Accesso alle origini e tutela dell'anonimato della madre deceduta: la Cassazione mette un punto fermo
17 Ottobre 2022
Massima
L'esigenza di tutela dei diritti degli eredi e discendenti della donna che ha partorito avvalendosi della facoltà di non essere nominata è recessiva rispetto a quella del figlio che intende conoscere le proprie origini e, venendo meno per effetto della morte della madre l'esigenza di tutela dei diritti alla vita ed alla salute, non vi sono più elementi ostativi per la conoscenza del rapporto di filiazione. Il caso
Una donna esercita il diritto, previsto dall'art 28, l. 184/1983 nel testo vigente dopo la sentenza della Corte cost., 22 novembre 2013 n. 278, di far interpellare riservatamente la madre biologica rimasta anonima, per eventualmente conoscerne, con il suo consenso, l'identità. Il Tribunale per i minorenni di Milano, eseguite le ricerche e constatato che la madre è deceduta, nega l'accesso alle informazioni. La Corte d'appello di Milano, adita dalla donna, riforma il decreto, e se da un lato dispone che la figlia di ottenga copia autentica del certificato di assistenza al parto, la cartella clinica relativa e il certificato di morte della madre, dall'altro impone comunque un vincolo di riservatezza, con la conservazione presso la cassaforte della Corte di tutti gli altri atti e documenti del fascicolo. La Corte di merito osserva che il diritto all'anonimato non assurge a diritto fondamentale quale è quello del figlio biologico di tracciare le proprie origini, e comunque si è estinto con la morte della donna. Il Procuratore generale presso la Corte d'appello di Milano propone ricorso per cassazione, ritenendo che con questa decisione i giudici abbiano negato tutela al diritto della defunta all'immagine sociale, all'identità ed al trattamento dei dati personali. La questione
Sinteticamente può dirsi che la questione consiste nel verificare se, oltre ai diritti e agli interessi della madre e del figlio, nella fattispecie vengano in rilievo anche diritti ed interessi di terzi, segnatamente del nucleo familiare della madre e come detti diritti ed interessi debbano bilanciarsi. Le soluzioni giuridiche
La soluzione adottata dalla Corte di Cassazione individua, in linea di continuità con le precedenti decisioni, un punto di equilibrio tra i contrapposti interessi in gioco. Non si nega infatti che possano persistere, anche dopo la morte della donna, interessi di terzi, quali l'immagine e la reputazione, ma afferma che l'esigenza di tutela dei diritti degli eredi e discendenti della donna che ha optato per l'anonimato non può che essere recessiva rispetto a quella del figlio che rivendica il proprio status e, venendo meno, per effetto della morte della madre, l'esigenza di tutela dei diritti alla vita ed alla salute, ratio principale della norma che consente il parto anonimo, non vi sono più elementi ostativi non soltanto per la conoscenza del rapporto di filiazione, ma anche eventualmente per la proposizione dell'azione volta all'accertamento dello status di figlio nato fuori dal matrimonio, ex art. 269 c.c., purché ciò avvenga senza causare a terzi un danno, segnatamente danno non patrimoniale. Vale a dire che non è in discussione l'an del diritto ad accedere ai dati personali della madre deceduta, bensì il quomodo e che l'accesso deve essere circondato da cautele idonee a preservare gli interessi dei terzi, definiti in concreto e non in via meramente astratta, e salvo in ogni caso il diritto all'accesso di informazioni, non identificative, riguardanti le anamnesi familiari, con particolare riferimento all'eventuale presenza di malattie ereditarie trasmissibili. In questo ultimo caso l'anonimato sulla identità della madre è conservato, ma vengono rivelati i dati sanitari utili a proteggere la salute del figlio. Osservazioni
L'Italia è uno dei pochi paesi europei, insieme a Francia e Lussemburgo, che mantengono l'istituto del parto anonimo, per lungo tempo regolato da norme rigide: non solo era, ed è tuttora, consentito alla donna che partorisce di non essere nominata alla nascita, con ciò evitando l'attribuzione dello status e il sorgere delle relative responsabilità genitoriali, ma originariamente era anche precluso al figlio l'accesso alle informazioni sulla identità della madre, anche al solo fine di ricostruire la propria storia personale e non per rivendicare un legame giuridico. La ratio della norma è individuata nell'esigenza di preservare la salute psicofisica della madre e del bambino e di assicurare che il parto avvenga nelle condizioni ottimali tanto per la madre che per il figlio, offrendole una alternativa alla interruzione di gravidanza e soprattutto distogliendo la madre da “decisioni irreparabili”, quali l'aborto o il parto clandestino, nonché l'infanticidio. La rigidità del sistema è stata ritenuta irragionevole dalla Corte Europea dei diritti dell'Uomo, con la decisione del 25 settembre 2012 (Godelli c. Italia,) per la irreversibilità del segreto; infatti, originariamente, solo decorsi cento anni (e quindi dopo la morte certa della madre biologica, ma presumibilmente anche dopo quella del figlio) la legislazione italiana consentiva l'accesso pieno alle informazioni (art. 93 d.lgs. 196/2003). Di seguito, la Corte costituzionale con la citata sentenza n. 278/2013, additiva di principio, ha dichiaro l'art. 28, l. 184/1983 costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevede, attraverso un procedimento stabilito dalla legge che assicuri la massima riservatezza, la possibilità per il giudice, in tal senso richiesto dal figlio, di interpellare la madre che ha reso dichiarazione di anonimato al momento del parto, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione. Nonostante la dichiarazione di incostituzionalità, diversi tribunali minorili hanno continuato, per un certo tempo, ad applicare la norma caducata, negando l'interpello, poiché il legislatore non aveva (e non ha tuttora) provveduto a disciplinarlo. Così ad esempio il Tribunale per i minorenni di Bologna, (Trib. min. Bologna decr. 17 dicembre 2014) mentre in senso diverso si sono orientati il Tribunale per i minorenni di Firenze, (decr. 7 maggio 2014, n. 1890), il Tribunale per i minorenni di Trieste (Trib. min. Trieste, decr. 8 maggio 2015)e la Corte d'Appello Catania (decr. 5.12.2014, in Foro it. 2015,2,697). Per dirimere questo contrasto ed assicurare uniformità di tutela su tutto il territorio nazionale, sono intervenute le sezioni unite della Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 1946/2017, enunciando un principio di diritto nell'interesse della legge, hanno affermato che, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice di interpellare la madre con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale, idonee ad assicurare la massima riservatezza, utilizzando quel “contenitore neutro” che è il rito camerale, pur se la ricerca deve arrestarsi di fronte alla volontà contraria espressa dalla madre. Nella pratica si è quindi posto un altro problema: quid iuris se la madre è deceduta e non può esprimere il consenso a revocare la dichiarazione di anonimato? Anche in questo caso i giudici di merito si sono divisi: da una parte coloro che come la Corte d'appello di Milano ritengono che il diritto all'anonimato è un diritto personalissimo che si estingue con la morte del titolare e di conseguenza nulla osta a che il figlio possa accedere ai dati della madre anonima deceduta, dall'altro coloro che, in conformità all'orientamento del Tribunale per i minorenni di Milano, ritengono invece che sopravviva un diritto alla riservatezza in considerazione della identità sociale costruita nel tempo dalla donna, eliminando dalla sua storia personale la gravidanza indesiderata, identità sociale alla cui conservazione gli eredi possono avere interesse. Il Tribunale per i minorenni di Genova, ad esempio, ha affermato che non è possibile procedere alla divulgazione dei dati materni nel caso in cui si accerti che la madre deceduta aveva avuto altri figli durante la sua vita, potendo la rivelazione ledere il loro equilibrio psico-emotivo, verosimilmente all'oscuro dell'esistenza di altri figli. Di contro la giurisprudenza della Corte di Cassazione, (Cass. 21 luglio 2016, n. 15024; Cass. 9 novembre 2016, n. 22838; Cass. civ., 22 settembre 2020, n.19824) pur rilevando che può sussistere una esigenza di protezione anche dell'identità sociale costruita dalla madre in vita, specialmente in relazione al suo eventuale nuovo nucleo familiare, ne ha però sottolineato il carattere recessivo; diversamente, verrebbe di fatto reintrodotta quella "cristallizzazione" del segreto che la Corte costituzionale ha a suo tempo stigmatizzato, decretandosi la definitiva perdita del diritto del nato di conoscere le proprie origini. In tal senso sembra anche orientata la giurisprudenza amministrativa: il Tar Roma, sent. 1 febbraio 2022, n.1170 si è richiamato alla giurisprudenza della Suprema Corte secondo la quale non può considerarsi operativo, oltre il limite della vita della madre che ha partorito in anonimo, il termine previsto dall'art. 93, comma 2, d.lgs. n. 196/2003, di cento anni dalla formazione del documento per il rilascio della copia integrale del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che ha dichiarato di non voler essere nominata. Il parto anonimo costituisce una alternativa offerta alla donna rispetto alla interruzione di gravidanza, lecita, ma pur sempre traumatica, ovvero, nelle ipotesi peggiori, rispetto a comportamenti criminali quali l'infanticidio o l'abbandono di neonato. Inoltre, costituisce anche esplicazione del diritto all'oblio, e cioè di “spegnere le luci” su taluni avvenimenti della propria vita, interesse protetto dall'ordinamento. Con il decesso della madre, viene meno la ragion d'essere principale della norma, poiché non è più necessario tutelare né la vita, né la salute di madre e neonato, né il diritto della donna di consegnare all'oblio una parte della propria vita. Il diritto all'oblio tuttavia, in certa misura appartiene anche ai familiari superstiti: in primo luogo perché essi potrebbero non sapere che la donna ha partorito in anonimato, né conoscere la storia, talora traumatica, che si cela dietro la scelta di abbandonare il figlio. Inoltre, perché la identità sociale costruita negli anni dalla donna è una parte della sua vita privata e familiare e in quanto tale, appartiene anche a loro e non deve essere danneggiata. Tuttavia, non necessariamente l'esercizio del diritto da parte del nato con parto anonimo si traduce in un danno per i terzi. A tal proposito, non sembra sufficiente affermare che costoro potrebbero essere turbati dall'apprendere la notizia: in primo luogo perché non è detto che essi debbano mai apprenderla, dal momento le ricerche sono condotte riservatamente, le indicazioni sono fornite solo al figlio, e, se la richiesta del figlio è circoscritta alla rivelazione delle generalità della madre, non devono essere fornite ulteriori indicazioni che gli consentano di contattare gli altri familiari; inoltre, perché l'ipotesi del turbamento è una mera supposizione astratta, che ha lo stesso valore della ipotesi contraria e cioè che i terzi potrebbero essere lieti nell'apprendere dell'esistenza di un familiare (biologico); in ogni caso perché il “turbamento” che si può percepire nell'apprendere, ma sempre in via riservata, la notizia del passato “scabroso” della madre non necessariamente integra un danno non patrimoniale. Il danno non patrimoniale ha connotazioni rigorose ed è legato alla esigenza di tutelare beni costituzionalmente protetti dalle altrui illecite aggressioni. Potrebbe pertanto configurarsi solo ove si trasmodassero le modalità legali dell'esercizio del diritto (ad esempio non garantendo la riservatezza della procedura) eccedendo la finalità per la quale il diritto è stato riconosciuto, e in ogni caso solo qualora dall'atto derivasse un pregiudizio giuridicamente apprezzabile. Doverose pertanto le cautele, come afferma la Suprema Corte nella sentenza in esame, da valutare secondo il caso concreto, la cui adozione non può però estendersi alla negazione del diritto; del resto segreto assoluto e riservatezza sono due cose diverse e, come nel caso di specie, si può mantenere la seconda pur facendo venir meno il primo, ad esempio limitandosi a consegnare il certificato di assistenza al parto, la cartella clinica e il certificato di morte. Diverso è il caso in cui il richiedente espressamente proponga istanza, eventualmente dopo avere appresso della morte della madre, di conoscere l'identità di eventuali fratelli o sorelle biologiche. Sul punto si si è pronunciata la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6963/2018, riconoscendo il diritto dell'adottato di apprendere i dati concernenti le sorelle ed i fratelli adulti, ma previo interpello di questi mediante procedimento giurisdizionale idoneo ad assicurare la massima riservatezza, allo scopo di acquisirne il consenso o di constatarne il diniego, da ritenersi impeditivo dell'esercizio del diritto. In questo caso l'esistenza di un fratello biologico viene rivelata, seppure soltanto ai diretti interessati e quindi, almeno in parte, cade quello schermo che la madre aveva voluto frapporre tra la sua vita familiare e le vicende pregresse; tuttavia permane il diritto degli interpellati a negare ingresso nelle loro vite al fratello biologico, ad esempio allorché non intendano mutare la costruzione della propria identità o turbare il raggiunto equilibrio di vita, con la conseguenza che occorre procedere, in concreto, al bilanciamento delle rispettive posizioni. Riferimenti
V. Rascioni, Diritto alla conoscenza delle proprie origini vs diritto all'anonimato della madre biologica; in Ilfamiliarista, Giurisprudenza commentata del 01 ottobre 2021 S. Stefanelli, Diritto all'identità, in Trattato di Diritto Civile, diretto da R. Sacco, 4, Le Persone e la Famiglia, Milano 2018. |