Lavoro: il divieto di indossare segni religiosi, filosofici o spirituali non costituisce una discriminazione diretta se generale e indiscriminato

La Redazione
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13 Ottobre 2022

Lavoro: il divieto di indossare segni religiosi, filosofici o spirituali non costituisce una discriminazione diretta se applicata in maniera generale e indiscriminata. Secondo la Corte, la religione e le convinzioni personali devono essere considerate un solo e unico motivo di discriminazione, altrimenti pregiudicando il quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro stabilito dal diritto dell'Unione, più in particolare dalla direttiva 2000/78.

Dal 2018 è pendente una controversia tra L.F., una donna di fede musulmana che indossa il velo islamico, e la S.C.R.L., una società che gestisce alloggi popolari. La controversia verte sulla mancata presa in considerazione della candidatura spontanea a un tirocinio presentata da L.F. poiché, durante un colloquio, quest'ultima ha affermato che si sarebbe rifiutata di togliersi il velo per conformarsi alla politica di neutralità promossa all'interno della S.C.R.L. e prevista dal suo regolamento.

Qualche settimana più tardi, L.F. ha ripresentato la propria domanda di tirocinio presso la S.C.R.L., proponendo di indossare un altro tipo di copricapo, il che le è stato negato, in quanto nei locali della S.C.R.L. non era consentito l'uso di alcun copricapo, che si trattasse di un cappello, di un berretto, o di un velo. L.F. ha pertanto segnalato una discriminazione presso l'ente pubblico indipendente competente per la lotta contro la discriminazione in Belgio, prima di rivolgersi al tribunal du travail francophone de Bruxelles (Tribunale del lavoro di Bruxelles di lingua francese, Belgio) con un'azione inibitoria: L.F. contesta infatti alla S.C.R.L. di aver violato le disposizioni della legge generale belga contro le discriminazioni, in quanto, afferma, la mancata conclusione del contratto di tirocinio sarebbe fondata direttamente o indirettamente sulle sue convinzioni religiose.

Il tribunal du travail francophone de Bruxelles ha chiesto alla Corte se i termini «la religione o le convinzioni personali» presenti nella direttiva riguardante la parità di trattamento in materia di impiego e di condizioni di lavoro 1 debbano essere interpretati come due aspetti di uno stesso criterio protetto o, al contrario, come due criteri distinti. Esso chiede inoltre alla Corte se il divieto di portare un segno o un indumento connotato, contenuto nel regolamento di lavoro della S.C.R.L., costituisca una discriminazione diretta basata sulla religione.

Con la sua sentenza odierna, la Corte osserva che l'articolo della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che l'espressione «la religione o le convinzioni personali» ivi contenuta costituisce un solo e unico motivo di discriminazione che comprende tanto le convinzioni religiose quanto le convinzioni filosofiche o spirituali. La Corte ricorda, a tal proposito, che dalla sua giurisprudenza risulta che il motivo di discriminazione basato sulla «religione o le convinzioni personali» deve essere distinto dal motivo attinente alle «opinioni politiche o [a] qualsiasi altra opinione».

Rammentando specificamente le sentenze G4S Secure Solutions nonché Wabe e MH Müller Handel, la Corte rileva che una disposizione di un regolamento di lavoro di un'impresa che vieta ai dipendenti di manifestare verbalmente, con l'abbigliamento o in qualsiasi altro modo, le loro convinzioni religiose o filosofiche, di qualsiasi tipo, non costituisce, nei confronti dei dipendenti che intendono esercitare la loro libertà di religione e di coscienza indossando visibilmente un segno o un indumento con connotazione religiosa, una discriminazione diretta «basata sulla religione o sulle convinzioni personali», ai sensi del diritto dell'Unione, a condizione che tale disposizione sia applicata in maniera generale e indiscriminata.

Infatti, poiché ogni persona può avere una religione o convinzioni religiose, filosofiche o spirituali, una regola di tal genere, a condizione che sia applicata in maniera generale e indiscriminata, non istituisce una differenza di trattamento fondata su un criterio inscindibilmente legato alla religione o a tali convinzioni personali. Essa precisa che una norma interna come quella applicata presso la S.C.R.L. può tuttavia istituire una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali qualora venga dimostrato, circostanza che spetta al tribunal du travail francophone de Bruxelles verificare, che l'obbligo apparentemente neutro che essa contiene comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia.

La Corte aggiunge che una differenza di trattamento non costituirebbe una discriminazione indiretta qualora fosse oggettivamente giustificata da una finalità legittima e qualora i mezzi impiegati per il conseguimento di tali finalità fossero appropriati e necessari, ricordando al contempo che la semplice volontà di un datore di lavoro di condurre una politica di neutralità, sebbene costituisca, di per sé, una finalità legittima, non è sufficiente, in quanto tale, a giustificare in modo oggettivo una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, dato che il carattere oggettivo di una siffatta giustificazione può ravvisarsi solo a fronte di un'esigenza reale del datore di lavoro, che spetta a quest'ultimo dimostrare.

La Corte osserva infine che, in sede di valutazione dell'esistenza di una giustificazione a una discriminazione indiretta, il diritto dell'Unione non osta a che un giudice nazionale riconosca, nell'ambito del bilanciamento degli interessi divergenti, una maggiore importanza a quelli della religione o delle convinzioni personali rispetto a quelli risultanti, in particolare, dalla libertà d'impresa, purché ciò derivi dal suo diritto interno.

Essa precisa, a tal proposito, che il margine di discrezionalità riconosciuto agli Stati membri non può tuttavia estendersi fino a consentire a questi ultimi o ai giudici nazionali di scindere, in plurimi motivi, uno dei motivi di discriminazione elencati tassativamente all'articolo 1 della direttiva, salvo mettere in discussione il testo, il contesto e la finalità di tale motivo e pregiudicare l'effetto utile del quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro istituito dal diritto dell'Unione.

IMPORTANTE: Il rinvio pregiudiziale consente ai giudici degli Stati membri, nell'ambito di una controversia della quale sono investiti, di interpellare la Corte in merito all'interpretazione del diritto dell'Unione o alla validità di un atto dell'Unione. La Corte non risolve la controversia nazionale. Spetta al giudice nazionale risolvere la causa conformemente alla decisione della Corte. Tale decisione vincola egualmente gli altri giudici nazionali ai quali venga sottoposto un problema simile.