Il servizio di guardia in regime di reperibilità torna al vaglio della corte di giustizia UE, tra orario di lavoro e periodo di riposo

Ilaria Dal Lago
16 Settembre 2022

Un periodo di guardia in regime di reperibilità costituisce “orario di lavoro” ai sensi dell'art. 2, punto 1, direttiva 2003/88/CE soltanto quando - da una valutazione complessiva delle circostanze concrete - emergano vincoli tali da incidere obiettivamente e in maniera molto significativa sulla facoltà del lavoratore di gestire liberamente il tempo durante tale periodo.
Il caso

La pronuncia in esame trae origine dal rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE promosso dal Labour Court, Tribunale del lavoro irlandese, giudice d'appello nella controversia intentata da MG contro il Consiglio Comunale di Dublino.

Le circostanze fattuali emerse nel giudizio a quo possono essere così sintetizzate: il ricorrente risulta impiegato a tempo parziale come vigile del fuoco discontinuo; è previsto un sistema di guardia in regime di reperibilità 7 giorni su 7 e 24 ore su 24, in ragione del quale egli rimane a disposizione della brigata della propria caserma, con l'obbligo di partecipare al 75% degli interventi e con indicazione di arrivo presso la caserma entro dieci minuti dalla convocazione di emergenza; durante tale periodo di guardia è consentito lo svolgimento di altra attività professionale autonoma o dipendente entro le 48 ore settimanali.

Il ricorso del lavoratore avanti il giudice nazionale di primo e secondo grado è teso ad ottenere il riconoscimento di tale periodo di guardia in regime di reperibilità come “orario di lavoro”; una simile qualificazione porterebbe con sé la condanna del Consiglio Comunale di Dublino per violazione della normativa in materia di riposo giornaliero e settimanale nonché di durata massima della settimana lavorativa.

Ai fini della decisione del caso, il Tribunale del lavoro irlandese ha ritenuto dirimente l'esame sulla corretta nozione di “orario di lavoro” di cui all'art. 2, punto 1, della direttiva 2003/88/CE. Da qui, la sospensione del procedimento principale e la richiesta interpretativa rivolta alla Corte lussemburghese.

La questione

L'esigenza del giudice irlandese di fornire una qualificazione del periodo di guardia in regime di reperibilità in linea con la disciplina europea in materia di organizzazione dell'orario di lavoro offre alla Corte di Giustizia UE l'occasione per tornare ad esercitare la sua funzione ermeneutica in relazione alle nozioni assai generiche di “orario di lavoro” e di “periodo di riposo” di cui all'art. 2 della direttiva 2003/88/CE, conferendo alle stesse un'accezione più pratica e funzionale allo specifico quesito posto dal giudice del rinvio.

Invero, l'esigenza di colmare le lacune o comunque le generiche formulazioni che caratterizzano il diritto sociale dell'UE sembra spingere la Corte verso pronunce interpretative fortemente calate nel giudizio a quo, sostanzialmente già risolutive della controversia principale, il cui dominio dovrebbe pur sempre rimanere in capo al giudice nazionale.

Anche nel caso in esame la Corte considera specifiche circostanze fattuali del giudizio di rinvio (quali l'obbligo di rispondere ad una convocazione con termine di arrivo massimo di dieci minuti e la possibilità di svolgere durante il periodo di guardia altra attività di lavoro autonoma o dipendente) per ampliare e concretizzare un principio già espresso in occasione di precedenti rinvii pregiudiziali.

In altre parole, i giudici europei non si limitano ad affermare che nella nozione di “orario di lavoro” devono essere ricondotti tutti quei periodi di guardia in cui la libertà di azione del lavoratore risulti eccessivamente compressa, ma indicano di volta in volta – a seconda delle peculiarità del procedimento nazionale – i concreti elementi fattuali da valorizzare per stabilire se vi sia o meno tale compressione.

La stessa Corte, tuttavia, pone un limite invalicabile ai confini della propria pronuncia, dato dall'effettiva rilevanza della questione di pregiudizialità nell'ambito del giudizio di rinvio. Proprio al fine di evitare interpretazioni del diritto UE riferite a situazioni di fatto soltanto ipotizzate dal giudice nazionale, la Corte, nella pronuncia in esame, dichiara l'irricevibilità di due delle quattro questioni pregiudiziali, in quanto formulate dal Tribunale irlandese in relazione ad un contesto fattuale del tutto ipotetico.

Il quadro normativo e le soluzioni giurisprudenziali

Il giudice irlandese, per poter qualificare correttamente il periodo di guardia in regime di reperibilità portato alla sua attenzione, ritiene determinante l'interpretazione della nozione di “orario di lavoro”.

A livello europeo, nonostante la direttiva 93/104/CE concernente taluni aspetti dell'orario di lavoro sia stata abrogata e sostituita dalla successiva direttiva 2003/88/CE, la definizione di “orario di lavoro” è rimasta invariata, continuando a fare genericamente riferimento a “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali” (art. 2 direttive 93/104/CE e 2003/88/CE). La nozione di “periodo di riposo” viene invece individuata a contrario, trattandosi di “qualsiasi periodo che non rientra nell'orario di lavoro”.

Definizioni più dettagliate non si possono rinvenire nella legislazione irlandese, tradizionalmente limitata in un sistema di diritto non codificato. L'atto normativo di riferimento è l'Organisation of Working Time Act del 1997, di trasposizione della direttiva 93/104/CE, in cui la nozione di “orario di lavoro” ricalca sostanzialmente l'ampia e generica definizione europea, trattandosi del “periodo durante il quale il lavoratore: a) è sul posto di lavoro o a disposizione del datore di lavoro, e b) svolge o esegue attività o mansioni del proprio lavoro” (art. 2, paragrafo 1, Organisation of Working Time Act).

Sul rapporto tra periodo di guardia ed il binomio orario di lavoro/riposo la Corte di Giustizia UE ha già avuto modo di esprimersi in plurime occasioni, stante l'assenza a livello europeo di un'espressa definizione di “periodo di guardia” e la nozione assai generica di “orario di lavoro”.

I casi da cui originano i rinvii pregiudiziali alla Corte, accanto a specifiche peculiarità fattuali, presentano degli elementi ricorrenti: le figure maggiormente coinvolte sono quelle di medico e vigile del fuoco, trattandosi di professioni chiamate a gestire situazioni emergenziali, costrette a ricorrere alla particolare modalità organizzativa del periodo di guardia, anche in regime di reperibilità; è solitamente previsto un termine massimo per rispondere ad un'eventuale chiamata; spesso vengono fornite direttive sul luogo in cui il lavoratore è tenuto a trascorrere il periodo di guardia, nonché indicazioni in merito alle eventuali ulteriori attività lavorative il cui svolgimento è consentito durante tale periodo.

Proprio le analogie e le specificità dei casi oggetto dei rinvii pregiudiziali consentono un'agevole confronto tra le pronunce della Corte di Giustizia UE, che nel corso dei decenni ha fatto registrare un'evoluzione nell'interpretazione del concetto di “orario di lavoro”, sempre più tesa ad assicurare l'effettività degli impegni assunti in materia di sicurezza e salute dei lavoratori.

La giurisprudenza europea in materia di qualificazione del periodo di guardia viene inaugurata dalla sentenza resa dalla Curia il 3 ottobre 2000 nel procedimento C-303/98 (c.d. sentenza SIMAP).

Nel valutare la riconducibilità o meno nella nozione di “orario di lavoro” del servizio di guardia svolto da un gruppo di medici spagnoli, la Corte individua quale criterio discretivo quello del luogo in cui i lavoratori sono tenuti a trascorrere tale periodo di prontezza.

Distinguendo tra servizio di guardia in regime di presenza fisica nei centri sanitari e servizio di guardia in regime di reperibilità (pertanto, senza obbligo di presenza nel luogo di lavoro), solo il primo viene qualificato dai giudici europei come “orario di lavoro”, trovandosi il medico al lavoro e a disposizione del datore di lavoro (cfr. art. 2 direttiva 93/104) e non potendo gestire liberamente il proprio tempo durante tale periodo, dovendo assicurare la propria presenza fisica presso la struttura sanitaria.

In altre parole, il tempo libero del lavoratore durante il periodo di guardia risulta compresso in misura tale da poter essere considerato “orario di lavoro” solo nell'ipotesi in cui sussista l'obbligo di permanenza presso il luogo di lavoro.

L'interpretazione dell'art. 2 della direttiva 93/104 di cui alla sentenza SIMAP trova conferma e consolidamento nelle successive pronunce Jaeger (9 settembre 2003, C-151/02) e Dellas (1° dicembre 2005, C- 14/04).

Segnatamente, nella causa C-151/02 la Corte torna a pronunciarsi su questioni di pregiudizialità originate da una controversia relativa alla definizione delle nozioni di “orario di lavoro” e di “periodo di riposo” ai sensi della direttiva 93/104 nell'ambito del servizio di guardia prestato da un medico tedesco in ospedale. I giudici europei affermano, in modo ancor più esplicito, che “il fattore determinante per ritenere che gli elementi caratteristici della ‘nozione di lavoro', ai sensi della direttiva 93/104, sono presenti nei periodi di servizio di guardia che i medici effettuano nell'ospedale stesso è il fatto che essi sono obbligati a essere fisicamente presenti nel luogo indicato dal datore di lavoro e a tenervisi a disposizione di quest'ultimo per poter fornire immediatamente la loro opera in caso di necessità” (punto n. 63 sentenza Jaeger).

Tale posizione viene ribadita dalla Corte di Giustizia UE nella causa C-14/04, in relazione ai periodi di sorveglianza notturna effettuati nei locali di guardia da un rieducatore specializzato francese.

Nel 2018 il caso di un lavoratore belga, Rudy Matzak, offre alla Corte la possibilità di rivedere in senso maggiormente estensivo la nozione di “orario di lavoro”, ricomprendendovi non solo il periodo di guardia con obbligo di presenza presso il luogo di lavoro, ma anche tutte quelle ore di servizio di guardia in cui il luogo di permanenza, pur diverso dalla sede di lavoro, risulta sostanzialmente determinato dal datore di lavoro.

Nella pronuncia del 21 febbraio 2018, C-518/15, i giudici europei evidenziano l'elemento distintivo del caso Matzak rispetto alle cause che hanno dato origine alla precedente giurisprudenza SIMAP, Jaeger, Dellas: “Nel procedimento principale […] il sig. Ma. non doveva solo essere raggiungibile durante i servizi di guardia. Da un lato, egli era obbligato a rispondere alle convocazioni del datore di lavoro entro 8 minuti e, dall'altro, a essere fisicamente presente nel luogo stabilito dal datore di lavoro. Tuttavia, tale luogo era il domicilio del sig. Ma., e non […] il suo luogo di lavoro” (punto n. 61 sentenza Matzak).

Al fine di garantire la tutela della salute del lavoratore, finalità precipua della disciplina UE, la Corte prende atto del fatto che una significativa compressione del tempo libero non deriva soltanto dal fatto di dover permanere presso il luogo di lavoro, bensì l'obbligo di essere fisicamente presente nel luogo stabilito dal datore di lavoro nonché il vincolo derivante, da un punto di vista geografico e temporale, dalla necessità di raggiungere il luogo di lavoro entro otto minuti “sono di natura tale da limitare in modo oggettivo le possibilità di un lavoratore che si trovi nella condizione del sig. Ma. di dedicarsi ai propri interessi personali e sociali” (punto n. 63 sentenza Matzak). A fronte di simili limitazioni, il periodo di guarda dovrà essere qualificato come “orario di lavoro” ai sensi dell'art. 2 della direttiva 2003/88.

Con la sentenza resa nella causa C-518/15 la Corte inaugura una nuova stagione, per cui anche il servizio di guardia svolto in regime di reperibilità (e non solo in regime di presenza fisica presso la sede di lavoro) può rientrare nell'orario di lavoro a determinate condizioni.

Infatti, per stabilire se il periodo di guardia configuri o meno orario di lavoro non si guarda più soltanto all'obbligo di permanenza presso il luogo di lavoro, bensì alla complessiva limitazione del tempo libero del lavoratore, che in concreto può discendere da una pluralità di condizioni (e.g. termine di intervento molto breve, che di fatto limita gli spostamenti della persona), specificate ed esaminate dai giudici europei in occasione di successive pronunce.

Il riferimento è ai rinvii pregiudiziali delle cause C-344/19 e C-580/19, riguardanti i periodi di prontezza svolti in regime di reperibilità rispettivamente da un tecnico specializzato sloveno e da un pompiere tedesco. La Corte invita i giudici nazionali a considerare il carattere ragionevole o meno del termine di cui dispone il lavoratore per rispondere alla richiesta di intervento, valutando non solo gli ulteriori vincoli imposti, come l'obbligo di essere munito di uno specifico equipaggiamento, ma anche le facilitazioni concesse, come la messa a disposizione di un veicolo di servizio e speciali deroghe al codice della strada. Ulteriore elemento da considerare per verificare se un periodo di prontezza in regime di reperibilità debba essere qualificato come “orario di lavoro” è la frequenza media degli interventi realizzati da un lavoratore nel corso dei suoi periodi di guardia.

I criteri individuati dalla giurisprudenza europea per la qualificazione del periodo di guardia vengono estesi alla qualificazione della pausa con obbligo di reperibilità. Nella causa C-107/19, decisa con sentenza del 9 settembre 2021, la Curia conclude nel senso che la pausa concessa a un lavoratore durante il suo orario di lavoro giornaliero, nel corso della quale egli dev'essere a disposizione del proprio datore di lavoro per partire per un intervento entro due minuti in caso di necessità, costituisce orario di lavoro laddove, in concreto, ne derivi una significativa limitazione della sua facoltà di gestire il tempo libero.

Ebbene, il rinvio pregiudiziale oggetto del presente contributo, C-214/20 (sentenza CGUE dell'11 novembre 2021), viene affrontato dalla Corte di Giustizia UE sulla scorta dei principi enunciati nel caso Matzak, precisando, tuttavia, che la situazione che ha portato alla sentenza del 21 febbraio 2018 deve essere tenuta distinta da quella del procedimento nazionale irlandese “dal momento che il consiglio comunale di Dublino non esige che MG si trovi in un luogo determinato quando è di guardia e lo autorizza, inoltre, a svolgere un'attività lavorativa autonoma […] o a lavorare per un altro datore di lavoro” (punto n. 23 sentenza C-214/20).

Pur demandando al giudice del rinvio la valutazione di tutte le circostanze del caso di specie relative a termine massimo per rispondere alla richiesta di intervento e frequenza media degli interventi durante il periodo di guardia, la Corte pone l'accento sulla possibilità offerta al lavoratore irlandese di svolgere un'altra attività professionale durante i suoi periodi di guardia, ritenendo che, laddove ne sia garantito l'effettivo esercizio, costituisca “un'indicazione importante del fatto che le modalità del regime di reperibilità non assoggettano tale lavoratore a vincoli rilevanti aventi un impatto molto significativo sulla gestione del suo tempo” (punto n. 43 sentenza C-214/20).

Pertanto, con la pronuncia in esame, la Corte fornisce nuove ulteriori indicazioni per valutare se il tempo durante il periodo di guardia in regime di reperibilità debba dirsi significativamente limitato, tanto da dover essere qualificato come “orario di lavoro”.

Osservazioni

Le pronunce della Corte di Giustizia UE rese in punto di qualificazione del servizio di guardia come orario di lavoro piuttosto che come periodo di riposo, da ultimo la sentenza che ha definito il rinvio pregiudiziale nel caso irlandese C-214/20, offrono l'occasione per sviluppare riflessioni sotto plurimi profili.

In primo luogo, in tutte le sentenze citate la Corte ha cura di evidenziare, sin dalla ricostruzione del contesto normativo, la finalità precipua per cui si rende necessario e fondamentale procedere con la corretta qualificazione del c.d. periodo di prontezza: configurare il servizio di guardia come orario di lavoro o come periodo di riposo ha, infatti, ricadute immediate sul rispetto da parte del datore di lavoro della normativa europea dettata in materia di riposo giornaliero, riposo settimanale e durata massima settimanale del lavoro (rispettivamente artt. 3, 5, 6 della direttiva 2003/88).

Le pronunce della Corte, pertanto, risultano guidate dalla preoccupazione di garantire l'effettività della disciplina europea in materia di sicurezza e salute del lavoratore, come testimonia l'evoluzione della posizione dei giudici della Curia, che fa rilevare una tendenza estensiva nell'interpretazione della nozione di “orario di lavoro”. Non potrebbe essere diversamente, considerato che la direttiva 2003/88, e prima ancora la direttiva 93/104, applicate ed interpretate dalla Corte di Giustizia, non disciplinano l'organizzazione dell'orario di lavoro sotto tutti i profili, bensì si limitano a fornire “prescrizioni minime di sicurezza e salute in materia di organizzazione dell'orario di lavoro” (art. 1 direttiva 93/104 e direttiva 2003/88).

La Corte, pertanto, affronta la qualificazione del periodo di guardia come orario di lavoro solo in relazione alla tutela della salute del lavoratore, non anche sotto il profilo retributivo. Infatti, sebbene alcuni giudizi a quo abbiano ad oggetto la richiesta del lavoratore di retribuire come orario di lavoro il periodo di guardia in regime di reperibilità, i giudici europei ribadiscono che “è pacifico che la direttiva 2003/88 non disciplini la questione della retribuzione dei lavoratori, aspetto che esula, ai sensi dell'articolo 153, paragrafo 5, TFUE, dalla competenza dell'Unione”, aggiungendo, pertanto, che gli Stati membri non sono obbligati a determinare la retribuzione dei periodi di guardia in funzione della qualificazione di tali periodi come orario di lavoro o periodo di riposo (punti n. 49 e 52 della sentenza Matzak C-518/15).

Proprio l'esclusione dei temi retributivi dalle competenze dell'Unione Europea fornisce lo spunto per una seconda riflessione, volta a verificare lo status di avanzamento del diritto sociale europeo.

Per comprendere se e in che misura la materia sociale sia ricompresa nel novero delle competenze dell'Unione Europea, si rende necessario un breve excursus storico.

È noto che le primissime preoccupazioni della Fondazione CECA avevano carattere prettamente economico. Le disposizioni relative a questioni sociali e di lavoro erano poche e scarne nella formulazione, ridotte a mere enunciazioni di principio. Quanto poi al Trattato di Roma del 1957 istitutivo della Comunità Economica Europea, l'unica disposizione in materia sociale che vi si rinveniva era quella dell'attuale art. 119 TFUE, relativa alla parità retributiva uomo-donna, in realtà strettamente funzionale all'esigenza economica di evitare forme di dumping sociale con conseguente alterazione del corretto funzionamento del mercato.

Altro ostacolo allo sviluppo comunitario di politiche sociali era rappresentato dalla regola dell'unanimità nell'adozione degli atti normativi: infatti, a fronte del progressivo allargamento della Comunità, il veto divenne sempre più forte. Un importante passo in avanti si registrò nel 1987 con l'Atto Unico Europeo, che introdusse la maggioranza in luogo dell'unanimità in materia di salute, sicurezza e condizioni di lavoro e pose le basi del dialogo sociale europeo. A Maastricht nel 1992 si prese consapevolezza delle profonde diversità sussistenti tra le politiche sociali degli Stati membri, condizione che determinava una scarsa mobilità dei lavoratori, con conseguente ostacolo alla loro libera circolazione. Solo ad Amsterdam nel 1997 l'Accordo sulla Politica Sociale raggiunto nel 1992 venne integrato nel Trattato di Roma: la politica sociale confluì in un apposito Titolo (oggi Titolo X TFUE), con cui la Comunità europea divenne legittimata ad intervenire in tutti i temi del rapporto individuale di lavoro, con esclusione dei temi retributivi.

Sempre ad Amsterdam venne introdotto un Titolo dedicato alle politiche occupazionali (oggi Titolo IX TFUE). In tale settore l'armonizzazione legislativa avrebbe determinato un'inevitabile stallo; pertanto, il coordinamento delle politiche nazionali viene ancora oggi realizzato attraverso gli strumenti di c.d. soft law: seguendo linee guida e raccomandazioni provenienti dal livello UE, gli Stati adattano le loro politiche interne, rimanendo pur sempre competenti a deciderle.

La stagione di progressi UE in materia sociale ed occupazionale subisce un'importante battuta d'arresto nel 2007, con lo scoppio della crisi economico-finanziaria. È proprio in questi anni che anche la proposta di modifica della direttiva 2003/88, concernente taluni aspetti dell'orario di lavoro, si risolve in un nulla di fatto.

Ebbene, in ragione delle difficoltà di armonizzazione ed avvicinamento delle politiche sociali nazionali riscontrate nel corso dei decenni, lo strumento prescelto a livello europeo è stato quello della direttiva, che, vincolando solo negli obiettivi, lascia gli Stati membri sufficientemente liberi di fissare le misure atte a conseguirli.

Con specifico riferimento alle direttive 93/104 e 2003/88, in materia di orario di lavoro, la natura dello strumento normativo impiegato, nonché il timore di provocare stalli nella definizione di disposizioni comuni con previsioni eccessivamente dettagliate, hanno determinato un quadro di nozioni piuttosto generico e lacunoso. In particolare, il binomio di definizioni orario di lavoro/periodo di riposo, di cui all'art. 2 delle direttive citate, si è rivelato progressivamente inadeguato a soddisfare le nuove esigenze poste dall'evoluzione delle professioni.

Tale inadeguatezza è stata avvertita proprio con riferimento all'istituto oggetto del presente contributo, il c.d. periodo di prontezza. Invero, il ricorso al servizio di guardia, vuoi in regime di presenza fisica vuoi in regime di reperibilità, si è rivelato sempre più frequente e geograficamente diffuso, dato che risulta confermato dalla varietà di Paesi da cui hanno avuto origine i rinvii pregiudiziali dalla sentenza SIMAP alla sentenza oggetto dell'odierno commento (Spagna, Germania, Francia, Slovenia, Belgio, Irlanda).

Proprio in ragione della genericità delle nozioni di “orario di lavoro” e “periodo di riposo” di cui all'art. 2 delle direttive 93/104 e 2003/88, nel 2004 la Commissione ha trasmesso al Parlamento europeo e al Consiglio una proposta di direttiva di modifica della direttiva 2003/88/CE concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, che aveva, tra gli altri obiettivi, quello di “elaborare definizioni legislative relative al ‘servizio di guardia' e distinguere tra diversi tipi di servizio di guardia”.

Tuttavia, le istituzioni europee non sono riuscite a raggiungere un compromesso, nemmeno sul tempo di guardia, considerato altresì che la nozione proposta e oggetto di emendamenti non risultava allineata con la giurisprudenza SIMAP. Infatti, distinguendo nel servizio di guardia tra periodo attivo e periodo inattivo e prevedendo che solo il primo era da considerarsi orario di lavoro, la nozione oggetto della proposta di modifica costituiva una vera e propria retrocessione rispetto ai principi enunciati dalle sentenze della Corte di Giustizia circa la qualificazione del servizio di guardia come orario di lavoro.

A fronte del fallimento del comitato di conciliazione, nel 2009 la proposta di modifica si è definitivamente arrestata. Le lacune definitorie della direttiva 2003/88, pertanto, continuano ad essere colmate dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE.

L'emergenza pandemica, durante la quale si è accentuato il ricorso a forme lavorative prima infrequenti per molti Paesi europei, ha ricordato l'urgenza di una significativa ripresa della politica sociale europea.

È, infatti, evidente come le nuove sfide del mercato del lavoro, le nuove forme contrattuali, le nuove modalità di svolgimento della prestazione lavorativa - il pensiero corre al lavoro flessibile, al lavoro mediante piattaforme digitali, al lavoro agile – pongono inedite esigenze di sicurezza e tutela della salute del lavoratore (si pensi al c.d. diritto alla disconnessione), non lontane da quelle che la Corte di Giustizia UE sta cercando di garantire con le pronunce in punto di qualificazione del servizio di guardia.

Guida all'approfondimento

- Parere del Comitato economico e sociale europeo in merito alla Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio recante modifica della direttiva 2003/88/CE concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro COM (2004) 607 Def. – 2004/0209 (COD) 2, in GU C 267/16 del 27/10/2005;

- Parere della Commissione a norma dell'articolo 251, paragrafo 2, terzo comma, lettera c), del trattato CE sugli emendamenti del Parlamento europeo alla posizione comune del Consiglio relativa alla proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio recante modifica della direttiva 2003/88/CE concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, in https://eur-lex.europa.eu;

- Galleano S., Orario di lavoro e reperibilità del lavoratore, la grande sezione della Corte di giustizia del 9 marzo 2021 definisce l'ambito di applicazione della Direttiva 2003/88, 14/07/2021, in http://www.europeanrights.eu.