Sopravvenuta inabilità del lavoratore e onere del datore di lavoro di adottare “accomodamenti ragionevoli"

Elena Boghetich
15 Settembre 2022

La nozione di «handicap», ai sensi della direttiva 2000/78 consiste in una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell'interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori...
Massime

La nozione di «handicap», ai sensi della direttiva 2000/78 consiste in una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell'interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori.

La nozione di «soluzioni ragionevoli per i disabili» implica che un lavoratore, compreso quello impegnato in un tirocinio o in un periodo di apprendistato, che presenti uno stato di disabilità e sia stato dichiarato inidoneo ad esercitare le mansioni essenziali del posto a lui assegnato, deve essere destinato ad altro posto di lavoro che sia vacante e per il quale disponga delle competenze e delle capacità richieste, a meno che tale misura non imponga al datore di lavoro un onere sproporzionato.

Il caso

Nel novembre 2016 la società HR Rail assumeva un agente di manutenzione specializzato delle linee ferroviarie che iniziò il suo tirocinio presso l'ente incaricato della gestione delle infrastrutture per le Ferrovie belghe. Nel dicembre 2017 a tale agente tirocinante veniva diagnosticata una patologia cardiaca che richiedeva l'impianto di un pacemaker, apparecchio sensibile ai campi elettromagnetici emessi, in particolare, dalle linee ferroviarie; per tale ragione, egli veniva riconosciuto disabile dal Service public fédéral «Sécurité sociale» e, successivamente, dichiarato inidoneo ad esercitare le funzioni per le quali era stato assunto. Dapprima veniva riassegnato ad un posto di magazziniere e poi, in quanto inabile alla mansione per la quale era stato avviato il tirocinio, licenziato con effetto al 30 settembre 2018.

Il lavoratore ha chiesto, al Conseil d'État, l'annullamento della decisione di licenziamento; il Conseil d'Etat ha sottoposto alla Corte di giustizia richiesta di chiarimenti relativi all'interpretazione della direttiva 2000/78 con particolare riferimento alla nozione di «soluzioni ragionevoli per i lavoratori disabili».

La CGUE – richiamando l'art. 5 della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro - considera che tale nozione implica che un lavoratore, compreso quello che svolge un tirocinio post-assunzione, il quale, a causa della sua disabilità, sia stato dichiarato inidoneo ad esercitare le funzioni essenziali del posto da lui occupato, debba essere destinato – al fine di evitare il licenziamento - ad un altro posto per il quale dispone delle competenze, delle capacità e delle disponibilità, purché tale misura non imponga al datore di lavoro un onere sproporzionato. La Corte ricorda che la direttiva 2000/78 si propone di fissare un quadro generale per garantire a ogni individuo la parità di trattamento «in materia di occupazione e di condizioni di lavoro», offrendo una protezione efficace contro le discriminazioni, tra cui figura la disabilità; la direttiva si applica da datori di lavoro privato e pubblici e – fra le varie situazioni anche - alle condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo, e all'accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, compresi i periodi di tirocinio. Pertanto, il fatto che il lavoratore impiegato presso dalla HR Rail non fosse, alla data del suo licenziamento, un dipendente definitivamente assunto, non impedisce che la sua situazione professionale rientri nell'ambito di applicazione della direttiva 2000/78. La Corte ricorda poi che, secondo tale direttiva, al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, devono essere previste «soluzioni ragionevoli». Così, il datore di lavoro deve prendere le misure appropriate, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali misure richiedano da parte del datore di lavoro un onere sproporzionato. Tra le misure appropriate. la direttiva prevede «misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell'handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento». La Corte precisa che si tratta di un elenco non esaustivo delle misure appropriate, potendo queste ultime essere di ordine fisico, organizzativo e/o educativo, posto che la direttiva contempla un'ampia definizione della nozione di «accomodamento ragionevole»; l'assegnazione a un diverso posto di lavoro al fine di scongiurare un licenziamento può rappresentare una misura appropriata nell'ambito delle «soluzioni ragionevoli». Una tale interpretazione è conforme a tale nozione, che deve essere intesa come diretta all'eliminazione delle barriere di diversa natura che ostacolano la piena ed effettiva partecipazione delle persone disabili alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. La soglia oltre la quale il datore di lavoro non è obbligato a spingersi è quella rappresentata da provvedimenti che impongano un «onere sproporzionato»: per individuare tali provvedimenti, non dovuti, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari che le soluzioni potrebbero comportare, nonché delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell'organizzazione o della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni. Inoltre, la possibilità di assegnare una persona disabile ad un altro posto di lavoro esiste solo in presenza di almeno un posto vacante che il lavoratore interessato sia in grado di occupare.

Osservazioni

In ordine alla inclusione nella nozione di handicap delle diverse situazioni di invalidità, la CGUE conferma la propria giurisprudenza che aveva già chiarito come tale situazione è integrata a fronte di una “limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell'interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori” ” ai sensi della definizione di “handicap” dettata dalla direttiva 2000/78/CE, letta alla luce della Convenzione delle Nazioni Unite del 2006 approvata dalla Comunità europea nel novembre 2009. Nel caso di specie, l'impianto di un pacemaker è stato ritenuto integrare una situazione di handicap. In altra occasione (sentenze CGUE 11 settembre 2019, C-397/18; 1 dicembre 2016, C-395/15; CGUE 9 marzo 2017, C-406/15), la CGUE ha avuto modo altresì di precisare che la circostanza che l'interessato si trovi, a causa di un infortunio sul lavoro, in una situazione di invalidità temporanea, ai sensi del diritto nazionale, di durata incerta, non implica, di per sé, che la limitazione della capacità di tale persona possa essere qualificata come “duratura”; tra le circostanze da considerare per ritenere ricorrente una limitazione “duratura” figura, in particolare, la circostanza che, all'epoca del fatto asseritamente discriminatorio, la menomazione dell'interessato non presenti una prospettiva ben delimitata di superamento nel breve periodo o il fatto che tale menomazione possa protrarsi in modo rilevante prima della guarigione di tale persona. Il giudice del rinvio, al quale è demandato l'esame di tale carattere, deve basarsi sugli elementi obiettivi complessivi di cui dispone, in particolare dei documenti e dei certificati concernenti lo stato del lavoratore, redatti sulla base di conoscenze e dati medici e scientifici attuali. La natura delle misure protettive che il datore di lavoro deve adottare non è determinante al fine di ritenere riconducibile a tale nozione lo stato di salute di una persona (sentenza CGUE 11 aprile 2013, C‑335/11 e C‑337/11).

La CGUE conferma altresì il campo di applicazione della normativa dettata a protezione dei disabili, campo che ricomprende sia il settore pubblico che quello privato, e che include sia le condizioni di accesso al lavoro (sia dipendente che autonomo) e tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento, riqualificazione (nei quali, dunque, la sentenza in commento sussume i periodi di tirocinio e di apprendistato), sia la promozione ed il mantenimento dell'occupazione.

Con riguardo al diritto interno, la Corte di Cassazione – premessa la constatazione della inesistenza nel nostro ordinamento di una nozione unitaria di disabilità alla quale collegare le tutele previste dalla norma comunitaria (tutele, dell'art. 5 della direttiva 2000/78/CE, recepite nell'art. 3, comma 3, del d.lgs. n. 216/2003, introdotto dall'art. 9, comma 4 ter, del d.l. n. 76/2013 convertito dalla legge n. 99/2013) - ha affermato che non ogni situazione di infermità fisica che rende il lavoratore inidoneo alle mansioni di assegnazione risulta ex se riconducibile alla nozione di handicap (Cass. n. 6798/2018, Cass. 27502/2019), occorrendo la allegazione e dimostrazione della limitazione risultante da menomazioni fisiche, mentali o psichiche “durature” e del fatto che tale limitazione, in interazione con barriere di diversa natura, si traduca in ostacolo alla piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori (Cass. n. 27502/2019, Cass. n. 29289/2019).

Va rammentato che la malattia del lavoratore e la sua inidoneità al lavoro sono cause di impossibilità della prestazione lavorativa che hanno natura e disciplina giuridica diverse: la prima ha carattere temporaneo, implica la totale impossibilità della prestazione e determina, ai sensi dell'art. 2110 c.c., la legittimità del licenziamento quando ha causato l'astensione dal lavoro per un tempo superiore al periodo di comporto; la seconda ha carattere permanente o, quanto meno, durata indeterminata o indeterminabile, non implica necessariamente l'impossibilità totale della prestazione e consente la risoluzione del contratto ai sensi degli artt. 1256 e 1463 c.c., eventualmente previo accertamento di essa con la procedura stabilita dall'art. 5 della legge 20 maggio 1970 n. 300 (cfr., da ultimo, Cass. n. 2527/2020, che ha ribadito la specialità della disciplina che regola la malattia del lavoratore, rilevando che se pur vero è che il datore di lavoro non può recedere unilateralmente prima del superamento del c.d. periodo di comporto, è vero anche che, superato tale limite, il recesso è legittimo anche senza la necessità della prova del giustificato motivo oggettivo, della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa e della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse).

In caso di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di "handicap", la sentenza della Corte di giustizia in commento sottolinea che la mancata adozione degli accomodamenti ragionevoli può integrare una discriminazione indiretta a carico del lavoratore invalido; demanda, inoltre, al giudice del rinvio per la verifica della sufficienza degli accorgimenti adottati. In particolare, confermando l'ampia definizione di «soluzione ragionevole» che deriva dalla lettura combinata dell'art 2 della Convenzione ONU con l'art. 5 della direttiva 2000/78 e la natura non esaustiva dell'elenco delle misure «efficaci e pratiche» contenuto nel considerando 20 di detta direttiva (principi già affermati nella sentenza 11 aprile 2013, citata), sottolinea il carattere prioritario della sistemazione del luogo di lavoro, che comprende non solo accorgimenti per adeguare l'ambiente di lavoro ma altresì il trasferimento ad altro posto di lavoro, purchè «vacante che il lavoratore interessato è in grado di occupare», in quanto compatibile con le capacità residuali del disabile. Conferma, inoltre, che il limite degli «oneri sproporzionati» oltre il quale non può esigersi l'obbligo datoriale di adozione degli accorgimenti necessari è rappresentato «dai costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, dalle dimensioni e dalle risorse finanziarie dell'organizzazione o dell'impresa e dalla possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni.»

La sentenza si pone in linea con l'orientamento già assunto dalla Corte di Cassazione che ha ritenuto sussistente, ai fini della legittimità del recesso, l'obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi purché contenuti nei limiti della ragionevolezza, obbligo scaturente, anche con riferimento a fattispecie sottratte "ratione temporis" all'applicazione dell'art. 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, considerato il dovere del giudice nazionale di offrire una interpretazione del diritto interno conforme agli obiettivi di una direttiva anche prima del suo concreto recepimento e della sua attuazione (Cass. n. 27243 del 2018, Cass. n. 13649 del 2019). Con particolare riguardo alla “sufficienza” degli accomodamenti da adottare da parte del datore di lavoro, la Suprema Corte ha recentemente affermato che il punto di equilibrio tra il diritto del disabile di non essere discriminato, quello dell'imprenditore di organizzare l'azienda secondo le proprie insindacabili scelte e quello degli altri lavoratori comporta l'impossibilità di modificare l'organizzazione aziendale per mano giudiziaria (Cass. n. 34132/2019); questa statuizione conferma l'orientamento già precedentemente espresso (Cass. n. 27243/2018), secondo cui il diritto del lavoratore disabile all'adozione di accorgimenti che consentano l'espletamento della prestazione lavorativa trova un limite nell'organizzazione interna dell'impresa e, in particolare, nel mantenimento degli equilibri finanziari dell'impresa stessa nonché nel diritto degli altri lavoratori alla conservazione delle mansioni assegnate e, in ogni caso, di mansioni che ne valorizzino l'esperienza e la professionalità acquisita) e si pone sulla stessa falsariga della Corte di Giustizia (punto 65 sentenza 11 settembre 2019; punti 40, 43-47 sentenza 10 febbraio 2022) dove si sottolinea– come già evidenziato - che il datore di lavoro è tenuto ad adottare le misure appropriate, ossia «misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell'handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento», misure di ordine fisico, organizzativo e/o educativo, consistenti anche nel trasferimento ad altro posto di lavoro purchè vacante, con esclusione di soluzioni che comportino, al datore di lavoro, oneri finanziari sproporzionati, tenuto conto delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell'impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni). Da ultimo, Cass. n. 6497/21 ha precisato che il datore di lavoro è tenuto, ai fini della legittimità del recesso, a verificare la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori, nonché ad adottare, qualora ricorrano i presupposti di applicabilità dell'art. 3, comma 3-bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, ogni ragionevole accomodamento organizzativo che, senza comportare oneri finanziari sproporzionati, sia idoneo a contemperare, in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, l'interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica con quello del datore a garantirsi una prestazione lavorativa utile all'impresa, anche attraverso una valutazione comparativa con le posizioni degli altri lavoratori, fermo il limite invalicabile del pregiudizio alle situazioni soggettive di questi ultimi aventi la consistenza di diritti soggettivi.

Pertanto, con riguardo al licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, e, in particolare, all'obbligo di répéchage, in caso di sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle mansioni originariamente assegnate, l'orientamento consolidato è nel senso che la verifica della possibilità di diversa utilizzazione del lavoratore nell'ambito dell'impresa va effettuata con riguardo alle mansioni già assegnate o a quelle equivalenti o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori ed incontra il limite rappresentato dall'assetto organizzativo "insindacabilmente stabilito dall'imprenditore", con ciò escludendo che al datore di lavoro possano essere richieste anche minime modifiche organizzative per consentire l'utilizzo del lavoratore divenuto inidoneo alle originarie mansioni. Tale opzione è stata giustificata dalla considerazione che nel bilanciamento di interessi costituzionalmente protetti (artt. 4, 32, 36 e 41 Cost.) non può pretendersi che il datore di lavoro, per ricollocare il dipendente non più fisicamente idoneo, proceda a modifiche di scelte organizzative riservate all'ambito della sua piena discrezionalità in quanto espressione della libertà di impresa tutelata dall'art. 41 Cost. (Cass. Sez. Un. n. 7755/1998; nello stesso senso, Cass. 3314/1999, Cass. n. 9624/2000, Cass. n. 7210/2001, Cass. n. 5721/2002, Cass. n. 15993/2002, Cass. n. 8832/2011, Cass. n. 20497 del 2018).

Se può tuttavia dubitarsi, nonostante talune suggestioni dottrinali, che, sulla base del diritto vivente (v. CC SU 19 febbraio 1993, nn. 6030, 6031, 6032, 6033, 6034), possa configurarsi nei rapporti di lavoro un obbligo giuridico a valenza generale, di “ragionevolezza” nell'esercizio dell'attività di impresa, tale da consentire un esteso sindacato giudiziale diretto ed ex post di congruità causale degli atti del datore di lavoro, non è invece discutibile che, laddove il legislatore esplicitamente stabilisca, — come nella specie — che la condotta datoriale debba essere improntata al canone della ragionevolezza, il controllo sia dovuto anche su questo specifico profilo (Cass. n. 6497/2021).

Secondo giurisprudenza consolidata, la buona fede oggettiva o correttezza sono indentificati come criteri di determinazione della prestazione contrattuale, costituendo fonte di integrazione del comportamento dovuto che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo limite unicamente nell'interesse proprio del soggetto, tenuto, sulla scorta di una nota dottrina, al compimento di tutti gli atti giuridici e materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell'interesse della controparte nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico (tra le tante: CC 18 ottobre 2004 n. 20399; CC 7 giugno 2006 n. 13345; CC 13 luglio 2007 n. 15669; CC 4 maggio 2009 n. 10182; CC 15 ottobre 2012 n. 17642; da ultimo, con riferimenti, v. CC 6 maggio 2020 n. 8494).

Sull'onere della prova, la Corte di Cassazione ha precisato che, ai i fini dell'accertamento dell'obbligo, posto a carico del datore di lavoro dall'art. 3, comma 3-bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, della verifica della possibilità di adottare adattamenti organizzativi nei luoghi di lavoro, incombe al datore di lavoro l'onere di provare la sussistenza delle giustificazioni del recesso, ai sensi dell'art. 5 della l. n. 604 del 1966, dimostrando non solo il sopravvenuto stato di inidoneità del lavoratore e l'impossibilità di adibirlo a mansioni, eventualmente anche inferiori, compatibili con il suo stato di salute, ma anche l'impossibilità di adottare accomodamenti organizzativi ragionevoli, con la possibilità di assolvere tale ultimo onere mediante la deduzione del compimento di atti o operazioni strumentali all'avveramento dell'accomodamento ragionevole, che assumano il rango di fatti secondari presuntivi, idonei a indurre nel giudice il convincimento che il datore di lavoro abbia compiuto uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata in grado di scongiurare il licenziamento, avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto (Cass. n. 6497/2021).

Riferimenti giurisprudenziali

Giurisprudenza della CGUE:

  1. sugli accomodamenti ragionevoli e sulla nozione di “handicap” quale menomazione fisica, mentale o psichica, che in interazione con barriere di diversa natura può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell'interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con altri lavoratori, 11 settembre 2019, Nobel Plastiques Ibérica, C-397/18; 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, C‑270/16; 1 dicembre 2016, Daouidi, C-395/15; 9 marzo 2017, Petya Milkova, C-406/15; 11 aprile 2013, HK Danmark, C‑335/11 e C‑337/11;
  2. sulla nozione di lavoratore come identicamente delineata sia dall'art 45 TFUE sia dalla direttiva 2000/78, 19 luglio 2017, Abercrombie & Fitch Italia, C-143/16, e con particolare riguardo all'inclusione, in detta nozione, di persone che svolgono un tirocinio o periodi di apprendistato, 9 luglio 2015, Balkaya, C-229/14;
  3. sulla interpretazione della direttiva 2000/78 alla luce della Convenzione ONU, 21 ottobre 2021, Komisia za zashtita ot diskriminatsia

Giurisprudenza Corte di Cassazione: Cass. Sez. Un. n. 7755/1998, Cass. 3314/1999, Cass. n. 9624/2000, Cass. n. 7210/2001, Cass. n. 5721/2002, Cass. n. 15993/2002, Cass. n. 8832/2011, Cass. n. 6798/2018; Cass. n. 20497 del 2018, Cass. n. 27243/2018; Cass. n. 13649/2019; Cass. 27502/2019, Cass. n. 29289/2019, Cass. n. 34132/2019, Cass. 6497/2021.