficacia della sentenza, intesa quale vincolatività della tutela giuridica in essa contenuta, ma non anche l'autorità del giudicato, ex art. 2909 c.c., che lungi dall'essere un effetto della sentenza ne costituisce una particolare qualità di tali effetti che si estrinseca nella immutabilità e incontrovertibilità dell'accertamento ivi previsto.

Secondo un diverso orientamento l'azione di ottemperanza del lodo dichiarato esecutivo era da reputarsi ammissibile (TAR Sicilia - Catania, n. 262/2009). Dinanzi all'Amministrazione inadempiente era possibile esperire due forme di tutela non solo l'ordinaria procedura di esecuzione prevista dal codice di procedura civile, ma anche il rimedio del giudizio di ottemperanza dinanzi al giudice amministrativo (conforme Cons. St., n. 6241/2009).

Il superamento delle differenze tra sentenza e lodo arbitrale avviato con l'introduzione dell'art. 824 bis c.p.c., ad opera del d.lgs. n. 40/2006, che ha equiparato il lodo a tutti gli effetti alla sentenza pronunciata dall'autorità giudiziaria, può dirsi cristallizzato nella disposizione contenuta nella lett. edel co. 2 dell'art. 112 c.p.a. Tale norma fissa espressamente l'equazione lodo – giudicato - ottemperanza, frutto del procedimento evolutivo fin qui esaminato e pone fine al dibattito giurisprudenziale e dottrinale sorto in materia.

Sommario