Mancato rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE da parte del giudice di ultima istanza: conseguenze di tale omissione

Lorenzo Reis
Lorenzo Reis
25 Ottobre 2022

La controversia sottoposta al Consiglio di Stato ha a oggetto un provvedimento adottato dal Comitato tecnico regionale delle Marche nei confronti di una società che gestisce un impianto di trattamento di rifiuti liquidi.
Massime

Alla Corte di Giustizia dell'Unione europea la questione sulla sussistenza dell'obbligo per il giudice di ultima istanza di sollevare questione pregiudiziale ai sensi dell'art. 267 TFUE anche in assenza di un ragionevole dubbio sul significato da attribuire alla disposizione del diritto europeo rilevante nel caso di specie, ma con riferimento alla quale non sia possibile provare in maniera circostanziata che altri organi giurisdizionali, nazionali o europei, non possano fornire una diversa interpretazione;

Alla Corte di Giustizia dell'Unione europea la questione sulla possibilità di escludere che il giudice nazionale di ultima istanza, che abbia ricusato la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia della Unione europea, sia sottoposto automaticamente, o a discrezione della parte che propone l'azione, a un procedimento per responsabilità civile e disciplinare.

Alla Corte di Giustizia dell'Unione europea la questione sul se la definizione di “presenza di sostanze pericolose” di cui all'art. 3, n. 12, della Direttiva 2012/18/UE osti a una prassi secondo la quale la previsione dei quantitativi di sostanze pericolose presenti all'interno di un impianto di trattamento dei rifiuti sia rimessa ad una procedura operativa implementata dal gestore la quale contempli il costante monitoraggio del quantitativo delle sostanze pericolose presenti nell'impianto e garantisca il non superamento della soglia inferiore e della soglia superiore previste nella colonna 2 e nella colonna 3 dell'allegato 1 della Direttiva 2012/18/UE.

Il caso

La controversia sottoposta al Consiglio di Stato ha a oggetto un provvedimento adottato dal Comitato tecnico regionale delle Marche nei confronti di una società che gestisce un impianto di trattamento di rifiuti liquidi. Alla società veniva richiesto il rispetto di alcuni obblighi discendenti dall'applicazione del decreto legislativo n. 105 del 2015 (di recepimento della Direttiva 2012/18/UE, nell'ambito della c.d. normativa Seveso); la disciplina citata dal Comitato trova applicazione al superamento di una prestabilita soglia di rifiuti, per determinare il quale richiede di prendere a riferimento non solo le quantità effettivamente detenute volta per volta nell'impianto, ma anche quelle massime previste.

La società ricorreva dinanzi al TAR sottolineando di aver predisposto un meccanismo che garantiva un monitoraggio costante della quantità di rifiuti presenti nell'impianto e che tale meccanismo consentisse di evitare l'applicazione della disciplina appena richiamata.

Il TAR tuttavia respingeva i motivi di ricorso, affermando l'incompatibilità del meccanismo prospettato dalla società con la Direttiva 2012/18/UE, in quanto essa testualmente considera anche la “presenza prevista” di sostanze pericolose; al contempo, respingeva la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia in ragione della sufficiente chiarezza delle disposizioni della Direttiva citata.

Il Consiglio di Stato ritiene di confermare le conclusioni del giudice di primo grado; ciò nondimeno, solleva alcune questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia dell'Unione europea ai sensi dell'art. 267 TFUE per ottenere innanzitutto una precisazione sulla possibilità di evitare il rinvio pregiudiziale qualora non vi sia un ragionevole dubbio sul significato da attribuire alla disposizione europea; per il caso in cui il rinvio venga ritenuto necessario, il Collegio chiede inoltre se la definizione dettata dalla disciplina europea di “presenza di sostanze pericolose” osti alla remissione della sua individuazione a un sistema di monitoraggio del quantitativo di sostanze pericolose presenti nell'impianto che garantisca il mancato superamento delle soglie stabilite.

La questione

Il Consiglio di Stato ha dovuto affrontare principalmente due questioni giuridiche.

Una prima riguarda l'interpretazione della disciplina europea e di quella interna di recepimento e nello specifico l'interpretazione del concetto di “presenza prevista di sostanze pericolose”, ai fini dell'applicabilità o meno della normativa Seveso; tale concetto è definito dall'art. 3, lett. n), del d.lgs. n. 105/2015, che riprendendo quanto previsto dall'art. 3, n. 12, della Direttiva 2012/18/UE stabilisce che per “presenza di sostanze pericolose” debba intendersi “la presenza, reale o prevista, di sostanze pericolose nello stabilimento, oppure di sostanze pericolose che è ragionevole prevedere che possano essere generate, in caso di perdita del controllo dei processi, comprese le attività di deposito, in un impianto in seno allo stabilimento (…)”.

In particolare la questione consiste nel se per integrare la nozione di “presenza prevista” sia sufficiente l'esito di un monitoraggio effettuato internamente oppure se si debba far riferimento alla quantità massima di rifiuti pericolosi trattabili dall'impianto come indicata nell'Autorizzazione Integrata Ambientale (A.I.A).

La seconda questione giuridica, di più ampia portata e di cui la prima costituisce l'occasione, investe i limiti entro i quali il giudice nazionale di ultima istanza può scegliere legittimamente di non effettuare il rinvio pregiudiziale obbligatorio alla Corte di Giustizia dell'Unione europea ex art. 267 TFUE. In particolare, la questione verte sul se il rinvio sia obbligatorio anche qualora il giudice non nutra ragionevoli dubbi interpretativi sulla soluzione da fornire alla questione interpretativa, ma al contempo non possa dimostrare con certezza che la propria interpretazione sarebbe condivisa da tutti i giudici degli Stati membri e dalla Corte stessa.

Le soluzioni giuridiche

Nell'affrontare la prima delle due questioni sopra menzionate, il Collegio ha analizzato il concetto di “presenza di sostanze pericolose” osservando che la disciplina interna considera sia le sostanze effettivamente presenti nello stabilimento (“presenza reale”) sia quelle che si prevede possano esserlo (“presenza prevista”), come esplicitamente richiesto dall'art. 3, n. 12, della Direttiva 21012/18/UE e ribadito nell'allegato I, nota n. 3, della Direttiva.

Prendere in considerazione esclusivamente un sistema di monitoraggio della quantità di sostanze realmente presenti nello stabilimento avrebbe l'effetto di non applicare integralmente la disciplina, che richiede di considerare anche la presenza “prevista” e dunque i quantitativi potenzialmente presenti. La soluzione giuridica prospettata dal Collegio è dunque funzionale a garantire il pieno rispetto del diritto europeo.

Così agevolmente risolta la prima questione giuridica, e proprio in virtù della sua ritenuta chiarezza, il Collegio affronta la seconda questione relativa alla obbligatorietà di effettuare il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, chiesto dal ricorrente, nonostante non sia emerso un ragionevole dubbio interpretativo.

Seguendo i canoni dettati dalla stessa Corte di Giustizia, secondo i quali il giudice di ultima istanza è tenuto a rivolgersi alla Corte in via pregiudiziale in presenza del “minimo dubbio” riguardo all'interpretazione del diritto dell'Unione e che “l'assenza di dubbi in tal senso necessita di prova circostanziata” (CGUE, 28 luglio 2016, C-379/15, Association France Nature Environnement, punti 51 e 52), il Collegio conclude di non poter fornire la prova dell'impossibilità che un altro giudice, nazionale o europeo, aderisca a una diversa interpretazione della norma in questione.

Di conseguenza, visto anche il rischio di incorrere in una fattispecie di responsabilità dello Stato per violazione del diritto europeo e dello stesso magistrato, anche in via disciplinare, proprio a causa del mancato rispetto dell'obbligo di rinvio previsto dall'art. 267 del TFUE, il Collegio decide per il rinvio, formulando i seguenti quesiti:

- se la corretta interpretazione dell'art. 267 TFUE imponga al giudice nazionale di ultima istanza di effettuare il rinvio pregiudiziale anche laddove non vi sia un ragionevole dubbio interpretativo ma comunque non sia possibile provare che l'interpretazione attribuita sia la stessa che fornirebbero sul tema gli organi giudicanti di altri Stati membri e dell'Unione Europea;

- se sia possibile interpretare l'art. 267 TFUE nel senso di escludere che il giudice nazionale di ultima istanza che abbia ricusato la richiesta di rinvio pregiudiziale sia sottoposto automaticamente e invariabilmente a un procedimento per responsabilità civile e disciplinare;

- nel caso in cui venga data risposta negativa ai precedenti quesiti, se la definizione di “presenza di sostanze pericolose” di cui alla Direttiva 2012/18/UE osti a un meccanismo che rimetta la previsione dei quantitativi di sostanze a una procedura del gestore, consistente nel costante monitoraggio del quantitativo delle sostanze pericolose presenti all'interno dell'impianto e in grado di garantire il non superamento delle soglie di cui alla Direttiva stessa.

Nel rimettere le questioni alla Corte di Giustizia, il Consiglio di Stato si pone così in continuità con la sua più recente giurisprudenza (da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, 14 settembre 2021, n. 6290) che mostra di nutrire i medesimi dubbi sul perimetro dell'obbligo di rinvio pregiudiziale.

Osservazioni

La linearità della risoluzione alla questione giuridica relativa al concetto di “presenza di sostanze pericolose” rende il caso di specie particolarmente adatto ad affrontare il tema dei caratteri che deve possedere il dubbio sull'applicazione della disciplina europea per imporre il rinvio pregiudiziale. O meglio, nella prospettiva del più ampio utilizzo dello strumento del rinvio pregiudiziale, dei caratteri che deve possedere tale dubbio per consentire al giudice di non effettuare il rinvio.

Su questo aspetto occorre considerare che la Corte di Giustizia, fin dalla sentenza del 6 ottobre 1982, in causa C 283/81, Cilfit, aveva configurato l'obbligo di rinvio pregiudiziale come uno strumento volto a scongiurare il rischio di formazione di una giurisprudenza nazionale definitiva in contrasto con le norme del diritto dell'Unione.

L'obbligo di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE per il giudice di ultima istanza costituisce dunque uno dei pilastri per l'uniformità di applicazione del diritto europeo, al punto che la sua violazione configura un inadempimento dello Stato membro, anche per il tramite di un organo giurisdizionale (sul tema la sentenza in commento cita CGUE, 4 ottobre 2018, C-416/17, Commissione c. Repubblica francese).

Tuttavia tale obbligo incontra alcuni limiti: infatti tradizionalmente esso viene meno in caso di irrilevanza della questione, non novità (cioè qualora la Corte di Giustizia abbia già fornito la propria interpretazione sul tema), o ancora nell'ipotesi in cui la corretta applicazione della norma sia talmente evidente da non lasciar persistere alcun ragionevole dubbio (c.d. atto chiaro).

Proprio su quest'ultimo requisito la Corte di Giustizia nella citata sentenza Cilfit aveva affermato che al giudice nazionale spetta il compito di verificare l'assenza di ragionevoli dubbi, attraverso il “convincimento che la stessa evidenza si imporrebbe anche ai giudici degli altri Stati membri ed alla Corte di Giustizia. Solo in presenza di tali condizioni il giudice nazionale può astenersi dal sottoporre la questione alla corte risolvendola sotto la propria responsabilità” (punto 16).

Tale eventualità andrebbe indagata prendendo a riferimento sia le caratteristiche generali del diritto dell'Unione sia quelle particolari della norma da interpretare. Sarebbe dunque necessario innanzitutto confrontare le diverse versioni linguistiche in cui la disposizione è stata redatta; poi verificare che la nozione giuridica possieda lo stesso significato nei diversi ordinamenti degli Stati membri; infine, attraverso un'interpretazione sistematica, accertare la coerenza della disposizione rispetto al complesso del diritto dell'Unione, anche considerando il suo stato evolutivo al momento dell'applicazione della norma.

Le successive pronunce della Corte di Giustizia, tra cui in particolare la citata sentenza Association France Nature Environnement, hanno confermato i principi sopra esposti, ma utilizzando espressioni che in un certo senso hanno sortito l'effetto di aumentare i dubbi interpretativi, specie laddove la Corte ha specificato sia che il giudice nazionale di ultima istanza debba rivolgersi alla Corte in via pregiudiziale in presenza del “minimo dubbio” riguardo all'interpretazione o all'applicazione del diritto dell'Unione sia che l'assenza di tale dubbio vada provata in modo circostanziato.

I sempre più frequenti dubbi del giudice nazionale si attestano proprio su tale probatio diabolica, come la definisce il Consiglio di Stato, che imporrebbe anche l'onere di escludere l'eventualità che un altro giudice, europeo o di un altro Stato membro, aderisca a una diversa interpretazione della norma.

Se alla difficoltà intrinseca dell'accertamento – e dunque alla probabilità di commettere un errore – si aggiunge la gravità delle conseguenze, consistenti nella responsabilità dello Stato membro e del giudice, si comprende la delicatezza della questione.

Va infatti ricordato che, in base all'art. 2, comma 3-bis, della legge n. 117 del 1988, nel giudizio sulla violazione manifesta del diritto dell'Unione europea rileva anche la mancata osservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'articolo 267, terzoparagrafo, del TFUE.

Si comprende quindi come il rinvio pregiudiziale possa finire con l'essere utilizzato come strumento difensivo, volto a proteggersi dal rischio di proposizione di azioni di risarcimento del danno e di avvio di un procedimento disciplinare ai sensi dell'art. 9, comma 1, della legge n. 117/1988.

Ovviamente non sfugge come una tale distorsione confligga con il principio della ragionevole durata del processo, di origine sia costituzionale (art. 111, comma 2, Cost.) che unionale (art. 47, paragrafo 2, Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea), e possa comportare una lesione dell'indipendenza del giudice e della libertà con cui egli forma il proprio convincimento.

Nella sentenza in commento, il Collegio sottolinea anche la mancanza di parametri utili a concludere che non residui un “minimo dubbio”, giungendo alla conclusione che l'unico modo per fornire la prova circostanziata sia accertare l'esistenza di precedenti riguardanti la medesima questione e già decisi in via pregiudiziale.

A ben vedere, se a ciò si riducesse il ruolo del giudice nazionale, ci si troverebbe di fronte a una mera attività di verifica circa l'esistenza del dubbio, senza affrontare invece il tema della sua ragionevolezza. In altre parole, una volta accertato che la questione non sia già stata affrontata dalla Corte e che dunque il dubbio esiste, in mancanza di ulteriori parametri di valutazione, ci si avvicinerebbe all'ossimoro di una presunzione assoluta di ragionevolezza.

L'ulteriore conseguenza, non esplicitata dal Collegio ma paventata in dottrina, sarebbe quella di una pressoché totale remissione dell'attività interpretativa di ultima istanza in capo al giudice europeo, da cui occorrerebbe ottenere un riscontro su ogni questione giuridica.

Restando sullo sfondo tali scenari, il Collegio immagina due percorsi alternativi: il primo, di carattere soggettivo, prevede che il giudice debba motivare sull'interpretazione che i giudici degli altri Stati membri e dalla Corte di Giustizia potrebbero fornire sulla medesima questione, giungendo in ultima analisi alla probatio diabolica di cui sopra; il secondo percorso – condiviso dal Collegio - mira invece a dare uno spazio applicativo alle condizioni dettate dalla Corte e a salvaguardare il ruolo cooperativo del giudice nazionale: per far ciò, si attesta su un piano oggettivo e si estrinseca in un giudizio di manifesta infondatezza della questione pregiudiziale, considerando la terminologia e il significato propri del diritto unionale, il contesto normativo europeo e la ratio della disciplina, anche con riferimento al suo stadio evolutivo al momento in cui viene data applicazione alla norma.

Sul punto è opportuno segnalare una recente pronuncia della Corte di Giustizia da cui si potrebbero trarre alcuni spunti a sostegno del percorso interpretativo condiviso dal Consiglio di Stato: si tratta della sentenza 6 ottobre 2021, causa C-561/2019, Consorzio Italian Management, Catania Multiservizi SpA contro Rete Ferroviaria Italiana SpA.

In tale pronuncia, sempre relativa all'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 267 TFUE e alle sue deroghe, la Corte di Giustizia pare aver fornito quantomeno una prima conferma della tesi che non ritiene sufficiente uno scrutinio sulla semplice esistenza di un qualsiasi minimo dubbio e che rimette l'ulteriore attività di indagine sulla sua ragionevolezza al giudice nazionale. La Corte afferma infatti chela mera possibilità di effettuare una o diverse altre letture di una disposizione del diritto dell'Unione, nei limiti in cui nessuna di queste altre letture appaia sufficientemente plausibile al giudice nazionale interessato, segnatamente alla luce del contesto e della finalità di detta disposizione, nonché del sistema normativo in cui essa si inserisce, non può essere sufficiente per considerare che sussista un dubbio ragionevole quanto all'interpretazione corretta di tale disposizione” (punto 48).

Merita sottolineare che i parametri indicati dalla Corte nell'ultima sentenza citata - e segnatamente il contesto e la finalità della disposizione, nonché il sistema normativo in cui essa si inserisce - possiedono tutti quel carattere oggettivo che il Consiglio di Stato ritiene debba caratterizzare lo scrutinio del giudice sull'assenza di un ragionevole dubbio in tema di rinvio pregiudiziale.