L'indennità di disoccupazione e la discriminazione delle collaboratrici domestiche

Antonio Maria Luna
Antonio Maria Luna
19 Settembre 2022

Realizza una discriminazione indiretta, a danno delle lavoratrici, la previsione legislativa che esclude le collaboratrici domestiche dal diritto di fruire dell'indennità di disoccupazione (e dall'obbligo di versare i relativi contributi), ferma la facoltà del giudice nazionale di valutare nel caso concreto se la disposizione “censurata” risponde a legittimi obbiettivi di politica sociale, se sia idonea al conseguimento degli stessi e se comunque non ecceda quanto necessario alla realizzazione degli obbiettivi (la discriminazione può tollerarsi, in pratica, solo nella misura in cui sia indispensabile per conseguire obbiettivi “superiori”), sembra proprio che la strada sia tracciata.
Il caso

L'ordinamento spagnolo contiene una legge generale sulla sicurezza sociale (approvata nel 2015) che prevede un regime generale assicurativo per i lavoratori subordinati e dei regimi speciali, tra cui quello per i collaboratori domestici.

Tra le assicurazioni vi è anche quella contro la disoccupazione, della quale beneficiano in generale i lavoratori subordinati a condizione che versino la relativa contribuzione.

I collaboratori domestici, invece, eccezionalmente, non fruiscono di tale assicurazione e, dunque, non versano i relativi contributi.

Altra speciale legge sulla disoccupazione stabilisce, quanto ai contributi, che questi devono essere versati da tutte le imprese e da tutti i lavoratori, iscritti al regime generale o ai regimi speciali che contemplino la tutela contro tale rischio.

Una collaboratrice domestica, regolarmente iscritta al sistema speciale di sicurezza sociale, chiede, di intesa con il suo datore di lavoro, alla Tesorería General de la Seguridad Social – cioè l'ente responsabile della gestione di funzioni comuni ai diversi enti di gestione della previdenza – di versare i contributi per la tutela contro la disoccupazione in modo da poter beneficiare delle corrispondenti prestazioni.

La risposta, ovviamente, è negativa, data la chiara esclusione dei collaboratori domestici dall'assicurazione contro la disoccupazione.

La lavoratrice propone ricorso al Tribunale amministrativo affermando che la disposizione della legge generale sulla sicurezza sociale, la quale esclude espressamente i lavoratori domestici dalla tutela contro la disoccupazione, dà luogo ad una discriminazione indiretta fondata sul sesso giacché la quasi totalità dei lavoratori di tale settore è costituita da donne. In sostanza, si duole del fatto che, a differenza della generalità dei lavoratori subordinati, le domestiche non possono beneficiare della tutela contro la disoccupazione.

L'azione mira dunque ad ottenere la disapplicazione della norma del diritto interno prospettando un contrasto con un principio cardine del diritto dell'Unione (come anche della nostra Costituzione), cioè quello del divieto di discriminazioni per ragioni, tra l'altro, di sesso.

L'art. 21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea (pubblicata in GUCE 2000/C 364/01 il 18 dicembre 2000), sancisce: “È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali”.

Il successivo art. 23, rubricato “Parità tra uomini e donne”, recita: “La parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione. Il principio della parità non osta al mantenimento o all'adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato”. Si ricorda che l'art. 6 del Trattato sull'Unione Europea, come modificato dal Trattato di Lisbona del 13.12.2007, ha conferito alla detta Carta dei Diritti Fondamentali lo stesso valore giuridico dei trattati.

Nel Trattato sull'Unione Europea, comunque, l'uguaglianza è indicata come valore fondativo di essa (art. 2) e tra i suoi scopi essenziali vi è la lotta contro l'esclusione sociale e le discriminazioni e la promozione della giustizia e della protezione sociali, nonché della parità tra uomini e donne (art. 3, comma 3).

Il giudice adito, essendo pacifica l'affermazione che la quasi totalità degli iscritti alla gestione speciale per collaboratori domestici appartiene al sesso femminile, ha dubitato della compatibilità del diritto nazionale con le norme europee in tema di divieti di discriminazione, ravvisando un'ipotesi di discriminazione indiretta quanto alle condizioni di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale. Ha quindi indicato le direttive n. 79/7 e n. 2006/54.

Si tratta di due direttive che hanno oggetti diversi pur essendo entrambe volte ad attuare il principio di non discriminazione.

La prima è la direttiva 79/7/CEE del Consiglio, del 19.12.1978, “relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale”.

Tale direttiva faceva seguito alla direttiva 76/207/CEE del Consiglio, del 9 febbraio 1976, “relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro”, poi abrogata, a decorrere dal 15 agosto 2009, dall'art. 34 della direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 54, del 5.7.2006.

L'art. 1, comma 3, della direttiva 76/207/CEE conteneva la “promessa” che sarebbe stata disciplinata anche l'attuazione del principio di non discriminazione in materia di sicurezza sociale, cosa appunto avvenuta con la direttiva 79/7/CEE.

Il secondo testo normativo indicato dal giudice spagnolo è, come detto, la direttiva 2006/54/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006 “riguardante l'attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego” che ha integralmente sostituito quella del 1976.

In pratica, i due “corpi” normativi attengono entrambi all'attuazione del principio di non discriminazione tra i sessi nell'ambito del mondo del lavoro, ma quella del 2006 concerne in sostanza i rapporti tra datori di lavoro e lavoratori, mentre quella del 1979 (tuttora vigente) concerne esclusivamente i regimi previdenziali ed in generale assicurativi pubblici.

Infatti, come espressamente enunciato al punto 1 dei “considerando” della direttiva 2006/54/CE, il nuovo testo in sostanza riunifica – con necessari aggiornamenti – le precedenti “sparse” discipline in materia di attuazione del principio di non discriminazione tra i sessi relative sia all'accesso al lavoro, alla formazione ed alla promozione professionali ed alle condizioni di lavoro, sia alla tutela previdenziale in senso lato privata (direttiva 86/378/CEE del Consiglio, del 24 luglio 1986), sia alla parità di trattamenti retributivi tra gli uomini e le donne (direttiva 75/117/CEE del Consiglio, del 10 febbraio 1975), sia ancora all'onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso (direttiva 97/80/CE del Consiglio, del 15 dicembre 1997).

Esula invece dal campo di disciplina della direttiva 2006/54 la materia dell'attuazione della non discriminazione nell'ambito della sicurezza sociale garantita dalla legge.

Il giudice spagnolo ha dubitato della compatibilità della disciplina nazionale che non consente ai lavoratori domestici di fruire dell'assicurazione contro la disoccupazione con le disposizioni dell'art. 4, paragrafo 1, della direttiva 79/7/CEE del Consiglio, nonché dell'art. 5, lett. b) e dell'art. 9, paragrafo 1, lettere e) e k), della direttiva 2006/54/CE.

L'art. 4, paragrafo 1, della direttiva 79/7/CEE stabilisce che:

1. Il principio della parità di trattamento implica l'assenza di qualsiasi discriminazione direttamente o indirettamente fondata sul sesso, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia, specificamente per quanto riguarda:

– il campo di applicazione dei regimi e le condizioni di ammissione ad essi,

– l'obbligo di versare i contributi e il calcolo degli stessi,

– il calcolo delle prestazioni, comprese le maggiorazioni da corrispondere per il coniuge e per le persone a carico, nonché le condizioni relative alla durata e al mantenimento del diritto alle prestazioni”.

L'art. 5 della direttiva 2006/54/CE impone il divieto di discriminazione nei regimi professionali di sicurezza sociale, nei quali, infatti, “è vietata qualsiasi discriminazione diretta o indiretta fondata sul sesso, specificamente per quanto riguarda:

a) il campo d'applicazione di tali regimi e relative condizioni d'accesso;

b) l'obbligo di versare i contributi e il calcolo degli stessi;

c) il calcolo delle prestazioni, comprese le maggiorazioni da corrispondere per il coniuge e per le persone a carico, nonché le condizioni relative alla durata e al mantenimento del diritto alle prestazioni”.

Il successivo art. 9, rubricato “Esempi di discriminazione” ed attinente pur sempre ai regimi professionali, alle lettere e) e k), della direttiva 2006/54/CE, qualifica come “disposizioni contrarie al principio della parità di trattamento”, tra l'altro, “quelle che si basano direttamente o indirettamente sul sesso per: […]

e) stabilire condizioni differenti per la concessione delle prestazioni o fornire queste ultime esclusivamente ai lavoratori di uno dei due sessi; […]

k) prevedere norme differenti o norme applicabili unicamente ai lavoratori di un solo sesso, salvo quanto previsto alle lettere h) e j) [fissare livelli diversi per prestazioni e contributi], per quanto riguarda la garanzia o il mantenimento del diritto a prestazioni differite nel caso in cui il lavoratore lasci il regime”.

Il giudice rimettente ha quindi chiesto, in primo luogo, di conoscere se le citate disposizioni della legislazione europea ostino alle disposizioni nazionali che escludono i collaboratori domestici dall'assicurazione contro la disoccupazione, e, in secondo luogo, nel caso di risposta affermativa, se la norma nazionale costituisca discriminazione vietata, in base alle definizioni offerte dall'articolo 9, della direttiva 2006/54, per il fatto che, in realtà, i destinatari quasi esclusivi della ridotta tutela previdenziale sono donne.

La soluzione fornita dalla Corte di giustizia

Risolte le questioni pregiudiziali e chiarito che la questione dell'applicabilità di una determinata fonte comunitaria attiene al merito della controversia e, salvo il caso in cui sia palesemente estranea all'oggetto della causa trattata dinanzi al giudice remittente, non conduce alla irricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale, la Corte pone in primo luogo in luce che mentre la direttiva 79/7 è applicabile al procedimento principale dinanzi al giudice spagnolo, quella 2006/54 non lo è, stante la diversa sfera in cui il legislatore europeo ha inteso intervenire per attuare il principio di parità di trattamento tra uomini e donne.

Come detto, infatti, la prima riguarda le garanzie legali di sicurezza sociale, mentre l'altra attiene in senso lato al rapporto di lavoro ivi compresi i c.d. regimi professionali di sicurezza sociale (art. 1, paragrafo 2, lett. c) della direttiva 2006/54).

Secondo l'espressa definizione contenuta alla lett. f) dell'art. 2, paragrafo 1, i regimi professionali di sicurezza sociale sono quelli “non regolati dalla direttiva 79/7/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale aventi lo scopo di fornire ai lavoratori, subordinati o autonomi, raggruppati nell'ambito di un'impresa o di un gruppo di imprese, di un ramo economico o di un settore professionale o interprofessionale, prestazioni destinate a integrare le prestazioni fornite dai regimi legali di sicurezza sociale o di sostituirsi ad esse, indipendentemente dal fatto che l'affiliazione a questi regimi sia obbligatoria o facoltativa”.

Poiché nella causa principale si faceva questione di versamento di contributi per l'assicurazione contro la disoccupazione disciplinata interamente dalla legge, la direttiva 2006/54 non trova applicazione.

Ciò posto, la Corte premette che la questione prospettata non concerne una discriminazione diretta poiché la norma che esclude i collaboratori domestici dall'assicurazione contro il rischio di disoccupazione non opera alcuna distinzione fondata sul sesso.

La Corte passa quindi ad esaminare se possa sussistere discriminazione indiretta.

In primo luogo, appare opportuno ricordare, in proposito, che, in generale, “sussiste una discriminazione quando si applicano norme diverse a situazioni comparabili oppure quando si applica la stessa norma a situazioni diverse”; che “il requisito della comparabilità delle situazioni non richiede che le situazioni siano identiche, ma soltanto che siano simili”; e che “La comparabilità delle situazioni deve essere valutata non da un punto di vista globale e astratto, bensì in modo specifico e concreto alla luce della totalità degli elementi che le caratterizzano, tenuto conto in particolare dell'oggetto e dello scopo della normativa nazionale che istituisce la distinzione di cui trattasi, nonché, eventualmente, dei principi e degli obiettivi del settore cui tale normativa nazionale appartiene” (punti 42, 44 e 45 della sentenza CGUE 12.12.2019 in causa C-450/18).

La direttiva 79/7 già distingue tra discriminazione diretta ed indiretta (art. 4, paragrafo 1: “Il principio della parità di trattamento implica l'assenza di qualsiasi discriminazione direttamente o indirettamente fondata sul sesso”), ma non reca la definizione che, invece, è contenuta nella direttiva 2006/54.

Secondo l'art. 2, paragrafo 1, di tale ultima direttiva, infatti, si ravvisa discriminazione diretta in una “situazione nella quale una persona è trattata meno favorevolmente in base al sesso di quanto un'altra persona sia, sia stata o sarebbe trattata in una situazione analoga”; mentre vi è discriminazione indiretta allorquando “una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso, rispetto a persone dell'altro sesso, a meno che detta disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”.

Un esempio di discriminazione diretta proprio nella materia dei regimi legali di sicurezza sociale è offerto dalla citata sentenza del 12.12.2019 che ha esaminato il caso di un uomo, titolare di una pensione di invalidità, che invocava a proprio favore il beneficio previsto da una disposizione della legge generale spagnola sulla sicurezza sociale che attribuisce alle donne il diritto di beneficiare di un aumento della pensione nell'ipotesi in cui abbiano avuto figli naturali o adottivi. La Corte, escluse ragioni giustificative, ha ravvisato in tale disposizione una discriminazione diretta a carico degli uomini.

Forse non è superfluo rammentare che ove il giudice ravvisi contrasto tra una disposizione interna ed il principio di non discriminazione, deve direttamente disapplicare la norma interna, salvo che dubiti dell'interpretazione del diritto europeo, nel quale caso può interpellare la Corte di Giustizia.

Ad esempio, la Corte Costituzionale (sentenza n. 111/2017), nel dichiarare inammissibile la questione sollevata dal Tribunale di Roma (in persona di chi scrive) in materia di età pensionabile diversa tra impiegati ed impiegate pubblici, ha ricordato che il principio di parità retributiva tra uomini e donne è principio fondante del mercato comune ed è uno degli scopi sociali della Comunità ed è quindi vincolante per i soggetti pubblici e privati. Esso ha efficacia diretta, per cui il giudice nazionale ha l'obbligo di non applicare la norma di diritto interno confliggente con il diritto europeo. La Corte ha perciò biasimato il giudice rimettente il quale “avrebbe dovuto non applicare le disposizioni in conflitto con il principio di parità di trattamento, previo ricorso, se del caso, al rinvio pregiudiziale, ove ritenuto necessario, al fine di interrogare la medesima Corte di giustizia sulla corretta interpretazione delle pertinenti disposizioni del diritto dell'Unione e, quindi, dirimere eventuali residui dubbi in ordine all'esistenza del conflitto”. In sostanza, l'art. 157 del TFUE, che impone di assicurare “l'applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore”, essendo “direttamente applicabile dal giudice nazionale, lo vincola all'osservanza del diritto europeo, rendendo inapplicabile nel giudizio principale la normativa censurata e, perciò, irrilevanti tutte le questioni sollevate”.

Come si dirà, invece, esempio di discriminazione indiretta è quello ravvisato dalla Corte nella sentenza che qui si annota.

Per stabilire se, nell'ambito dei regimi legali di sicurezza sociale, vi sia tal genere di discriminazione – rammenta la Corte di Giustizia (punto 40 della sentenza in commento) – occorre fare riferimento alla relativa nozione sopra detta contenuta nella direttiva 2006/54.

Poiché la norma non opera formali distinzioni basate sul sesso, la discriminazione può risultare dalla sua concreta operatività nella misura in cui, cioè, essa si traduce in un trattamento di fatto deteriore per l'uno o l'altro sesso.

L'interprete, quindi, non può limitarsi a “leggere” le norme dell'ordinamento nazionale, ma deve coordinarle con dati statistici relativi agli effetti della loro applicazione, così da valutare se da esse derivi uno svantaggio per le persone appartenenti ad un determinato sesso (cfr. considerando 30 della direttiva 2006/54). Inoltre, lo svantaggio eventualmente riscontrato deve apparire in misura significativamente maggiore per le persone appartenenti ad un sesso rispetto a quelle appartenenti all'altro.

Secondo le indicazioni della Corte di Giustizia, il giudice nazionale che disponga di dati statistici, “deve, da un lato, prendere in considerazione l'insieme dei lavoratori assoggettati alla normativa nazionale da cui ha origine la disparità di trattamento e, dall'altro, comparare le proporzioni rispettive dei lavoratori che sono e che non sono colpiti dall'asserita disparità di trattamento nell'ambito della mano d'opera femminile rientrante nel campo di applicazione di tale normativa e le medesime proporzioni nell'ambito della mano d'opera maschile ivi rientrante” (punto 42 della sentenza in commento).

In pratica, occorre individuare quali siano le percentuali di lavoratori e lavoratrici rispetto al totale degli iscritti all'assicurazione previdenziale generale ed indi porle a raffronto con le percentuali di collaboratori domestici e di collaboratrici domestiche rispetto al totale degli iscritti al regime speciale di tal genere di lavoratori. Se i dati sono affidabili (non vi sarebbe motivo di dubitare se, ad esempio, provengono da istituto centrale di statistica o se si tratta dei dati elaborati dal medesimo ente previdenziale pubblico), si può valutare se lo scostamento tra le due coppie di percentuali sia anomalo o meno.

Nel caso concreto sottoposto alla Corte, i dati sono apparsi decisamente anomali: mentre la generalità dei lavoratori sono donne nella misura del 48,96% e uomini in quella del 51,04%, tra gli iscritti alla gestione speciale dei collaboratori domestici ben il 95,53% sono donne e solo il 4,47% sono uomini.

Se il giudice nazionale verifica che i dati sono affidabili, rappresentativi e significativi, può concludere che appare una situazione di svantaggio a carico delle collaboratrici domestiche rispetto ai lavoratori dei quali appena lo 0,21% sono collaboratori domestici.

Il ragionamento della Corte non termina qui, cioè con la constatazione della presenza, nei fatti, di una situazione svantaggiosa per le lavoratrici, poiché – come anche è usuale nelle valutazioni che compie la nostra Corte costituzionale allorquando è chiamata a stabilire se una disparità di trattamento prevista dalla legge trovi ragionevole giustificazione – occorre stabilire se non vi siano motivi per ritenere che la discriminazione sia in realtà apparente in quanto giustificata da “fattori oggettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso”.

La direttiva 2006/54 indica espressamente, nella stessa definizione di discriminazione indiretta, le condizioni in presenza delle quali la disparità di trattamento rimane giustificata (“…a meno che detta disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”).

Anche se, come detto, la direttiva 79/7 non contiene analoga formulazione, la Corte di Giustizia da tempo ha operato la valutazione di giustificazione della discriminazione indiretta sulla base degli stessi criteri che pure erano indicati nell'art. 2 della direttiva 1997/80 riguardante l'onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso.

Si legge, infatti, nella sentenza del 20 ottobre 2011, Brachner, C-123/10, ai punti 70 e 71, che “secondo una costante giurisprudenza della Corte, un provvedimento nazionale che costituisce una discriminazione indiretta quando, pur formulato in modo neutro, la sua applicazione di fatto sfavorisce un numero notevolmente superiore di donne che di uomini è contrario all'art. 4, n. 1, della direttiva 79/7, a meno che tale provvedimento sia giustificato da fattori obiettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso. Tale è il caso se i mezzi scelti rispondono ad uno scopo legittimo di politica sociale dello Stato membro del quale la legislazione è in discussione, se sono idonei a raggiungere l'obiettivo da essa perseguito e se sono necessari a tal fine”; e che “Inoltre, un fattore di questo tipo può essere considerato idoneo a garantire l'obiettivo indicato solo se soddisfa realmente l'intento di raggiungerlo e se è attuato in maniera coerente e sistematica”.

Una volta emersa una discriminazione dall'esame dei dati statistici, spetta, per così dire, al convenuto (cioè all'autorità che ha emanato la norma) provare che ricorra una causa di giustificazione, così come, in una banale controversia tra creditore e debitore, una volta allegato l'inadempimento, spetta al debitore allegare e provare che in realtà l'inadempimento non vi è o che sussiste una giustificazione.

La ripartizione dell'onere della prova, sulla base di quanto già indicato dalla Corte di Giustizia, ha trovato espressa e compiuta disciplina nell'art. 19, paragrafo 1, della direttiva 2006/54, la quale, come detto, coordina, tra l'altro, quanto già contenuto nella direttiva 1997/80 (v. il nostro art. 40 d.l.gs. 198/2006 e, in precedenza, art. 4, comma 6, l. n. 125/1991).

La Corte, nell'ultima parte della sua decisione qui in esame, passa in rassegna gli argomenti addotti dal Governo spagnolo per “difendere” il proprio provvedimento.

Innanzi tutto, esclude che possa avere rilievo il fatto che la categoria dei collaboratori domestici non sia comparabile con la generalità degli altri lavoratori per il semplice motivo che, non trattandosi di discriminazione diretta, non può venire in considerazione la questione della comparabilità con la situazione della generalità dei lavoratori: non si tratta, infatti, di trovare ragioni oggettive di una disciplina legale dei collaboratori domestici diversa da quella degli altri lavoratori, ma di trovare il fondamento di una situazione di svantaggio delle collaboratrici domestiche rispetto agli altri lavoratori.

In secondo luogo, la Corte, pur spettando in via esclusiva al giudice nazionale di valutare i fatti ed interpretare il diritto nazionale – per cui egli solo ha l'ultima parola sulla effettiva presenza di un fattore oggettivo di giustificazione – ricorda che essa deve dare indicazioni utili per decidere, sia pure solo sulla base degli elementi che sono negli atti del procedimento e delle allegazioni delle parti.

Vengono, quindi, passati in disamina gli argomenti addotti dal Governo e dall'ente di previdenza, come ad esempio il fatto che il settore lavorativo dei collaboratori domestici presenterebbe elevati tassi di occupazione, un basso livello di qualificazione e di retribuzione, nonché una significativa percentuale di lavoratori non iscritti al sistema di sicurezza sociale, per cui si giustificherebbe l'esclusione dall'assicurazione contro la disoccupazione poiché, aumentando la contribuzione, si verificherebbe una riduzione dei livelli di occupazione o un aumento delle situazioni illegali.

La Corte, in sostanza, esamina il “merito” di tali argomenti (per il dettaglio è sufficiente rinviare ai punti 53 – 67 della motivazione) riconoscendo che gli obbiettivi di politica sociale perseguiti dal legislatore – tra cui la salvaguardia dei livelli occupazionali – sono legittimi e possono quindi giustificare la discriminazione fondata sul sesso, ma lo strumento utilizzato, cioè la disposizione la cui applicazione comporta discriminazione, non appare idoneo alla realizzazione di tali obbiettivi ed inoltre la disposizione nazionale non appare attuata in maniera coerente e sistematica in base agli obiettivi che si intendono perseguire, come sarebbe dimostrato dal fatto che vi sono altre categorie di lavoratori che pure presentano aspetti che li farebbero assimilare ai collaboratori domestici, come autisti e giardinieri privati o lavoratori agricoli, che invece non sono esclusi dall'assicurazione contro la disoccupazione.

In definitiva, ferma restando la facoltà del giudice nazionale di valutare nel caso concreto se la disposizione “censurata” risponde a legittimi obbiettivi di politica sociale, se sia idonea al conseguimento degli stessi e se comunque non ecceda quanto necessario alla realizzazione degli obbiettivi (la discriminazione può tollerarsi, in pratica, solo nella misura in cui sia indispensabile per conseguire obbiettivi “superiori”), sembra proprio che la strada sia tracciata.

Il giudice nazionale, in assenza di altri elementi offerti dalle parti, seguendo le indicazioni date dalla Corte, ben difficilmente potrebbe non disapplicare la disposizione che genera discriminazione indiretta.

La conseguenza dovrebbe quindi essere quella di ammettere la lavoratrice al versamento della contribuzione per l'assicurazione contro la disoccupazione alle medesime condizioni previste per la generalità dei lavoratori che ne beneficiano.

Non potrebbe escludersi, però, che, in successivi giudizi, la parte pubblica offra specifici dati di fatto utili a far ritenere giustificata la discriminazione, nel quale caso il giudice dovrà, qualora non ritenga di interpellare nuovamente la Corte, compiere autonoma valutazione, essendo vincolante l'interpretazione del diritto europeo data dalla Corte ma non anche le “indicazioni” che sono state date, per guidare il giudice nazionale, in un singolo caso, sulla base dei documenti e delle allegazioni proprie di quel giudizio.