Salari minimi adeguati: obiettivi, strumenti, criticità della proposta di direttiva europea

Emanuela Vitello
Emanuela Vitello
24 Settembre 2022

Il 14 settembre 2022 l'Assemblea Plenaria del Parlamento Europeo ha discusso ed approvato in prima lettura la proposta di direttiva sul salario minimo adeguato nell'Unione Europea. Il testo approvato è il frutto di un accordo interistituzionale (al quale sono state apportate solo poche modifiche formali e lessicali). La procedura legislativa ordinaria per l'adozione della direttiva dunque prosegue con la trasmissione del testo legislativo al Consiglio dell'Unione Europea, che lo esaminerà in prima lettura: ove il Consiglio decidesse di accogliere la posizione del Parlamento (come è ragionevole aspettarsi avendo il Consiglio già espresso il suo consenso in sede di accordo interistituzionale) la direttiva sarà adottata.
La proposta di direttiva sul salario minimo nel quadro del diritto UE

Il 14 settembre 2022 l'Assemblea Plenaria del Parlamento Europeo ha discusso ed approvato in prima lettura la proposta di direttiva sul salario minimo adeguato nell'Unione Europea. Il testo approvato è il frutto di un accordo interistituzionale (1) (al quale sono state apportate solo poche modifiche formali e lessicali) (2). La procedura legislativa ordinaria per l'adozione della direttiva dunque prosegue con la trasmissione del testo legislativo al Consiglio dell'Unione Europea, che lo esaminerà in prima lettura: ove il Consiglio decidesse di accogliere la posizione del Parlamento (come è ragionevole aspettarsi avendo il Consiglio già espresso il suo consenso in sede di accordo interistituzionale) la direttiva sarà adottata.

Una legislazione europea sul salario minimo costituisce un nuovo tassello nel mosaico della disciplina lavoristica in ambito UE, che sempre più negli ultimi anni si è resa protagonista di un mutamento di prospettiva: la tutela delle condizioni di lavoro da strumento per armonizzare il mercato unico ed evitare squilibri concorrenziali è divenuta strumento per garantire il rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori quale valore in sé. L'affiancamento della finalità sociale dell'Unione a quella tipicamente economica è stato espressamente riconosciuto dalla Corte di Giustizia, che ha evidenziato la necessità di bilanciamento tra le due direttrici, implicitamente riconoscendone la reciproca autonomia e la possibilità che nell'ambito di ciascuna di esse sorgano interessi contrastanti, e che dunque l'una non sia meramente un mezzo per la realizzazione dell'altra (3). D'altronde con la Carta di Nizza e con l'affermazione del principio dell'indivisibilità e della parità di valore dei diritti sociali e delle libertà economiche nel sistema comunitario, il "modello sociale europeo" è stato indicato come uno dei tratti fondamentali della specifica identità politica dell'Unione (4).

Il tema della retribuzione – che rappresenta pacificamente uno degli aspetti delle “condizioni di lavoro” (5)- è peraltro già tenuto in considerazione da diverse misure legislative dell'Unione, sebbene ne sia stato soprattutto sottolineato il valore cruciale nel contrastare i potenziali effetti corrosivi di una concorrenza sfrenata sia economica che normativa nell'ambito del mercato unico (6).

La proposta di direttiva sul salario minimo (7) (la “Proposta di Direttiva”) mira in particolare a dare concretezza ad alcuni dei più significativi obiettivi del Pilastro Europeo dei Diritti Sociali (8), strumento sinora accusato di scarso impatto sulle politiche sociali euro-unitarie, al punto da essere talvolta additato come operazione di marketing piuttosto che come misura incisiva sull'hard-law dell'Unione Europea (9).

Il principio n. 6 del Pilastro Europeo dei Diritti Sociali si occupa delle retribuzioni dei lavoratori nell'Unione Europea, sancendo il diritto dei lavoratori “ad una retribuzione equa che offra un tenore di vita dignitoso”, prevedendo la garanzia di retribuzioni minime adeguate “in funzione delle condizioni economiche e sociali nazionali, salvaguardando nel contempo l'accesso al lavoro e gli incentivi alla ricerca di lavoro”, e imponendo la fissazione delle retribuzioni “in maniera trasparente e prevedibile, conformemente alle prassi nazionali e nel rispetto dell'autonomia delle parti sociali”. Tali principi sono espressamente richiamati dalla Proposta di Direttiva, ed esplicitati nella relazione di accompagnamento della Commissione (10).

Il Pilastro Europeo dei Diritti Sociali non comporta, ovviamente, un aumento delle competenze e dei compiti dell'Unione conferiti dai Trattati, e dovrebbe essere attuato entro i limiti di tali poteri (11). Nel perseguimento degli scopi sopra enunciati il legislatore europeo deve dunque fare i conti con le limitazioni previste dall'art. 153 comma 5 del TFUE, che espressamente individua le “retribuzioni” tra le materie escluse dalla competenza sussidiaria dell'Unione Europea indicata dai commi precedenti dello stesso articolo.

Di tale esclusione è stata però fornita o un'interpretazione restrittiva. Essa riguarda, secondo quanto affermato dalla Corte di Giustizia, unicamente misure che comporterebbero una diretta ingerenza del diritto dell'Unione nella determinazione delle retribuzioni, quali l'uniformazione di tutti o parte degli elementi costitutivi dei salari e/o del loro livello negli Stati membri, o l'obbligo di introdurre un salario minimo. Non comprende pertanto ogni questione avente un qualsiasi nesso con la retribuzione, poiché altrimenti l'esclusione rischierebbe di privare taluni settori di competenza contemplati dall'art.153, paragrafo 1, TFUE di gran parte dei loro contenuti (12).

Tali considerazioni permettono di superare i dubbi sulla compatibilità della Proposta di Direttiva con le competenze attribuite all'Unione dai Trattati (13), e ritenere che la Proposta di Direttiva possa trovare il suo fondamento giuridico nell'art. 153 paragrafo 1, lett. b, oltre che nell'art. 151 TFUE. Ciò nella misura in cui essa non prevede la fissazione di salari minimi a livelli specifici armonizzati (facendo riferimento al concetto generale di "adeguatezza"), fa salva "la competenza degli Stati Membri di fissare i livelli dei salari minimi e la scelta degli Stati membri di fissare salari minimi legali, di promuovere l'accesso alla tutela garantita dal salario minimo fornita da contratti collettivi, o entrambe" (articolo 1, paragrafo 3), e non obbliga gli Stati Membri ad introdurre un salario minimo legale o a rendere i contratti collettivi universalmente applicabili (14). A tali conclusioni sembra potersi giungere anche alla luce dell'orientamento della Corte di Giustizia volto a leggere estensivamente gli effetti orizzontali della clausola sociale contenuta nell'art. 9 TFUE, che non a caso è stato inserito dal Parlamento Europeo nel primo considerando della Proposta di Direttiva (15) tra le primarie basi legali per la proposta legislativa.

Naturalmente, trattandosi di competenza non esclusiva dell'Unione, è essenziale che le prerogative fondate sull'art. 153 primo comma TFUE rispecchino i principi di sussidiarietà e proporzionalità. Su tali aspetti la Commissione Europea ha precisato che l'intervento proposto non ha ad oggetto la fissazione di retribuzioni a livello nazionale (inequivocabilmente rimessa agli Stati Membri) ma “le grandi differenze nelle norme per l'accesso ad un salario minimo adeguato” che “creano notevoli discrepanze nel mercato unico e che possono essere affrontate al meglio a livello dell'Unione” (16).

La Proposta di Direttiva, nel considerando n. 3, fa inoltre riferimento all'art. 31 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea in tema di condizioni di lavoro, nonché agli artt. 27 sul diritto di informazione e consultazione dei lavoratori, 28 sul diritto di negoziare e concludere contratti collettivi ai livelli appropriati, e 23 sul diritto alla parità di trattamento tra uomini e donne in tutti i campi, compresa l'occupazione, il lavoro e la retribuzione.

Sono poi indicativi dell'attenzione dell'Unione al diritto internazionale in materia di lavoro anche i richiami alla Carta Sociale Europea (17), stipulata in seno al Consiglio d'Europa, e agli scopi perseguiti dalla convenzione n. 131 dell'OIL (18) (pur non essendo la convenzione stata ratificata da diversi Stati Membri, tra cui l'Italia).

Il percorso verso la Direttiva

La Proposta di Direttiva è il frutto di una valutazione di impatto di diverse combinazioni di misure. Tra queste è stato scelto un pacchetto che richiede agli Stati Membri soprattutto di sostenere la contrattazione collettiva nella determinazione dei salari, in particolare nei casi in cui la copertura della contrattazione collettiva sia bassa, e per gli Stati Membri in cui sono in vigore salari minimi legali nazionale l'inclusione di criteri espliciti per l'adeguatezza dei salari minimi e di valori di riferimento indicativi (quali il 60% del salario lordo mediano o il 50% del salario lordo medio), nonché il rafforzamento del ruolo delle parti sociali. A seguito della valutazione di impatto si è ritenuto che questa soluzione garantisse l'equilibrio migliore tra costi-obiettivi, realizzati in maniera proporzionata, rispettando le disposizioni nazionali consolidate e lasciando un margine di discrezionalità agli Stati membri e alle parti sociali (19).

La valutazione di impatto della Commissione ha portato ad una proposta di direttiva pubblicata il 20 ottobre 2020, rispetto alla quale il Parlamento Europeo ha formulato osservazioni e modifiche (20). A seguito di negoziazioni interistituzionali e di riunione del 6 giugno 2022 tra rappresentanti di Commissione Europea, Consiglio Europeo e Parlamento Europeo, il COREPER ha approvato un testo emendato (21), sottoposto al Parlamento che in Assemblea Plenaria lo ha approvato (con poche modifiche formali e lessicali) il 14 settembre 2022 (22).

Obiettivi della Proposta di Direttiva

La Proposta di Direttiva, come si evince dalla relazione di accompagnamento della Commissione, prende le mosse dalla considerazione che nell'ambito dell'Unione Europea esiste in tutti gli Stati Membri una tutela garantita dal salario minimo, o attraverso contratti collettivi (in sei Stati Membri, tra cui l'Italia) o attraverso salari minimi legali previsti per legge (in 21 Stati Membri). Tuttavia la relazione evidenzia, da un lato, che i salari minimi legali sono in molti casi inadeguati, dall'altro che, negli Stati Membri che si avvalgono esclusivamente della contrattazione collettiva, la tutela garantita dal salario minimo non copre una parte importante di lavoratori.

Lo scopo della Proposta di Direttiva non è quindi di indurre gli Stati Membri ad introdurre in via legislativa o tramite contrattazione collettiva minimi retributivi (già esistenti in forme diverse) o ad adottare un meccanismo di fissazione unico degli stessi, ma di migliorare gli strumenti esistenti in ciascun ordinamento degli Stati Membri, affinché la tutela salariale minima garantita ai lavoratori sia ovunque adeguata, equa ed effettiva.

Ciò in ragione della constatazione dell'aumento della povertà lavorativa e delle disuguaglianze salariali in ambito UE, anche determinate da fenomeni quali la globalizzazione, la digitalizzazione e l'aumento delle forme di lavoro atipiche, in particolare nel settore dei servizi, che hanno modificato i mercati del lavoro e creato un aumento dei posti di lavoro a bassa retribuzione e bassa qualifica. Rispetto a tali fenomeni le forme di contrattazione collettiva non solo non si sono dimostrate adeguate, ma hanno subito un indebolimento (23). Dunque la crisi della contrattazione collettiva collegata al deterioramento delle relazioni industriali non sembra rappresentare un fenomeno solamente italiano, come ha autorevolmente notato chi l'ha ricondotta a fattori strutturali quali la competizione internazionale e le nuove tecnologie che hanno trasformato le forme del lavoro e dell'impresa, oltre che alla deregolazione del mercato del lavoro in molti paesi, che ha penalizzato le organizzazioni dei lavoratori nelle relazioni industriali (24) (25).

Il ruolo del salario minimo, legale o da contrattazione collettiva, è ritenuto strumentale ad una ripresa economica sostenibile ed inclusiva, specialmente dopo la crisi pandemica che ha penalizzato maggiormente lavoratori a basso salario e i gruppi più svantaggiati della popolazione. Esso è visto come il mezzo per assicurare una vita dignitosa ai lavoratori, sostenere la domanda interna e ridurre le disuguaglianze nella fascia più bassa in termini di distribuzione salariale, nonché per promuovere la parità di genere (poiché proprio le donne risultano una percentuale più numerosa tra le fasce di lavoratori a basso salario) (26).

La Direttiva si propone dunque due obiettivi fondamentali per tutti gli Stati Membri:

- Migliorare l'adeguatezza dei salari minimi;

- Aumentare l'accesso dei lavoratori alla tutela garantita dal salario minimo.

Il nucleo della ratio della Proposta di Direttiva, pertanto, non riguarda solo il processo di quantificazione equa del salario minimo (per via legislativa, o rimessa alla contrattazione collettiva), ma anche l'accesso allo stesso da parte di una platea di lavoratori attualmente esclusi da tale tutela, principalmente in ragione dell'evoluzione del mercato del lavoro negli ultimi decenni. La Proposta di Direttiva, soprattutto a seguito delle modifiche apportate in sede di accordo interistituzionale, sottolinea sin dal primo articolo la necessità che l'accesso alla tutela garantita dal salario minimo - nelle forme previste dall'ordinamento interno - sia effettivo, impegnando negli articoli successivi lo Stato ad azioni concrete per assicurare tale effettività, anche attraverso azioni di monitoraggio. Per realizzare il concreto miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori, e al contempo proteggere le imprese dalla concorrenza sleale, è infatti ritenuto essenziale garantire il rispetto e l'applicazione efficace dei contratti collettivi vigenti o delle disposizioni giuridiche nazionali che prevedono il salario minimo.

Lo strumento considerato fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi fissati, anche negli Stati Membri che individuano il salario minimo per via legislativa, è la promozione ed il sostegno alla contrattazione collettiva, pur senza prevedere un'applicazione generalizzata dei contratti collettivi. Si è notato infatti che la contrattazione collettiva garantisce salari superiori al livello minimo stabilito per legge e stimola miglioramenti di tale livello e l'incremento della produttività. È stato inoltre rilevato (27) che nella maggior parte degli Stati Membri in cui la tutela garantita dal salario minimo è prevista da contratti collettivi la quantificazione prevista è adeguata, nel senso che essa assicura condizioni di vita dignitose nella maggior parte dei casi (28). Al contrario, negli Stati in cui sono previsti salari minimi legali, questi sono generalmente bassi rispetto ad altri salari nell'economia di diversi Stati Membri. Tuttavia, negli Stati Membri in cui la tutela garantita dal salario minimo è fornita solo mediante contratti collettivi vi è una grande percentuale di lavoratori che non ricevono copertura (dal 2 al 55% totale dei lavoratori).

È quindi evidente che gli strumenti per il raggiungimento degli scopi della Proposta di Direttiva debbano essere differenziati anche in ragione delle diverse modalità con cui la tutela è fornita nei diversi ordinamenti. La Proposta di Direttiva evidenzia (29) che gli Stati Membri con una copertura della contrattazione collettiva superiore all'80% tendono ad avere salari minimi alti (in rapporto al salario medio) e una ridotta percentuale di lavoratori a basso salario. Dunque, viene richiesto agli Stati Membri con una copertura della contrattazione collettiva inferiore all'80% di adottare misure per migliorare tale contrattazione e stabilire un piano d'azione per aumentare progressivamente il tasso di copertura.

Ciò comporterebbe, secondo alcuni commentatori, il rischio che per l'Italia la Proposta di Direttiva si risolva in “molto rumore per nulla” (30), posto che l'Italia avrebbe già una copertura da contrattazione collettiva intorno all'80% e non sarebbe quindi obbligata a porre in essere alcun tipo di azione. Tuttavia occorre considerare che il tasso di copertura non può considerarsi svincolato dallo spettro applicativo della Proposta di Direttiva, che come verrà analizzato meglio in seguito, fa riferimento alla nozione di “lavoratore” elaborata dalla Corte di Giustizia, e che dunque presenta margini più ampi di quella di “lavoratore dipendente” rispetto alla quale vengono estrapolati i dati a cui si riferisce l'ampia percentuale italiana di copertura dei contratti collettivi (cioè il lavoratore subordinato alle dipendenze di imprese in diversi settori) (31).

A ciò si aggiunge la difficoltà di tracciamento dei lavoratori in nero, i più esposti a ricevere retribuzioni inferiori a quelle previste dai contratti collettivi. A quanto consta non esistono dati affidabili relativi al tasso di copertura rispetto alla platea di tutti i lavoratori considerati dalla Proposta di Direttiva, che appunto comprende lavoratori domestici, a chiamata, intermittenti, a voucher, falsi lavoratori autonomi, lavoratori in nero, lavoratori tramite piattaforma digitale, tirocinanti, apprendisti, ed in generale altri “non-standard workers”, qualora rispettino i criteri stabiliti dalla Corte di Giustizia per la nozione di “lavoratore” (32).

L'affermazione dell'attuale conformità dell'Italia rispetto agli obblighi previsti dalla Proposta di Direttiva non potrebbe quindi prescindere da una ricognizione della copertura anche rispetto a tali forme di lavoro. Né potrebbe ritenersi che la copertura della contrattazione collettiva in Italia vada considerata pari al 100% in virtù della possibilità per il giudice del lavoro di adeguare la retribuzione dovuta a prevista dai contratti collettivi, quale parametro per la determinazione della retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost. (33). Ciò non solo perché non vengono utilizzate quale parametro tutte le voci retributive previste dal contratto collettivo, ma anche perché considerare la copertura contrattuale attraverso la possibilità di richiedere la tutela giudiziaria, difficilmente azionata in corso di rapporto da parte dei lavoratori meno tutelati, non può probabilmente considerarsi in linea con il principio di effettività di accesso al salario minimo previsto dalla Proposta di Direttiva.

Merita infine un particolare apprezzamento l'attenzione riconosciuta al salario minimo quale strumento di contrasto alle discriminazioni, considerato che le donne, i giovani lavoratori, i lavoratori migranti, i genitori single, i lavoratori meno qualificati, le persone con disabilità, e soprattutto le persone esposte a discriminazione intersezionale, hanno una maggiore probabilità rispetto ad altri gruppi di essere tra i lavoratori meno retribuiti (34). Rispetto all'obiettivo di promuovere l'uguaglianza la Proposta di Direttiva può leggersi in combinato con l'ulteriore proposta di direttiva (pubblicata dalla Commissione UE il 4 marzo 2021 ed attualmente oggetto di negoziazioni interistituzionali) relativa al rafforzamento del principio di parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o lavoro di pari valore attraverso la trasparenza delle retribuzioni e meccanismi esecutivi. Tuttavia, tale ultima proposta, applicando il principio di parità unicamente nell'ambito della stessa impresa, potrebbe avere un impatto minore sui settori meno retribuiti con una netta prevalenza di lavoro femminile. In questi ultimi, dunque, la Proposta di Direttiva sul salario minimo appare allo stato lo strumento principale per garantire alle donne, specialmente se appartenenti a gruppi socialmente più svantaggiati, un trattamento retributivo equo ed adeguato.

Contenuto della Proposta di Direttiva

La Proposta di Direttiva specifica in maniera inequivocabile che non vi è alcun intento di rendere uniforme il salario minimo tra gli Stati Membri, né di armonizzare il sistema per prevederlo, né di obbligare gli Stati Membri ad introdurre un salario minimo legale o a rendere universalmente vincolanti i contratti collettivi (35).

Il testo da approvare si articola in tre capitoli: il primo ed il terzo comprendono disposizioni dirette a tutti gli Stati Membri, il secondo concerne disposizioni rivolte solo agli Stati Membri che adottano un salario minimo previsto dalla legge.

Nell'ambito del primo capitolo (disposizioni generali) suscitano particolare interesse le previsioni di cui all'art. 4, che, a seguito della constatazione del deterioramento della contrattazione collettiva in Europa, e nell'ambito degli obiettivi sopra delineati, è volto a promuovere la contrattazione collettiva nella fissazione dei salari minimi, con lo scopo di facilitarla ed incrementarne la copertura. Le modifiche apportate al testo della Commissione in sede di negoziazione interistituzionale pongono inoltre l'accento sulla necessità che le negoziazioni tra le parti sociali, oltre che essere costruttive e significative, si svolgano in condizioni di appropriata simmetria informativa (36) e soprattutto vincolano gli Stati ad adottare le adeguate misure di protezione per i lavoratori ed i rappresentanti sindacali che partecipino o desiderino partecipare alle negoziazioni. Mentre misure di contrasto a forme di discriminazione basate sulla partecipazione alla contrattazione collettiva (e in generale correlate all'azione sindacale o alla partecipazione ad un sindacato) da parte del datore di lavoro nei confronti di lavoratori o rappresentanti sindacali sono già presenti nel nostro ordinamento, sia a tutela degli interessi individuali che a tutela degli interessi delle organizzazioni sindacali (37), appare più innovativa la necessità di protezione “di sindacati e organizzazioni dei datori di lavoro che partecipano o desiderano partecipare alla negoziazione collettiva da qualsiasi azione di ingerenza reciproca o di agenti o membri dell'uno o dell'altro nella propria costituzione, funzionamento o amministrazione (38).”

La Proposta di Direttiva sembra volta quindi ad assicurare una protezione orizzontale ai possibili partecipanti alle negoziazioni - oltre che da ritorsioni datoriali nell'ambito del rapporto di lavoro - da possibili interferenze ed ostacoli posti dalle altre organizzazioni sindacali ed associazioni datoriali per minare la reciproca partecipazione alle trattative. Ciò con l'evidente scopo di assicurare la genuinità delle negoziazioni anche grazie alla correttezza dei comportamenti tra players da uno stesso lato e da lati opposti del tavolo. Si tratterebbe di una novità nella disciplina dei diritti sindacali in ambito UE, pur dovendosi osservare che la genericità della formulazione potrebbe richiedere l'interpretazione giurisprudenziale - in primis della Corte di Giustizia - al fine di individuarne il portato concreto.

Complessivamente sembra tuttavia potersi dire che il primo comma dell'art. 4 getta una nuova luce sull'interpretazione della libertà di associazione sindacale nell'ambito del diritto dell'Unione, tenuto conto che le pronunce in tale materia da parte della Corte di Giustizia hanno sinora mostrato una quantomeno tiepida considerazione di tali aspetti in rapporto ad altri interessi considerati preminenti per la tutela del mercato e della concorrenza (39). Ciò a differenza della crescente attenzione riservata negli ultimi anni dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo alla tutela della libertà di associazione sindacale nelle sue diverse sfaccettature tra cui, quale elemento essenziale, la libertà di contrattazione collettiva (40).

Può comunque rilevarsi che mentre in sede di negoziazioni interistituzionali si è raggiunto l'accordo sulla proposta del Parlamento Europeo circa una maggior tutela dei lavoratori che esercitano il diritto di negoziazione collettiva e si è ampliata la portata del primo comma dell'art. 4, non è invece stata presa in considerazione la possibilità di riconoscere un'estensione automatica dei contratti collettivi per renderli vincolanti nei confronti di tutti i lavoratori del medesimo settore, ipotesi che alcuni promuovevano evidenziando come in alcuni Stati Membri tale strumento, per quanto controverso, si fosse rivelato efficace (41).

Il secondo comma dell'art. 4 individua invece l'impegno per gli Stati Membri in cui la copertura della contrattazione collettiva sia inferiore all'80% a prevedere un piano di azione per la promozione della contrattazione collettiva, dopo la consultazione con le parti sociali, oppure mediante accordo con le stesse, o ancora - ove da queste richiesto congiuntamente - sulla base di un accordo raggiunto tra le stesse. Come già osservato, ritenere che tale disposizione non produrrebbe alcun impatto in Italia, visto l'elevato grado di copertura della contrattazione collettiva, equivarrebbe a non considerare l'ampio spettro applicativo della Proposta di Direttiva e l'obiettivo che essa si propone: promuovere il più ampio accesso effettivo al salario minimo. In tale ottica deve quindi essere letta la definizione di “copertura della contrattazione collettiva”, nella sua formulazione modificata dall'accordo interistituzionale: “la percentuale di lavoratori a livello nazionale a cui si applica un contratto collettivo, calcolata come il rapporto tra il numero di lavoratori coperti dai contratti collettivi e il numero di lavoratori le cui condizioni di lavoro possono essere regolate dai contratti collettivi ai sensi del diritto e delle prassi nazionali (42)”.

Se è vero, dunque, che nel nostro Paese il problema dei salari inferiori al minimo può essere posto in relazione all'alto tasso di irregolarità dei rapporti di lavoro - mediante fenomeni che comportano di per sé la violazione di disposizioni di fonte legale - e all' inefficiente azione di vigilanza pubblica (43) può essere forse utile interrogarsi su come il piano di azione, con il coinvolgimento delle parti sociali, possa essere strutturato anche in modo da contrastare efficacemente tali fenomeni. Allo stesso tempo la promozione della negoziazione collettiva dovrebbe avere riguardo di tutte le forme di lavoro diverse da quelle già oggetto di tutela che non siano “autenticamente autonome”: anche in quest'ottica ci si potrebbe chiedere se l'attuale prospettiva rimediale in cui si colloca la tutela per quella “zona grigia tra autonomia e subordinazione” (44) rappresentata dall'etero-organizzazione, per il tramite dell'art. 2 d.lgs. n. 81/2015, sia uno strumento sufficiente per assicurare il raggiungimento dello scopo della Proposta di Direttiva di accesso effettivo al salario minimo.

Gli Stati Membri hanno dunque la libertà di scegliere la forma più appropriata per il proprio piano di azione, adeguandolo alle concrete esigenze del proprio ordinamento e mercato del lavoro, purchè esso preveda un calendario chiaro e misure concrete, e sia rivisto - e se necessario aggiornato - ogni cinque anni con le stesse modalità per le quali è prevista la sua adozione.

Le disposizioni degli artt. 5 a 9 sono invece dirette unicamente agli Stati che adottano salari minimi legali, ai quali - va precisato - non sono assimilabili i salari minimi previsti da contratti collettivi universalmente applicabili in assenza di alcuna discrezionalità da parte delle autorità sul contenuto delle loro disposizioni.

Pur rimanendo al momento tali disposizioni estranee al nostro ordinamento, il loro esame può assumere significato in relazione alle proposte legislative presentate nella scorsa legislatura in tema di salario minimo e alla discussione che ne è scaturita (45). La Proposta di Direttiva non determina e non prevede l'obbligo di determinare una soglia minima, introducendo solo l'obbligo - per quegli Stati che intendono determinarla - di farlo secondo dei criteri da stabilirsi anteriormente, che contribuiscano a perseguire l'adeguatezza della retribuzione. La Proposta di Direttiva permette altresì agli Stati Membri di individuare autonomamente tali criteri ed il relativo peso, tenendo conto della specificità della propria situazione socio-economica, purchè la fissazione venga fatta in maniera chiara ed aggiornata, previo confronto con le parti sociali. La Proposta di Direttiva impone tuttavia di considerare alcuni elementi quali il potere di acquisto dei salari minimi legali, tenuto conto del costo della vita, il livello generale dei salari e la loro distribuzione, il tasso di crescita dei salari, e i livelli e gli sviluppi della produttività nazionale a lungo termine. Agli Stati Membri è inoltre imposto di utilizzare valori di riferimento di adeguatezza indicativi, ad esempio (ma non obbligatoriamente) quelli utilizzati a livello internazionale come il 60% del salario lordo mediano, o il 50% del salario medio e/o altri valori di riferimento usati a livello nazionale.

Il salario minimo è infatti considerato adeguato dalla Proposta di Direttiva se equo in relazione alla distribuzione dei salari nello Stato Membro e se permette delle condizioni di vita dignitose ai lavoratori sulla base di un rapporto di lavoro a tempo pieno (46). Tra gli altri strumenti per valutare l'adeguatezza è suggerita l'utilizzazione di un paniere di beni a prezzi reali stabilito a livello nazionale per individuare il raggiungimento di condizioni di vita dignitose. Oltre a beni materiali come cibo, vestiti, abitazione dovrebbero essere considerati anche la partecipazione ad attività culturali educative e sociali (47).

L'attenzione è dunque posta non sulla quantificazione del salario minimo di per sé, ma sul procedimento per valutarne l'adeguatezza (48), che deve passare anche per la designazione o costituzione di uno o più organi consultivi su questioni relative al salario minimo legale e alla sua operatività in concreto, e dal coinvolgimento tempestivo ed effettivo delle parti sociali (che possono essere chiamate a comporre i suddetti organi consultivi).

Nell'ambito delle “disposizioni orizzontali” gli artt. 10 e 11 mirano ad assicurare effettività agli impegni previsti dalla Proposta di Direttiva attraverso un sistema di monitoraggio affidabile ed obblighi informativi. La raccolta dei dati, considerata passaggio essenziale, può basarsi su sondaggi a campione sufficientemente rappresentativi, banche dati nazionali, dati armonizzati nell'Unione Europea raccolti da Eurostat e altre fonti pubblicamente accessibili come i dati dell' OECD. Possono essere utilizzate stime nei casi eccezionali in cui non siano disponibili dati accurati, ma non possono essere imposti oneri amministrativi non necessari alle piccole e medie imprese o microimprese.

I dati da comunicare alla Commissione periodicamente riguardano - per tutti gli Stati Membri - la copertura e lo sviluppo della contrattazione collettiva. Per i soli Stati Membri che adottano il salario minimo legale sono da comunicare anche il livello di salario minimo e la percentuale di lavoratori coperti da questo, nonché una descrizione delle variazioni e deduzioni esistenti, della ragione per la loro introduzione e la percentuale di lavoratori da queste interessati (nei limiti in cui i dati siano disponibili). Per gli Stati Membri in cui la tutela del salario minimo è prevista solo mediante contratti collettivi vanno resi noti invece i minimi retributivi fissati dai contratti collettivi che riguardano i lavoratori a basso salario, unitamente alla quota di lavoratori interessati, o una stima di tali dati se quelli accurati non fossero disponibili. Gli stessi Stati Membri devono inoltre comunicare il livello di retribuzione dei lavoratori non coperti dai contratti collettivi e il loro rapporto rispetto ai lavoratori coperti dai contratti collettivi.

Tali dati verranno poi esaminati dalla Commissione (insieme ai dati comunicati relativi al piano di azione), la quale ogni due anni dovrà pubblicarli e comunicarli al Parlamento Europeo e al Consiglio.

Le previsioni in esame sono quindi espressione dell'esigenza, anche per quanto concerne i dati aggregati, di garantire trasparenza, chiarezza e prevedibilità circa le condizioni retributive minime in essere negli Stati Membri, al fine di facilitare il processo decisionale per la determinazione dei criteri nella fissazione di salari minimi legali o le negoziazioni in sede di contrattazione collettiva. D'altronde i medesimi principi, applicati alle informazioni da fornire nel rapporto di lavoro individuale, sono posti a fondamento della direttiva 2019/11523 del 20 giugno 2019, relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell'Unione Europea. Ciò evidenzia ancora una volta la tendenza del legislatore europeo ad incidere, più che su specifici diritti, sugli aspetti procedurali e garanzie esterne al rapporto di lavoro, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità per garantire il miglioramento delle condizioni di lavoro, contestualmente imponendo agli Stati Membri scelte più consapevoli, mettendo i lavoratori nella posizione di verificare più facilmente se le condizioni del proprio rapporto siano in linea con i principi del diritto dell'Unione, e dando ai cittadini la possibilità di esaminare le scelte legislative alla luce di dati concreti ed informazioni chiare.

Si noti che le disposizioni sul monitoraggio, unitamente a quelle sul piano di azione (per gli Stati Membri con copertura della contrattazione collettiva inferiore all'80%) appaiono tra le più dettagliate della Proposta di Direttiva tra quelle di generale applicazione. Difatti può rilevarsi che la Proposta di Direttiva non prevede esiti precisi - in termini quantitativi - entro un calendario prefissato, nè sotto il profilo dell'adeguatezza dei salari minimi nè della percentuale di copertura della contrattazione collettiva (49): gli impegni previsti si configurano così più come obbligazioni di mezzi che di risultati.

Nello stesso senso sembra potersi leggere l'art. 12 della Proposta di Direttiva relativo al diritto di difesa dei lavoratori (e dei membri dei sindacati e rappresentanti sindacali) in caso di violazione dei loro diritti alla tutela garantita dal salario minimo prevista dalla legge o dai contratti collettivi, che deve permettere la risoluzione efficace, tempestiva ed imparziale delle controversie.

A tal riguardo può osservarsi che recentemente lo stesso legislatore europeo, nella Direttiva 2019/11523, ha richiamato i risultati della consultazione pubblica sul Pilastro Europeo dei Diritti Sociali (50) in cui è stata evidenziata l'esigenza di rafforzamento nell'applicazione della legislazione dell'Unione in materia di lavoro per garantirne l'efficacia, sottolineando che “ i sistemi di ricorso basati unicamente sulle domande di risarcimento del danno sono meno efficaci di quelli che prevedono anche sanzioni, come gli importi forfettari o la perdita delle licenze, per i datori di lavoro che non rilasciano le dichiarazioni scritte. È inoltre emerso che i lavoratori raramente presentano ricorso durante il rapporto di lavoro e ciò compromette l'obiettivo di fornire la dichiarazione scritta, che è garantire che i lavoratori siano informati sugli elementi essenziali del rapporto di lavoro. È pertanto necessario introdurre disposizioni relative all'applicazione che garantiscano l'uso di presunzioni favorevoli (...)”. Sulla base di tali rilievi gli articoli 16-18 della Direttiva 2019/11523 hanno previsto una disciplina sul diritto ad un ricorso effettivo da parte del lavoratore, e sulla protezione dello stesso da ritorsioni nel caso di esercizio del diritto di difesa, in senso analogo a quella in esame nella presente Proposta di Direttiva.

La necessità, che vale anche per la Proposta di Direttiva, di non limitare la tutela dell'effettività del salario minimo alla possibilità di agire in via giudiziale, fa inoltre apparire essenziale un efficiente sistema di vigilanza e sanzionatorio, certamente allo stato migliorabile in Italia (51).

Conclusioni: cosa ci chiede l'Europa?

Considerati gli obiettivi della Proposta di Direttiva e degli strumenti da adottare per il loro perseguimento è lecito pensare che la sfida posta dal legislatore europeo al nostro Paese riguardi principalmente il miglioramento della copertura della contrattazione collettiva reale, tenendo in considerazione la nozione di “lavoratore” elaborata dalla Corte di Giustizia. Tuttavia, occorre prendere atto del fatto che tale definizione giurisprudenziale, originariamente elaborata con riferimento all'utilizzo del termine nell'art. 45 TFUE in tema di libera circolazione dei lavorator (52), si è evoluta sulla base di un approccio di tipo essenzialmente casistico, di pari passo con il progressivo riconoscimento delle finalità non solo economiche ma anche sociali dell'Unione Europea, e tenuto conto delle finalità della disciplina applicabile di volta in volta rilevanti.

È stato anche osservato che alcuni atti di legislazione secondaria dell'Unione rimandano la definizione di lavoratore alla disciplina nazionale, facendo così sorgere il dubbio circa l'esistenza di un'autonoma nozione europea di lavoratore (53). Tale dubbio appare dissipato dalla stessa Corte di Giustizia, che ha precisato che la natura giuridica di un rapporto di lavoro in base al diritto nazionale non incide sulla definizione di lavoratore ai fini del diritto dell'Unione (54). Tanto più che le recenti direttive adottate in materia lavoristica, quali la già citata direttiva 2019/1152 circa la trasparenza delle condizioni di lavoro e la direttiva 2019/1158 sull'equilibrio tra vita e lavoro, così come la Proposta di Direttiva in esame, invocano espressamente l'interpretazione armonizzatrice della Corte di Giustizia della nozione di lavoratore, facendo inoltre riferimento alla possibilità di inclusione di forme di lavoro “atipiche” qualora soddisfino i criteri elaborati in via giurisprudenziale. Permane però ad oggi la difficoltà di individuare con certezza i contorni della nozione europea di lavoratore, in ragione della frammentarietà degli elementi di volta in volta valorizzati dalla Corte di Giustizia in relazione al caso concreto e al settore di applicazione (55), fermo restando che “è necessario fondarsi su criteri obiettivi e valutare nel loro complesso tutte le circostanze del caso di cui è investito, riguardanti la natura sia delle attività interessate sia del rapporto tra le parti in causa” (56).

È stato pure sottolineato che la distinzione tra “falsi lavoratori autonomi”, ai quali è applicabile la disciplina europea del lavoro, e lavoratori veramente autonomi, rileva anche ai fini del diritto della concorrenza. I lavoratori autonomi, infatti, sono considerati come imprese a cui si applica l'art. 101 TFUE: dunque i contratti collettivi che ne regolano i rapporti sono vietati, perché considerati restrittivi della concorrenza al pari dei cartelli (57). Proprio sulla scorta di tale considerazione, alcuni hanno rilevato che le finalità dell'Unione in campo sociale dovrebbero portare a ritenere esenti da tale disposizione limitativa i contratti collettivi riguardanti lavoratori autonomi “vulnerabili” (quali ad esempio i lavoratori su piattaforma, ove non considerati dipendenti) (58). È stato proposto dunque di adottare una nozione estesa di “lavoratore” che permetta di estendere a tali soggetti vulnerabili la disciplina lavoristica di matrice europea, sulla base di elementi che essenzialmente ne valorizzino la dipendenza economica e la personalità della prestazione (59), esimendoli così dalle limitazioni poste alle imprese. Tale approccio però non è ancora stato mai utilizzato dalla Corte di Giustizia, dunque, anche alla luce della Proposta di Direttiva, esistono attualmente degli operatori nel mercato del lavoro per i quali può essere difficile capire se la contrattazione collettiva debba essere promossa e facilitata, ovvero se essa debba essere sottoposta alle limitazioni di cui all'art. 101 TFUE.

Un'ulteriore questione che potrebbe accompagnare la definitiva approvazione della Proposta di Direttiva riguarda le conseguenze che la definizione di “salario minimo” ai sensi dell'art. 3 (60) potrebbe avere sulla nozione di retribuzione sufficiente e proporzionata di cui all'art. 36 Cost. La valutazione d'impatto della Proposta di Direttiva evidenzia che, sulla base delle informazioni disponibili, potrebbero esservi problemi di adeguatezza di alcuni salari minimi in Italia, pur considerata la difficoltà di raccolta di dati aggregati sui salari minimi previsti dai contratti collettivi, anche tenuto conto della sensibilità della valutazione sull'adeguatezza rispetto al metodo di campionamento dei contratti collettivi più rappresentativi (61).

In dottrina è stata suggerita l'opportunità di rimeditare il raccordo tra salario minimo contrattuale e salario costituzionalmente adeguato (62) alla luce della nuova regolamentazione, il che potrebbe portare ad utilizzare come parametro per l'adeguamento della retribuzione in sede giudiziale l'intero trattamento retributivo previsto dalla contrattazione collettiva del settore corrispondente all'attività svolta. Ciò rappresenterebbe indirettamente un primo passo nel senso auspicato da chi propone, come strumento per restituire centralità alla contrattazione collettiva, una perimetrazione delle categorie contrattuali e l'adozione del criterio della coerenza tra categoria e contratto (63) (adempimento in ogni caso non richiesto dalla Proposta di Direttiva).

In conclusione, il timore del legislatore europeo di interferire con la discrezionalità degli Stati Membri in materia di regole sulla fissazione della retribuzione ha prodotto disposizioni che lasciano senz'altro spazio ad interrogativi circa l'impatto del nuovo quadro regolatorio. Tuttavia, non può non apprezzarsi lo slancio dell'Europa nel tentare di risvegliare l'attenzione dei legislatori europei sulla necessità di intraprendere azioni concrete per ridurre la povertà lavorativa ed assicurare la dignità delle condizioni di lavoro nell'Unione, a vantaggio anche di sane dinamiche concorrenziali nel mercato unico. Un simile slancio può essere dettato dall'aver riconosciuto che “Se coloro che lavorano a tempo pieno nel mercato del lavoro europeo non riescono a vivere in condizioni dignitose e fronteggiano la povertà, il progetto dell'Unione Europea fallisce da un punto di vista costituzionale, giuridico, politico ed economico. Se le dinamiche di un mercato, di un'economia e di una valuta comune nascondono disuguaglianze nell'ambito e tra gli Stati Membri, intrappolando alcuni in circoli viziosi di bassa qualità del lavoro, della vita e della società, il progetto dell'Unione Europea fallisce" (64).

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