Azione di disconoscimento della paternità: la cassazione ritorna sul termine decadenziale e sull'onere probatorio

Edoardo Rossi
21 Settembre 2022

La questione in oggetto concerne la decorrenza del termine di prescrizione annuale ai fini del disconoscimento di paternità e il regime probatorio dello stesso, con riguardo sia al momento specifico di individuazione del nesso di causalità tra la relazione extra-coniugale e la nascita del figlio, sia all'eventuale rifiuto di una delle parti di sottoporsi al test del DNA.
Massima

Al fine della decorrenza del termine annuale di decadenza per l'esercizio dell'azione di disconoscimento da parte del padre ex art. 244, 2° comma c.c., non è sufficiente la mera scoperta dell'adulterio della moglie, per essere necessario che la conoscenza involga il nesso di causalità tra adulterio e procreazione del figlio che si intende disconoscere.

Il caso

La Corte d'Appello di Palermo - adita dalla madre e dal figlio - confermava la sentenza di primo grado con cui il locale Tribunale, rigettate le eccezioni preliminari di decadenza e prescrizione sollevate dai convenuti, accoglieva la domanda di disconoscimento di paternità ex art. 244, 2° comma c.c. avanzata dal marito confronti dell'ex coniuge e del figlio maggiorenne, nato in costanza di matrimonio.

La Corte di Cassazione, successivamente adita, rigetta il ricorso principale proposto dalla madre ed il controricorso incidentale del figlio. In particolare, evidenzia la Corte come nei giudizi di primo e secondo grado non fossero emersi elementi tali da dimostrare - da parte del marito - la certezza della conoscenza dell'adulterio della moglie nel periodo di concepimento, tant'è che lo stesso, nel giudizio di separazione, aveva chiesto l'affido esclusivo del figlio; solo successivamente - a seguito di ricevimento di una lettera anonima con la quale veniva informato che il figlio sarebbe in realtà nato da una relazione extraconiugale della moglie ed al conseguente esame del DNA dallo stesso commissionato (previo assenso del figlio) – proponeva domanda di disconoscimento, definitivamente accolta.

La questione

La decisione in commento prende in esame due profili, afferenti rispettivamente la decorrenza del termine prescrizionale dell'azione ed il regime probatorio, funzionale all'accoglimento della domanda.

Le soluzioni giuridiche

Come noto, l'azione di disconoscimento di paternità deve essere esercitata nel termine di un anno decorrente - di regola - dal giorno della nascita del figlio. Se, peraltro il padre provi di aver ignorato la propria impotenza a generare o l'adulterio da parte della moglie, il termine ex art. 244, 2° comma c.c. decorre dal giorno in cui lo stesso è venuto a conoscenza di detti eventi.

La Cassazione ha confermato la decisione della Corte d'Appello, che aveva ritenuto provata, da parte degli appellanti, solamente la conoscenza - da parte del padre - di plurime relazioni extraconiugali della moglie in costanza di matrimonio, ma non la certezza della conoscenza di un fatto idoneo a determinare il concepimento. La Cassazione con questa ordinanza ribadisce pertanto l'orientamento giurisprudenziale prevalente, secondo cui ciò che rileva è l'acquisizione certa della conoscenza di un fatto idoneo a determinare il concepimento (una vera e propria relazione o un incontro sessuale) e non un mero sospetto, non essendo perciò sufficiente un'infatuazione o una relazione sentimentale e neppure una mera frequentazione della moglie con un altro uomo, dato che la conoscenza deve involgere proprio il nesso di causalità tra adulterio e procreazione del figlio che si intende disconoscere. Sulla base di tale principio, la Suprema Corte in un altro procedimento ha cassato con rinvio la decisione della Corte d'Appello di Milano che, al fine di escludere la tempestività dell'azione, aveva ritenuto sufficiente la conoscenza da parte del marito delle frequentazioni della moglie (cfr. Cass. civ., sez. I, ordinanza 17.09.2020 n. 19324); nello stesso senso anche Cass. civ.; sez. I, ordinanza 09.02.2018 n. 3263; Cass. civ., sez. I, sentenza 26.06.2014, n. 14556.

Una volta ritenuta ammissibile l'azione, si pone il profilo della prova, che può ritenersi raggiunta con tutti i mezzi opportuni, anche in difetto dalla risolutiva consulenza medico-genetica, cui il convenuto non si era sottoposto.

Osservazioni

La pronuncia in esame conferma il rigore che la giurisprudenza ha assunto in ordine alla decorrenza del termine annuale per l'esercizio dell'azione di disconoscimento da parte del marito. Non è infatti sufficiente la mera conoscenza dell'adulterio, occorrendo anche la prova (da offrirsi da parte del convenuto che all'azione di opponga) della conoscenza del nesso di possibile causalità tra adulterio e nascita del figlio, che si intende disconoscere. Da tanto consegue che la prova offerta dovrà riguardare la conoscenza di un adulterio (e quindi di una relazione amorosa/sessuale) nel periodo del presumibile concepimento, non rilevando comportamenti diversamente collocati nel tempo, ovvero mere infatuazioni.

In altri termini, sul marito attore grava l'onere di dimostrare di avere agito entro l'anno dalla data in cui ha scoperto una condotta della donna idonea al concepimento con un altro uomo, mentre sulla parte convenuta grava l'onere di dimostrare l'eventuale anteriorità della scoperta. Con l'ulteriore precisazione che non è sufficiente, per il convenuto che eccepisce la decadenza dall'azione, dimostrare la pregressa conoscenza, da parte del marito, dell'adulterio della moglie, ma occorre anche provare la consapevolezza che l'adulterio vi fosse stato anche al momento del concepimento del figlio.

Una volta accertata la tempestività dell'azione assume particolare importanza ai fini probatori (così come, peraltro, anche nei giudizi volti all'accertamento della paternità) la consulenza tecnica di tipo genetico sul DNA, risultando infatti - visti i progressi della scienza biomedica - lo strumento più idoneo, in considerazione dei margini di sicurezza elevatissimi raggiunti, per l'acquisizione della conoscenza circa l'esistenza o meno di un rapporto di filiazione.

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito che il rifiuto di sottoporsi a indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice ex art. 116 c.p.c. tale da potere - da solo - consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda (cfr. Cass. civ., Sez. I, ord. 2.05- 14.06.2019 n. 16128; Cass. civ., Sez. I, ord. 13.12.2018 n. 32308; Cass. civ. Sez. I, sentenza 23.02.2016 n. 3479). Se, pertanto, non può essere coercibile la volontà di sottoporsi al prelievo ematico per eseguire gli accertamenti sul DNA, pur tuttavia il giudice ben può valutare, in caso di rifiuto - sia pure in sé legittimo, ma privo di adeguata giustificazione - il comportamento della parte ex art. 116 c.p.c..

Nel caso in esame, il figlio non aveva opposto alcun rifiuto esplicito alla consulenza tecnica disposta dal giudice di primo grado, ma per ben quattro volte non si era presentato il giorno in cui erano state fissate le operazioni peritali. Tale condotta è stata, peraltro, dall'organo giudicante equiparata ad un rifiuto ex art. 116, 2° comma c.p.c. e valutato quale elemento di convincimento unitamente alle altre risultanze derivanti sia dagli esami ematologici effettuati prima del giudizio sia dalla circostanza che la moglie intrattenesse plurime relazioni extraconiugali. Si tratta di valutazione fattuale, incensurabile in sede di legittimità, come la pronuncia annotata tiene a rimarcare.

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