Responsabilità dello Stato per i danni subiti da privati per violazione del diritto UE

Renato Bernabai
Renato Bernabai
23 Settembre 2022

Il principio di responsabilità dello Stato per i danni causati ai privati da violazioni del diritto dell'Unione è inerente al sistema dei trattati ed è valido qualunque sia l'organo statale cui essa sia imputabile tramite azione od omissione. Incombe sullo Stato di risarcire le conseguenze del pregiudizio causato...
Introduzione

La sentenza in esame segna un ulteriore passo nel lungo e travagliato percorso della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea in tema di responsabilità dello Stato-legislatore, inserendosi nell'ormai ricco filone originato dalla famosa sentenza Francovich (Corte di giustizia europea 19 novembre 1991, in causa C-6/90), che ne pose con chiarezza le basi concettuali, integrate e sviluppate, ma mai smentite, nelle successive pronunce.

Come le numerose che l'hanno preceduta, anche questa sentenza è destinata ad avere ricadute mediate nei sistemi giuridici sostanziali e processuali degli Stati membri. È quindi di eminente interesse un approfondimento della tematica, per prefigurare possibili conseguenze all'interno dell'ordinamento italiano.

Sotto il profilo storico-dogmatico, si osserva come la Corte abbia letteralmente creato la disciplina della responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto comunitario, priva di base diretta nel trattato: configurandola in termini aquiliani, per analogia con la responsabilità comunitaria prevista all'art.340 TFUE ( già art 288 TCE), il cui secondo comma stabilisce “In materia di responsabilità extracontrattuale la comunità deve risarcire, conformemente ai principi generali comuni ed ai diritti degli stati membri, i danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell'esercizio delle loro funzioni”.

Per le relative controversie, la competenza è del tribunale in primo grado e della Corte di giustizia in appello.

Per quanto riguarda la nozione di Stato, la Corte è ferma nel riferirsi ai governi; con esclusione degli enti pubblici territoriali, che non sono quindi attori privilegiati, e neppure equiparati ai soggetti privati.

Il caso

Chiuse queste brevi considerazioni generali sul tema e venendo alla fattispecie concreta esaminata nella sentenza in esame, i fatti di causa possono così riassumersi.

A seguito di denunce presentate da singoli soggetti privati, la Commissione europea, il 25 luglio 2016, avviava nei confronti del regno di Spagna un procedimento EU Pilot (meccanismo di cooperazione tra la Commissione e gli Stati membri, che consente di verificare se il diritto dell'Unione sia rispettato e correttamente applicato in seno ad essi, evitando l'avvio formale di una procedura di infrazione, ex art. 258 TFUE), relativo agli articoli 32 e 34 della legge spagnola n.40/2015.

In particolare, la Commissione allegava la possibile violazione dei principi di equivalenza ed effettività, limitativi dell'autonomia di cui dispongono gli Stati membri nel fissare le condizioni di responsabilità per le violazioni del diritto dell'Unione.

Tale procedura, peraltro, non dava esito positivo, cosicché la Commissione avviava una procedura d'infrazione.

Il procedimento precontenzioso si aprivacon lettera del 15 giugno 2017, che intimava alla Spagna di presentare le sue osservazioni; cui dava riscontro detto Stato membro, spiegando i motivi per i quali riteneva di aver rispettato tali principi.

Nel prosieguo, veniva presentato dal Regno di Spagna un progetto legislativo volto ad adeguare il diritto spagnolo alle prescrizioni del diritto dell'Unione: progetto, ritenuto però insufficiente dalla Commissione, che decideva, quindi, di proporre ricorso.

Nella narratio della fase stragiudiziale e dello svolgimento del processo non si precisa, peraltro, la fattispecie concreta da cui sia partita l'iniziativa della Commissione, stimolata da denunce di privati.

La Corte di Giustizia dell'Unione europea, decidendo en grande chambre, accoglieva parzialmente il ricorso della Commissione, statuendo che la Spagna era inadempiente alle obbligazioni che derivano dal principio di effettività, nella parte in cui subordinava il ristoro dei danni causati ai privati dal legislatore spagnolo, a causa della violazione del diritto dell'Unione, alla duplice condizione che esistesse una decisione della Corte di giustizia dichiarativa dell'incompatibilità con il diritto dell'Unione e che il privato che si assumeva danneggiato avesse visto rigettato il suo ricorso contro l'atto amministrativo esecutivo della legge: anche quando il danno derivasse direttamente da quest'ultima o, per contro, da un'omissione del legislatore.

Pure contrari al principio di effettività dovevano considerarsi, per la Corte, sia il termine di prescrizione di un anno, per l'esercizio dell'azione risarcitoria a partire dalla pubblicazione sul giornale ufficiale dell'Unione Europea della decisione della Corte di Giustizia dichiarativa dell'incompatibilità della norma nazionale con il diritto dell'Unione, sia la limitazione del risarcimento ai soli danni sopravvenuti nei cinque anni precedenti la data di tale pubblicazione.

Le questioni giuridiche

La sentenza consta di due rationes decidendi principali.

Innanzitutto, viene negata, a chiare lettere, la necessità di un accertamento pregiudiziale della Corte sulla violazione del diritto europeo commessa dal legislatore dello Stato membro.

Questo comporta che l'incompatibilità della legislazione nazionale con il diritto dell'Unione europea è oggetto di un sindacato diffuso del giudice nazionale adito per il risarcimento del danno; ed inoltre, che anche la direttiva - come, pacificamente, il regolamento - potrebbe giustificare la disapplicazione diretta della legge nazionale da parte del giudice ordinario, in forza di un accertamento incidentale di non conformità al diritto dell'Unione europea: accertamento, che non sfocerebbe, però, nella dichiarazione di illegittimità, e dunque nell'abrogazione della norma interna (ciò che nel nostro ordinamento è rimesso, in via esclusiva, alla Corte costituzionale), bensì solo nella sua eventuale disapplicazione, in funzione del giudizio di responsabilità dello Stato-legislatore e della conseguente condanna al risarcimento del danno.

Un iter logico-giuridico, in qualche modo analogo, nel nostro ordinamento, alla disapplicazione del provvedimento amministrativo invalido, da parte del giudice ordinario.

Siffatto sindacato diffuso pone, tuttavia, non pochi problemi in termini di certezza del diritto, non essendo estensibile erga omnes il conseguente accertamento di non conformità contenuto in una sentenza ordinaria: per definizione, efficace solo verso le parti, i loro eredi e aventi causa (art.2909 cod. civ.).

Per di più, la sentenza in esame ne nega la doverosità quando la disposizione dell'Unione sia priva di effetto diretto, richiamando la sentenza 24 giugno 2019, Poplawski, C-573/17). Ma tale reciso dictum sfuma subito dopo nella riconosciuta possibilità - a dire il vero, contraddittoria - che viene invece riconosciuta al giudice di disapplicare qualsiasi disposizione nazionale contraria ad una norma dell'Unione, anche se priva di effetto diretto (e stavolta si cita il precedente Thelen Technopark C-261/20).

Potere sì, quindi, obbligo no; ma sorge subito il dubbio se non si tratti, in realtà, di un potere-dovere.

La seconda ratio decidendi esclude, invece, la necessità che la legge nazionale si sia tradotta in un provvedimento amministrativo di esecuzione, impugnabile dal privato. Questi potrebbe trovarsi, infatti, nell'impossibilità di reagire, ove il danno derivi direttamente dalla legge; o, più verosimilmente, dall'omissione di una legge che recepisca nell'ordinamento interno diritti soggettivi attribuiti da una direttiva europea.

Occorre dire che il procedimento risarcitorio delineato dalla legge spagnola n.40/215 aveva una sua logica interna, partendo dall'ipotesi che la legge nazionale – contraria, in ipotesi, al diritto dell'Unione - fosse stata tradotta in pratica mediante un provvedimento amministrativo: ciò che avviene, in effetti, nella normalità dei casi. Si giustificava, quindi, il requisito della tempestiva impugnazione di tale atto, con la contestuale allegazione del contrasto della norma di riferimento con il diritto dell'Unione; e si spiegava, altresì, come solo il suo rigetto definitivo avrebbe dato adito al risarcimento del danno, una volta riconosciuta, dalla Corte di Giustizia, adita con rinvio pregiudiziale ( obbligatorio per l'organo apicale della giurisdizione: art.267 Tfue) la violazione del diritto dell'Unione.

Per contro, la Commissione aveva allegato la violazione del diritto dell'Unione Europea, rilevando, appunto, come la legge spagnola esigesse, per ottenere il risarcimento del danno, il previo ricorso contenzioso amministrativo. Tale presupposto è censurato, appunto, dalla Corte sotto il profilo che tale modalità non coprirebbe il caso in cui la disposizione di diritto interno produca, essa stessa, effetti dannosi, senza il medio di un provvedimento amministrativo di attuazione: il che è di immediata intelligenza, nel caso in cui l'illecito legislativo consista – com'è frequente - nell'omessa attuazione di una direttiva.

Forse si potrebbe obbiettare che ad un provvedimento amministrativo, o ad una sentenza, si perverrebbe, comunque, svolgendo una domanda di accertamento del diritto riconosciuto nella direttiva; ed esperendo solo dopo il suo rigetto, per mancanza di una norma nazionale di riferimento, l'azione di danni verso lo Stato. Ma sul punto la Corte espressamente esclude che il singolo leso sia tenuto a provocare, con un comportamento attivo, l'adozione di un atto amministrativo (eventualmente, nella forma di un silenzio-rifiuto), impugnabile, poi, in un giudizio in cui dare ingresso al rinvio pregiudiziale alla Corte dell'Unione Europea..

Si tratterebbe, in ultima analisi, di un appesantimento processuale che la Corte europea intende evitare, consentendo l'azione immediata contro lo Stato-legislatore.

Resta, però, il fatto che il privato che si assuma danneggiato è tenuto ad esercitare i rimedi giudiziari disponibili, nei limiti del dovere di diligenza: si tratta, a ben vedere, del principio enunciato nel codice civile italiano dall'art.1227; ma tale iniziativa diventerebbe, per contro, inesigibile, secondo la Corte, e contraria al principio di effettività, ove importi difficoltà eccessive ed oneri irragionevoli (Danske Slagterier , C-445/06).

Al riguardo, si osserva come la giurisprudenza eurounitaria e, per quanto qui interessa, quella italiana, non sempre distinguano chiaramente due fattispecie distinte: da un lato, l'azione diretta per ottenere quanto disposto dalla direttiva, sul presupposto che essa sia sufficientemente precisa e completa; dall'altro, l'azione di danni, quando l'applicazione immediata non sia invece possibile perché la direttiva non è autoesecutiva.

Solo in questa seconda ipotesi si pone il problema delle modalità di accertamento dell'illecito dello Stato.

Piuttosto, è da notare come un'azione risarcitoria verso lo Stato che segua al rigetto della domanda volta ad ottenere direttamente i benefici riconosciuti dalla direttiva, per non essere preclusa ob rem judicatam ( dato che il giudice non potrebbe non essersi posto - anche d'ufficio, e tanto più su istanza di parte - la questione di non conformità della disciplina nazionale al diritto dell'Unione, implicitamente rigettandola), dovrebbe trovare il suo fondamento in un accertamento temporalmente successivo della violazione del diritto dell'Unione, emergente aliunde, in un diverso giudizio. E dunque, in un fatto nuovo, sopravvenuto: plausibilmente una pronunzia della Corte di giustizia dell'Unione europea, efficace erga omnes, su cui fondare una diversa edictio actionis di danni.

Non sarebbe facile, invece, giustificare un'azione risarcitoria fondata sulla responsabilità dello Stato-legislatore, dopo che l'atto amministrativo esecutivo della legge in questione sia stato dichiarato legittimo, per effetto del giudicato di rigetto di un ricorso ad hoc: in cui, per di più, la violazione del diritto europeo fosse stata espressamente allegata come causa petendi.

Non era dunque irragionevole l'argomentazione difensiva secondo cui, per superare la preclusione, occorresse una statuizione della Corte di giustizia dell'Unione europea sull'incompatibilità della norma di legge con il diritto europeo.

Nel sostenere l'assunto, la Corte si richiama ai precedenti della sentenza 5 marzo 1996 Brasserie du pecheur , C-46/93, e Factortame C-48/93, nonché alla sentenza Transportes Urbanos y Servicios Generales, C-118/08; dimostrando un atteggiamento alquanto disinvolto nel superare i limiti processuali interni (il giudicato copre il dedotto ed il deducibile), che pure costituiscono un sostrato fondamentale della tutela dei diritti.

E' da dire che il dictum della Corte resta sul piano puramente generale ed astratto, non difforme da un enunciato normativo. Nessun'altra corte o tribunale potrebbe esprimersi in tal modo; neppure la nostra Corte costituzionale, che parte da uno scrutinio preliminare di rilevanza della questione di legittimità sollevata nell'ambito di una controversia concreta.

La decisione della Corte

La sentenza in esame rigetta, invece, il motivo di ricorso con cui si denunciava la violazione del principio di equivalenza, in ragione della diversità dei presupposti dell'azione di responsabilità per illecito eurounitario rispetto alla fattispecie - che si assumeva, dalla Commissione, analoga - della responsabilità dello Stato-legislatore per violazione della propria costituzione (Corte di Giustizia grande sezione- 26 gennaio 2010,Transportes Urbanos y Servicios Generales SAL, C-118/08).

La ragione del rigetto risiede nel fatto che la legge spagnola riproduce fedelmente le condizioni dell'azione più volte enunciate dalla Corte di giustizia dell'Unione europea: e cioè che la norma di diritto europeo intenda conferire diritti ai singoli; che la violazione denunziata sia sufficientemente grave; ed infine, che esista un nesso di causalità diretto tra essa ed il danno subito dai soggetti Una volta accertata la fedele riproduzione di tali condizioni nel diritto nazionale, diventa irrilevante che in altre fattispecie, di esclusiva rilevanza interna, esse non siano egualmente richieste. E tutto ciò, a parte il rilievo che i casi di incostituzionalità di una legge non necessariamente riguardano la violazione di diritti dei singoli.

Viene infine ribadito, come argomento di chiusura dell'iter motivo, che il carattere vincolante della normativa eurounitaria, ancorché priva di effetto diretto, comporta, in ogni caso, un dovere di interpretazione del diritto nazionale conforme, per quanto possibile, ad essa (Marleasing, C-106/89; Whiteland import-export, C-308/19).

Ma ancora una volta, l'apparente nettezza del principio contrasta con la contestuale precisazione che tale obbligo di conformazione non può costituire fondamento per un'interpretazione contra legem del diritto nazionale (Adelener C-212/04;Thelen C-261/20).

Le altre statuizioni della sentenza in esame derivano in modo consequenziale dai punti di diritto sopra enunciati. Così, in particolare, il decorso del termine di prescrizione dell'azione, che nella legge spagnola, prendeva data dalla pubblicazione della sentenza della Corte dell'Unione Europea di accertamento della violazione: termine, evidentemente incongruo, alla luce della ritenuta insussistenza di siffatto accertamento pregiudiziale.

Corollario coerente è pure la contrarietà al diritto dell'Unione della limitazione temporale dei danni risarcibili a quelli maturati nei cinque anni anteriori alla pubblicazione della sentenza dell'Unione Europea.

Sul punto, il regno di Spagna aveva sostenuto, altresì, la preclusione dell'accertamento di contrarietà di una legge al diritto dell'Unione europea in ordine a situazioni giuridiche ormai definitive, perché questo avrebbe comportato la risarcibilità sine die, in caso di leggi nazionali vigenti da molti anni.

La Corte disattende tale tesi: non solo perché, come detto, la sua sentenza di accertamento pregiudiziale può mancare; ma anche in virtù del principio generale che il danno, imputabile a fatto illecito, dev'essere oggetto di integrale ristoro, inclusa la corresponsione degli interessi di mora, indipendentemente dalla data di integrazione della fattispecie; con l'unico limite dell'eventuale prescrizione.

Ma qui, non di prescrizione si tratterebbe, bensì del frazionamento del credito risarcitorio, contenuto ai danni maturati nel quinquennio anteriore alla sentenza della Corte: il che, fuori dell'ipotesi dell'illecito permanente, potrebbe anche significare l'estinzione del credito, quando il danno sia istantaneo e sia maturato in una data lontana dall'eventuale sentenza della Corte Ue, in dipendenza degli ordinari dei tempi di svolgimento del processo.

Responsabilità dello stato legislatore - iter evolutivo della giurisprudenza italiana

All'interno del nostro ordinamento, l'elaborazione dell'istituto della responsabilità dello Stato per omessa o tardiva trasposizione dell'ordinamento interno di direttive comunitarie è frutto di una serie di interventi della Corte di giustizia europea, talmente penetranti da meritarsi la definizione di protagonismo giudiziale.

Sulla scia dei dicta della Corte di Giustizia, la responsabilità dello Stato-legislatore è diventata jus receptum anche nella giurisprudenza italiana, con isolate voci dissonanti.

Si è trattato di una novità rivoluzionaria in materia di rapporti tra privati e Stati di appartenenza, introduttiva di un principio inedito: e cioè, il diritto al risarcimento del danno da illecito del legislatore, per lo più consistente in un'omissione; e perfino per effetto del mantenimento in vigore di disposizioni interne contrarie ad una sopravvenuta disciplina europea.

Nella giurisprudenza italiana, l'ostacolo più consistente al suo riconoscimento in sede dogmatica è stata la tradizionale concezione dell'insindacabilità del potere politico.

Mentre sul versante amministrativo, risalgono ad oltre un secolo fa i primi riconoscimenti dottrinari che la Pubblica amministrazione potesse essere chiamata a compensare il privato leso da un provvedimento illegittimo, una volta superata la concezione tipica dello Stato assoluto, secondo cui l'attività pubblica è naturaliter legittima - anche se tali aperture subirono un freno dovuto alla teoria della degradazione dei diritti a meri interessi legittimi, privi di tutela risarcitoria, di fronte all'esercizio del potere pubblico - l'atto legislativo, per contro, è sempre stato considerato, per definizione, lecito ed insindacabile, se non sotto il profilo dell'eventuale contrarietà a precetti costituzionali.

Negli anni '60 la Corte costituzionale scindeva la responsabilità politica dello Stato dall'efficacia delle norme comunitarie, che restavano derogabili da norme interne: in contrasto con le sentenze della Corte di giustizia Van Gend en Loos del 1963 e Costa-Enel del 1964, secondo cui il Trattato della comunità europea era diverso dai comuni trattati internazionali, perché aveva creato un nuovo ordinamento, di cui facevano parte sia gli Stati, che i cittadini, con la conseguente efficacia diretta delle norme comunitarie, senza bisogno di legge adeguatrice.

La Corte costituzionale si è poi adeguata a tali sentenze, con la pronuncia Granital del 1984, secondo cui l'ordinamento italiano "si ritrae" in corrispondenza del diritto comunitario: secondo un criterio di competenza, però, e non di gerarchia. In questa cornice concettuale, la norma interna non sarebbe, quindi, illegittima o abrogata, ma conserverebbe validità fuori del contesto eurounitario (oggi, naturalmente, non si può più parlare di diritto comunitario, dopo la successione dell'Unione europea nella Comunità europea), venendo invece disapplicata nei casi di contrasto.

Le norme eurounitarie hanno efficacia diretta, se sono “di chiara interpretazione” e portano alla disapplicazione della legge italiana contrastante, da parte del giudice ordinario; altrimenti, occorre il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, obbligatorio per il giudice di ultima o unica istanza: Corte di cassazione, ed ora anche la Corte costituzionale. Se invece la norma eurounitaria non ha efficacia diretta, in caso di contrasto con la legge italiana, occorre il rinvio alla Corte costituzionale.

Si è andata così affermando la tesi monistica della sovraordinazione gerarchica del diritto europeo. Il primato del diritto dell'Unione sul diritto interno è stato riconosciuto ex articoli 11 e 117 della Costituzione dalla Corte costituzionale anche rispetto alle norme formalmente costituzionali, salvi i cd. controlimiti: violazione di principi fondamentali dell'ordinamento italiano, comportanti il controllo di compatibilità con il trattato dell'Unione Europea da parte della Corte costituzionale. In sostanza, i controlimiti sono, a loro volta, limiti alle limitazioni di sovranità introdotte ex art. 11 della Costituzione e determinano in questo caso una concorrenza fra l'ordinamento italiano e quello dell'Unione Europea.

Ma ancor più dirimente, in limine, era la concezione, cui la giurisprudenza è rimasta a lungo fedele, che negava alcuna responsabilità per danni causati da scelte inerenti l'esercizio la funzione legislativa, per ragioni di ordine politico-costituzionale ritenute insuperabili: la Carta costituzionale, infatti, nel dettare le norme fondamentali sull'organizzatore sul funzionamento dello Stato, regola la funzione legislativa, ripartendola tra governo e Parlamento, quale espressione di potere politico, libero nei fini e sottratto, perciò, a qualsiasi sindacato giurisdizionale.

Da queste premesse teoriche si deduceva che di fronte all'esercizio del potere politico non sarebbero mai configurabili situazioni soggettive protette dei singoli (Cass. 1° aprile 2003 n.4915; Cass. 11 ottobre 1995 n. 10617).

A superare questo indirizzo tralatizio, come esposto, ha contribuito in misura decisiva proprio la giurisprudenza della Corte di giustizia europea, a partire dalla nota sentenza Francovich (Corte di giustizia europea 19 novembre 1991, in causa C-6/90); cui sono seguite Brasserie du pecheur; Koebler, 30 settembre 2003 C-224/01; Traghetti del Mediterraneo 13 giugno 2006, C-173/03). In esse si afferma il principio di responsabilità allo Stato-membro per omessa o manchevole trasposizione di direttive; con il conseguente obbligo di risarcire i cittadini pregiudicati dall'illecito commesso nell' esercizio della funzione legislativa.

Il diritto vivente comunitario è stato alfine recepito, ai massimi livelli, dalla giurisprudenza italiana; ed il dogma dell'irresponsabilità del legislatore per attività normativa, ancorché illegittima e causa di danno ingiusto, è stato ormai superato.

Una volta ammessa, in linea di principio la responsabilità del legislatore, la qualificazione assolutamente prevalente nella giurisprudenza, la configurava in termini extracontrattuali, ai sensi dell'art.2043 cod. civ., facendo leva anche sugli articoli articoli 4, par. III, TUE e 288, par. III TFUE.

L'atipicità dell'illecito aquiliano consentiva, infatti, di ricomprendervi interessi di derivazione eurounitaria tutelabili alla luce dei parametri fissati della Corte di giustizia: con particolare riguardo all'elemento distintivo dell'assenza del requisito psicologico del dolo o della colpa del legislatore. Sul punto, si torna ad osservare come l'art. 2043 cod. civ. sia norma equiordinata alle leggi statale, in ipotesi, contrarie ai principi dell'Unione europea: e quindi non potrebbe essere il fondamento diretto di un'azione di danni, se non previa pronuncia di un organo giurisdizionale competente a sindacare l'illegittimità della legge: Corte di giustizia dell'Unione Europea o Corte costituzionale, ma non giudice ordinario.

L'indirizzo in questione è stato però smentito da Cass., sez. unite 9147/2009: dissonante, nel qualificare contrattuale la responsabilità dello Stato, in quanto derivante da un'obbligazione ex lege.

Il revirement ha posto rischi di disarmonia sistematica.

Formalmente, infatti, l'obbligo violato dallo Stato è nei confronti dell'Unione Europea, e non nei confronti dei singoli soggetti privati. Per aggirare l'ostacolo della carenza di un rapporto di credito ex lege tra Stato e questi ultimi, che preesista alla mancata attuazione della direttiva non autoesecutiva, una parte della dottrina ha quindi suggerito il ricorso alla teoria del contatto sociale qualificato. Ma sembra evidente la forzatura concettuale, dovuta, a ben vedere, dall'inopinata configurazione, da parte delle Sezioni unite, della responsabilità dello Stato in termini contrattuali, e non per illecito aquiliano: com'era, in precedenza, opinione assolutamente prevalente, confortata anche, come visto, da dati testuali del TFUE.

La responsabilità dello Stato inadempiente si pone come ipotesi ultima e residuale, quando non sia possibile mediante un'interpretazione mirata applicare direttamente la direttiva eurounitaria: eventualità quest'ultima, che tende a diventare sempre più frequente, in virtù di un tendenziale avvicinamento della direttiva al regolamento. Si tende, infatti, a riconoscere l'efficacia immediata delle direttive comunitarie, con un esplicito favore per l'attività ermeneutica volta dare attuazione al diritto eurounitario, perfino disapplicando la normativa nazionale con esso contrastante.

A questa stregua, si è osservato da qualche autore che il giudice nazionale diventerebbe un giudice eurounitario decentrato. Ed in ogni caso, laddove una direttiva non sia autoesecutiva, e quindi non destinata, per la sua genericità, a creare un rapporto diretto tra Stato destinatario e singolo privato beneficiario, essendovi bisogno di un ulteriore passaggio normativo costituito dalla normativa interna, il giudice non potrebbe certo sopperire ad una completa omissione del legislatore nazionale, con una scoperta invasione di campo del legislatore, per quanto si voglia concedere spazio alla cd. giurisprudenza normativa.

In nessun caso, comunque, il privato potrebbe ottenere una tutela in forma specifica, non essendo configurabile una pretesa alla norma.

Al riguardo, uno sguardo d'insieme sul panorama casistico mostra un favor degli organi giurisdizionali interni ad un indirizzo volto a dare attuazione al diritto comunitario - perfino disapplicando la normativa nazionale contrastante - piuttosto che non affermare la responsabilità extracontrattuale dello Stato, considerata solo l'extrema ratio.

Resta da vedere, in sede critica, se tale tendenza sia da incoraggiare; o non si palesi, piuttosto, fomite di incertezza giuridica.

Dal riconoscimento ormai consolidato della responsabilità dello Stato-legislatore per danni da violazione del diritto dell'Unione Europea non si è tratta, l'inferenza - prima facie logica - di un'analoga responsabilità per danni cagionati da leggi dichiarate incostituzionali.

E ciò, nonostante l'esperienza del diritto europeo smentisca, in modo univoco l'insindacabilità delle scelte del legislatore; e ad onta dell'esempio fornito dall'estensione della responsabilità all'esercizio della funzione normativa da parte, perfino, della stessa Unione Europea, fatta valere da soggetti che si affermino danneggiati da una determinata norma (Corte di giustizia europea 9 settembre 2008 in cause riunite C-120/2006 e C-121/2006 Fiamm/Fedon).

Questa dissonanza, derivante dal costante diniego che alcuna responsabilità dello Stato, o di una regione possa sorgere dall'emanazione di una legge costituzionalmente illegittima, sia che la causa petendi della pretesa sia la responsabilità per atto della Pubblica Amministrazione, in attuazione di norma poi dichiarata illegittima (Consiglio di Stato 14 aprile 2015 n.1862), sia che si prospetti direttamente una responsabilità per illecito legislativo (Cass. 22 novembre 2016 n. 23.730) ha dato luogo alla cd. discriminazione inversa.

E' da notare, al riguardo, che proprio la legge spagnola 40/2015, oggetto di scrutinio nella sentenza in commento, prevede espressamente all'art.32, Capo IV, intitolato “Responsabilità delle pubbliche amministrazioni”, il risarcimento “quando il danno deriva dall'applicazione di una norma con rango di legge dichiarata incostituzionale”: previsione, simmetrica e contestuale a quella che contempla il risarcimento quando il danno derivi dall'applicazione di una norma contraria al diritto dell'Unione, a dimostraziione dell'eadem ratio delle due fattispecie.

Ove tale preclusione dogmatica, propria della giurisprudenza italiana, dovesse cadere in futuro, si riproporrebbe il dubbio se sia peraltro condizione pregiudiziale dell'accertamento di responsabilità la pronunzia della Corte costituzionale sull'illegittimità della legge: come sostenuto dal regno di Spagna a proposito della necessità di una pronunzia della Corte di giustizia europea, adita con rinvio pregiudiziale; o se lo stesso giudice ordinario disponga, invece, di un sindacato diffuso che gli consenta di conoscere incidenter tantum l'illegittimità dell'atto normativo, allegata come causa petendi di un'azione di danni.

Ed estendendo al massimo – ed in realtà, anche oltre – la valenza analogica dei principi eurounitari in subiecta materia, ci si potrebbe domandare se essi prefigurino, potenzialmente, perfino la responsabilità da inattuazione di norme costituzionali programmatiche (ad es., il diritto al lavoro: art.4 Cost.).

Scenari solo futuribili, allo stato, alla luce del diritto vivente, nettamente contrario all'ammissione della responsabilità dello Stato ( o regione) per leggi incostituzionali.

Problema processuale correlato è, da ultimo, quello del riparto di giurisdizione, ove il privato agisca per danni derivanti da una legge in contrasto con la normativa europea. Cass., sez. un., 10 aprile 2002 n.5125 ha riconosciuto la giurisdizione del giudice ordinario in tema di risarcimento da violazione di norma eurounitaria, richiamando la nota sentenza n.500/1999.

La tesi contraria, in favore della giurisdizione amministrativa, si basa soprattutto sul largo margine di discrezionalità che compete allo Stato-membro in sede di attuazione della normativa comunitaria, cui corrisponderebbe una situazione soggettiva di interesse legittimo.

Bibliografia

La bibliografia in materia è molto vasta. Si indicano, senz'alcuna pretesa di completezza, taluni contributi.

- Roberto Conti, Azione di responsabilità contro lo Stato per violazione del diritto comunitario: rimedio concorrente o alternativo all'azione diretta? in Danno e Responsabilità 2003, 836

- Angela Continisio, L'obbligazione “indennitaria” dello Stato per attività “non antigiuridica”; nomina sunt consequentia rerum? In La Responsabilità Civile, 2012, pag.661

- Marilena Gorgoni, La difficile costruzione delle regole risarcitorie per violazione statale di obblighi comunitari, in La Responsabilità civile 2010, pag. 185.

- Giovanni Giacalone, Vecchio e nuovo nella tutela dei singoli in relazione a norme comunitarie inattuate, in Il Corriere Giuridico, 1992, pag. 53..

- Chiara Pasquinelli, Illecito comunitario del legislatore e art.2043 cod. civ.: la Cassazione interviene ancora, in Responsabilità civile e Previdenza 2008, pag. 1580.

- Chiara Pasquinelli, Le sezioni unite e la responsabilità dello Stato-legislatore per violazione del diritto comunitario. Un inatteso revirement. in La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2009, pag. 11012.

- Vincenzo Roppo, Responsabilità pubblica per atto lecito e per atto legislativo, in Il Corriere Giuridico, 2017, pag. 365.

- Francesca Ruggiero, La Corte di Giustizia torna a pronunciarsi sul caso dei medici specializzandi: sì al risarcimento miliardario, in La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2018, pag. 472.