Libertà di circolazione dei capitali e trattamento fiscale dei fondi immobiliari: alcune riflessioni

Andrea Venegoni
26 Ottobre 2022

La normativa eurounitaria (in particolare l'articolo 56 TCE divenuto, in seguito, articolo 63 TFUE) osta ad una normativa nazionale che limiti il beneficio della riduzione delle imposte ipotecarie e catastali ai soli fondi immobiliari chiusi, escludendo quelli aperti (purché le due categorie di fondi si trovino in situazioni oggettivamente comparabili ed a meno la differenza di trattamento non sia giustificata dall'obiettivo di limitare rischi sistemici sul mercato immobiliare”) nonché ad una normativa nazionale che, riservando ai soli fondi d'investimento aventi forma contrattuale il beneficio dell'esenzione di particolari tipologie di redditi e di utili, escluda dal beneficio di tale esenzione un fondo d'investimento non residente avente, in conformità con la normativa dello stato di appartenenza forma statutaria.
Introduzione

Appare opportuno iniziare questa trattazione dalla decisione della Corte di Giustizia del 16/12/2021 nelle cause C- 478/19 e 479/19, la quale, così come il procedimento che ha portato alla decisione stessa, si caratterizza per la varietà di questioni coinvolte.

Trattandosi di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 267 TFUE, la pronuncia deriva, infatti, da un provvedimento dell'autorità giudiziaria, nella specie italiana e, in particolare, la sezione tributaria della Corte di Cassazione.

Per l'esattezza si tratta di due rinvii nell'ambito di due procedimenti, ma gli stessi hanno il medesimo oggetto e quindi, in sostanza, la questione è unica.

La ragione della pendenza di due procedimenti sulla medesima questione deriva dal fatto che la causa principale ha ad oggetto l'impugnazione del rigetto della domanda di rimborso della maggiore imposta ipotecaria e catastale versata dalla società ricorrente relativamente a due immobili, e per questo la società ha impugnato separatamente i due silenzi-rigetto, ma, come detto, la questione è la stessa, tanto che la Corte di Giustizia ha unificato i due procedimenti ed emesso un'unica sentenza.

La questione è, in sé, abbastanza semplice.

La società interessata, una società di gestione del risparmio con sede legale in Germania, che gestisce due fondi di investimento immobiliare “aperti”, nell'ottobre 2006 acquistava due immobili nei pressi di Milano versando allo Stato italiano l'imposta ipotecaria e catastale nella misura prevista dal decreto legislativo del 31 ottobre 1990, n. 347, salvo rendersi conto, successivamente, che pochi mesi prima, con il d.l. 4 luglio 2006 n. 223, convertito in legge con modificazioni dalla legge del 4 agosto 2006, n. 248, le aliquote per operazioni coinvolgenti fondi immobiliari “chiusi”, con decorrenza proprio dal 1 ottobre 2006 erano state ridotte alla metà.

Ritenendo che i fondi di investimento “aperti” avessero anch'essi diritto di beneficiare di tale riduzione, la medesima società di gestione chiedeva all'Agenzia delle Entrate il rimborso della metà delle somme versate a titolo di tali imposte, per quanto riguarda i due complessi immobiliari che essa aveva acquistato per conto dei suddetti fondi immobiliari.

A fronte del silenzio rifiuto dell'ufficio, lo impugnava davanti alla CTP di Milano che respingeva i due separati ricorsi (uno contro ciascun silenzio rifiuto sulla domanda di rimborso), così come la CTR della Lombardia respingeva l'appello proposto dalla stessa società.

Quest'ultima ricorreva, allora, alla Corte di Cassazione che, con due ordinanze della sez. V civile, tributaria, aventi, come detto, lo stesso oggetto, la n. n. 15432 e 15433 del 2019, effettuava il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.

Il motivo per cui nelle fasi di merito le Commissioni Tributarie avevano respinto la domanda della società è molto lineare: poiché la misura prevista dal d.l. 223 del 2006, e cioè la riduzione alla metà delle aliquote dell'imposta ipotecarie e catastale, riguarda operazioni in cui sono coinvolti fondi “chiusi”, la lettera della legge riflette la chiarissima volontà del legislatore di riservare l'agevolazione solo a questo tipo di fondi, con esclusione di qualunque interpretazione estensiva o analogica ad altri tipi di fondi, anche perché le norme che prevedono agevolazioni sono, in diritto tributario, eccezionali e di stretta interpretazione.

Il tentativo della società di qualificare la misura del d.l. 223 del 2006 come disposizione “esentativa di principio" anziché un'agevolazione (con possibilità di un'interpretazione più ampia a situazioni analoghe, e, quindi, nella specie anche a fondi “aperti”) è disattesa dalla Cassazione sulla base della considerazione per cui l'”esenzione” comporta la non applicazione dell'imposta ad una fattispecie che, ordinariamente, ne realizzerebbe il presupposto, mentre l'”agevolazione” è una deroga al regime ordinario che riduce il peso dell'imposta.

Ravvisa, quindi, nella specie la categoria dell'agevolazione, come detto non suscettibile di interpretazione estensiva o analogica, e quindi conferma che la stessa è applicabile sol ai fondi “chiusi”.

Questo pone, però, una serie di questioni sulla legittimità della normativa che prevede tale agevolazione.

Una prima questione è se essa sia conforme al principio di uguaglianza previsto dalla nostra Costituzione. Si tratta, quindi, di un vaglio di costituzionalità della norma del d.l. 223 del 2006, che viene superato atteso che, secondo la Cassazione, la differenza strutturale e di funzionamento dei due tipi di fondi fa sì che un diverso trattamento fiscale (che ha alle spalle, naturalmente, una politica fiscale di favore verso i fondi chiusi, anche negli investimenti in Italia) non violi il suddetto principio di uguaglianza.

Del resto, lo stesso viene ormai pacificamente declinato, sulla base dell'interpretazione della Corte Costituzionale, nel senso che situazioni diverse autorizzano trattamenti normativi diversi.

Ma, in quanto giudice di ultima istanza, la Corte di Cassazione è anche, in sostanza, obbligata a porsi un secondo quesito, quale giudice appartenente al sistema eurounitario, e cioè la compatibilità di tale normativa con i principi dei Trattati dell'Unione Europea, in particolare, nella specie, di libertà di stabilimento, di libera circolazione dei capitali, di divieto di doppia imposizione, e su questa base sottopone la questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia.

In questo svolgimento processuale, due rilievi appaiono fin da subito importanti da sottolineare; essi non attengono strettamente al diritto tributario, ma sono fondamentali nell'evoluzione del diritto ad opera di quello che si può definire il “formante giurisprudenziale”, e quindi a pieno diritto coinvolgono lo stesso diritto tributario. Gli stessi riguardano il ruolo del giudice di ultima istanza nella sottoposizione del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ed i parametri valutativi della legittimità di una norma.

Obbligatorietà del rinvio

Sul primo punto, emerge dalla vicenda il diverso ruolo che rivestono rispetto alla possibilità di interpellare la Corte di Giustizia i giudici delle fasi di merito ed il giudice di ultima istanza, la Corte di Cassazione. È lo stesso art. 267 TFUE a prevedere l'obbligo del rinvio pregiudiziale da parte del giudice contro le cui decisioni non sono previsti ulteriori gradi di impugnazione, come nel caso della Corte di Cassazione. Successivamente, come noto, i termini della questione, e la possibilità di evitare di disporre il rinvio pregiudiziale anche da parte del giudice di ultima istanza, sono stati precisati dalla stessa Corte di Giustizia a partire dalla decisione nel noto caso “Cilfit”, nella causa C-283/81, secondo cui il giudice di ultima istanza «può essere esonerato da tale obbligo solo quando abbia constatato che la questione sollevata non è rilevante, o che la disposizione del diritto dell'Unione di cui trattasi è già stata oggetto d'interpretazione da parte della Corte [acte éclairé], oppure che la corretta interpretazione del diritto dell'Unione si impone con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi [acte clair]».

Nella specie, la stessa Corte di Cassazione chiarisce, nelle ordinanze di rinvio, che “sui controversi specifici temi non risultano precedenti esegesi pregiudiziali da parte della Corte di Giustizia”, per cui i presupposti per adempiere l'obbligo del rinvio pregiudiziale erano pienamente sussistenti, anche alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia sui presupposti del rinvio formatasi successivamente alle due ordinanze della Cassazione nel caso in questione.

Ci si riferisce, in particolare, alla recente decisione del 6 ottobre 2021, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi S.p.A. c. Rete Ferroviaria Italiana S.p.A., nella causa C-561/19, in cui la Corte di Lussemburgo ha precisato che L'articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto interno deve adempiere il proprio obbligo di sottoporre alla Corte una questione relativa all'interpretazione del diritto dell'Unione sollevata dinanzi ad esso, a meno che non constati che tale questione non è rilevante o che la disposizione di diritto dell'Unione di cui trattasi è già stata oggetto d'interpretazione da parte della Corte o che la corretta interpretazione del diritto dell'Unione s'impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi. Tale giudice non può essere esonerato da detto obbligo per il solo motivo che ha già adito la Corte invia pregiudiziale nell'ambito del medesimo procedimento nazionale. Tuttavia, esso può astenersi dal sottoporre una questione pregiudiziale alla Corte per motivi d'irricevibilità inerenti al procedimento dinanzi a detto giudice, fatto salvo il rispetto dei principi di equivalenza e di effettività.

Nella specie, quindi, è stato non solo opportuno, ma ineccepibile il rinvio pregiudiziale compiuto dalla Cassazione, atteso che, come detto, sul tema non esistevano precedenti della Corte di Giustizia.

Pluralità di parametri

L'altro elemento che emerge dalla vicenda processuale in questione è quello per cui la Corte di Cassazione ha, sempre giustamente ed in maniera ineccepibile, sottoposto la questione ad una valutazione coinvolgente più parametri, in quanto non solo giudice di ultima istanza nazionale, ma anche giudice europeo.

Non solo, quindi, la conformità della norma a Costituzione, ma anche ai principi dei Trattati UE, senza che un primo vaglio escluda l'altro.

Si tratta di un tema che è stato molto sviluppato in rapporto all'esigenza di tutela dei diritti fondamentali alla luce non solo dei principi costituzionali, ma anche di quelli degli ordinamenti sovranazionali cui l'Italia appartiene (non va, infatti, dimenticato anche il sistema della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, anche se nel campo oggetto della pronuncia, quello tributario, esso rimane certamente più sullo sfondo).

Nella specie, il fatto che il primo scrutinio sia stato compiuto in rapporto alla Costituzione e solo dopo che esso è stato ritenuto manifestamente infondato il giudice sia passato allo scrutinio ella norma alla luce del diritto dell'Unione potrebbe essere spiegato non tanto come espressione di una priorità di parametri, ma, semplicemente, alla luce della evidente infondatezza della questione di legittimità costituzionale e della, invece, maggiore complessità della conformità a principi europei direttamente applicabili (si veda sul punto, Corte Cost. n. 269 del 2017, paragrafo 5 e ss.).

La sentenza della Corte di Giustizia nelle cause C- 478/19 e 479/19

Con la decisione in commento la Corte di Giustizia chiarisce, quindi, la questione rinviata dalla Corte di Cassazione.

Il chiarimento, però, non è definitivo, perché, in sintesi, la risposta definitiva è subordinata ad un elemento che non appare esplicitato nelle ordinanze della Cassazione, e cioè la ratio dell'agevolazione in favore dei soli fondi chiusi.

Intanto, la sentenza precisa che nel caso di specie ci si trova al di fuori del campo di operatività della direttiva 2011/61/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'8 giugno 2011 (direttiva 2011/61/UE dell'8 giugno 2011 sui gestori di fondi di investimento alternativi, che modifica le direttive 2003/41/CE e 2009/65/CE e i regolamenti (CE) n. 1060/2009 e (UE) n. 1095/2010), la quale fissa le norme in materia di autorizzazione, funzionamento e trasparenza dei gestori di fondi di investimento alternativi (GEFIA) che gestiscono e/o commercializzano fondi di investimento alternativi (FIA) nell'Unione. La vicenda in questione, infatti, risale al 2006, quando la direttiva non era in vigore.

La libertà che viene in questione, poi, è identificata in quella della circolazione dei capitali (art 63 TFUE) più che la libertà di stabilimento (par. 33), cosicché la Corte afferma che “occorre esaminare se il criterio relativo al tipo «aperto» o «chiuso» del fondo immobiliare possa costituire una restrizione, vietata, in linea di principio, dall'articolo 56, paragrafo 1, CE (divenuto, in seguito a modifica, articolo 63, paragrafo 1, TFUE)”.

La Corte osserva, ancora, che il giudice del rinvio non ha chiarito il motivo per cui il beneficio fiscale di cui trattasi nei procedimenti principali è stato previsto nel diritto italiano, avendo solo indicato che l'obiettivo del legislatore italiano sotteso al vantaggio fiscale conferito dall'articolo 35, comma 10-ter, del decreto-legge n. 223/2006 ai fondi immobiliari chiusi potrebbe consistere nel tutelare e nell'avvantaggiare la costituzione di fondi di investimento non connotati da intenti fortemente speculativi e aleatori.

La società ricorrente sostiene che scopo della normativa è evitare la doppia imposizione e quindi in questo senso fondi aperti e chiusi si trovano nella stessa posizione (par 52), per cui la agevolazione dovrebbe essere applicabile anche ai fondi aperti.

Al riguardo, la Corte afferma che spetterà al giudice del rinvio determinare, tenendo conto di tutti gli elementi della normativa tributaria nazionale oggetto dei procedimenti principali e del regime fiscale nazionale interessato nella sua globalità, l'obiettivo principale perseguito da detta normativa.

In questo senso, ove il giudice del rinvio concluda che l'obiettivo dell'articolo 35, comma 10-ter, del decreto-legge n. 223/2006 è quello di evitare che un fondo sia penalizzato da una doppia imposizione in occasione dell'acquisto di beni e della loro successiva rivendita, si deve ritenere che, alla luce di tale obiettivo e come ha rilevato l'avvocato generale al paragrafo 81 delle sue conclusioni, i fondi aperti e quelli chiusi si trovino in situazioni oggettivamente comparabili.

Se, invece, la ratio dell'agevolazione fosse di trattare differentemente le due categorie di fondi e penalizzare quelli più speculativi (fondi aperti), questo, però, non giustifica il vantaggio fiscale (par. 57-59).

Se, poi, il motivo è prevenire elusione ed evasione fiscale, la misura in questione non sembra, secondo la Corte, appropriata a tale fine e compatibile.

Qualora il motivo fosse quello di privilegiare i fondi chiusi in quanto sicuramente nazionali (dato che la normativa italiana non prevede fondi aperti, quindi l'agevolazione in questione riguarderebbe necessariamente fondi italiani), l'Italia non ha dimostrato che il vantaggio fiscale concesso ai fondi italiani chiusi fosse compensato da un prelievo fiscale determinato, giustificando così l'esclusione dei fondi immobiliari disciplinati dal diritto di Stati membri diversi dalla Repubblica italiana dal beneficio di tale vantaggio (par 67).

In tal senso, anche l'obiettivo di favorire un determinato tipo di risparmio, in certi tipi di fondi (chiusi) puramente nazionali, e quindi un obiettivo di natura puramente economica, non può giustificare una restrizione a una libertà fondamentale garantita dai Trattati (sentenza del 25 febbraio 2021, Novo Banco, C712/19, EU:C:2021:137, punto 40 e giurisprudenza ivi citata) (par. 70).

In conclusione, la Corte risponde alla questione sollevata dichiarando che l'articolo 56 CE (divenuto, in seguito a modifica, articolo 63 TFUE) deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa di uno Stato membro che limita il beneficio della riduzione delle imposte ipotecarie e catastali ai soli fondi immobiliari chiusi, escludendo quelli aperti, purché queste due categorie di fondi si trovino in situazioni oggettivamente comparabili, a meno che una siffatta differenza di trattamento non sia giustificata dall'obiettivo di limitare rischi sistemici sul mercato immobiliare.

La sentenza nella causa C-342/20

La questione, però, evidentemente non riguarda solo il sistema italiano, perché pochi mesi dopo la pronuncia della Corte nel caso sopra descritto, quest'ultima è stata chiamata nuovamente a pronunciarsi su un caso che presenta forti elementi di analogia con il primo.

Nella specie si trattava dell'imposta sul reddito in Finlandia, Paese nel quale, a fronte del principio generale per cui il reddito percepito in Finlandia va assoggettato ad imposta in quello Stato, ed esso comprende il reddito derivante da beni immobili ivi situati, dall'1 gennaio 2020 è stata introdotta una norma secondo la quale sono esenti dall'imposta sul reddito, tra gli altri, i fondi d'investimento esteri aperti, istituiti per contratto, le cui quote siano detenute da almeno 30 titolari.

Una società per azioni semplificata a capitale variabile di diritto francese d'investimento immobiliare – che investe in beni immobili situati in Paesi della zona euro affittandoli ad imprese – ha prodotto in base a tale attività reddito in Finlandia nel 2019 e 2020. La società, come riconosce la sentenza, è tecnicamente qualificabile come fondo d'investimento alternativo ai sensi della direttiva 2011/61; la stessa ha sede legale in Francia e nessuna sede secondaria in Finlandia.

Per l'anno 2020, a seguito dell'entrata in vigore della nuova normativa sopra ricordata, la società si chiede se possa rientrare tra i soggetti esenti dal pagamento dei redditi prodotti in Finlandia.

L'amministrazione fiscale riteneva che, in quanto società a capitale variabile, la società francese non fosse equiparabile ad un “fondo di investimento avente la forma contrattuale” menzionato dalla nuova legge, ma ad una società per azioni di diritto finlandese. Pertanto, non la considerava rientrante tra i soggetti che avevano diritto all'esenzione in vigore dal 2020, ma riteneva che i redditi prodotti in Finlandia dovessero essere assoggettati ad imposta.

La società iniziava un contenzioso davanti alla A.G. finlandese sostenendo la contrarietà della nuova normativa al diritto dell'Unione.

Il giudice interpellava, quindi, con rinvio pregiudiziale la Corte di Giustizia.

In questo caso, la risposta della Corte è molto netta, più netta di quella del primo caso.

Innanzi tutto, anche nella specie la Corte riconduce il tema a quello della libera circolazione di capitali più che alla libertà di stabilimento.

Poi, atteso che la questione che viene in rilievo nella specie è semplicemente quella della “forma giuridica” della società (l'esenzione riguarda i fondi aperti creati con contratto, alla luce della normativa finlandese, mentre la società ricorrente, che era stata costituita in Francia secondo il diritto francese aveva forma differente pur essendo sempre un organismo di investimento collettivo) la Corte conclude nel senso che una normativa che discrimina la tassazione a seconda della forma giuridica della società è naturalmente un ostacolo all'effettuazione di investimenti immobiliari in Finlandia da parte di società estere, costituite regolarmente secondo il diritto del loro Stato, ma con una forma che può non essere coincidente con quella per cui la normativa finlandese prevede l'esenzione. Il tutto, senza che sia stato neppure dimostrato l'interesse generale al perseguimento di un obiettivo determinato.

Libertà di movimento dei capitali e diritto tributario

La libertà di movimento dei capitali è uno dei principi fondamentali della costruzione europea fin dalle origini, dal Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea del 1957.

Tale libertà, come le altre relative al movimento delle persone, delle merci e dei servizi, non sono soggette, in linea di massima, a restrizioni, per quanto il divieto di limitazione dei principi fondamentali sia relativo.

La giurisprudenza della Corte di Giustizia (tra le altre, si veda CGUE, 16 ottobre 2008, causa C-527/06 e CGUE, 15 aprile 2010, causa C-96/08) afferma, infatti, che è possibile un provvedimento restrittivo delle libertà fondamentali garantite dal Trattato se la misura è giustificata da ragioni imperative di interesse generale. Tuttavia, per giustificare tale restrizione è necessario che l'applicazione di un simile provvedimento sia idoneo a garantire la realizzazione dell'obiettivo che esso stesso persegue e non ecceda quanto necessario per raggiungere tale obiettivo.

Il diritto tributario, attraverso la modulazione dell'imposizione alla quale sono sottese scelte “politiche” basate su decisioni valoriali, può rappresentare un classico strumento avente l'effetto sostanziale di limitare la libera circolazione dei capitali all'interno dell'Unione.

Questo non necessariamente quale obiettivo principale e diretto, ma spesso come effetto di misure aventi quale scopo primario altri obiettivi, per esempio quello di evitare la doppia imposizione sul medesimo cespite, e questo è molto frequente nei rapporti con elementi di internazionalità.

La Corte di Giustizia, per esempio, nella sentenza della causa C-628/15 (CGUE, seconda sezione, 14 settembre 2017, causa C-628/15), sull'assenza, nel Regno Unito (naturalmente pre-Brexit) di un credito d'imposta per un azionista nazionale (un trustee) che beneficiava di un'esenzione dall'imposta sui redditi da dividendi, soltanto quando si era in presenza di dividendi di origine estera percepiti nell'ambito del regime “foreign income dividend” (FID), mentre, al di fuori di tale regime, questi avrebbe avuto diritto a tale credito d'imposta, inquadra, prima di tutto, anche tale questione alla luce dell'art. 63 TFUE.

La decisione osserva che una simile assenza di credito d'imposta in capo agli azionisti non soggetti all'imposta sui redditi da dividendi, come i Trustees, poteva dissuadere detti azionisti dall'investire nel capitale delle società residenti nel Regno che percepiscono dividendi di società residenti al di fuori del Regno Unito, a vantaggio di investimenti nelle società residenti nel Regno Unito, che percepiscono dividendi di altre società residenti nel medesimo Stato in parola; ritiene, pertanto, sulla scia della sua giurisprudenza (sentenza del 12 dicembre 2006, Test Claimants in the FII Group Litigation, C‑446/04, EU:C:2006:774, punto 166), che a ciò osti l'art. 63 TFUE.

Questione analoga a quella oggetto delle sentenze in commento è già stata affrontata dalla Corte, per esempio, nella causa C-326/12, van Caster, sulle restrizioni tributarie procedurali al possesso di quote di fondi di investimento esteri.

Anche in tal caso, come notato dalla dottrina specifica (si veda Arginelli, L'incompatibilità con la libera circolazione dei capitali delle restrizioni tributarie procedurali al possesso di quote di fondi di investimento esteri, commento a CGUE, causa C-326/12, van Caster, in novitàfiscali.suspi.ch), la Corte ha diretto la sua analisi sulle possibili ragioni di giustificazione della predetta violazione della libera circolazione dei capitali, rilevando come dalla sua consolidata giurisprudenza risulti che i provvedimenti nazionali in grado di ostacolare o rendere meno attraente l'esercizio delle libertà fondamentali possono nondimeno essere giustificati qualora perseguano un obiettivo di interesse generale, siano adeguati a garantire la realizzazione dello stesso e non eccedano quanto è necessario per raggiungerlo.

Nel caso della sentenza relativa alla causa C-565/18 (CGUE , seconda sezione, Sentenza del 30 aprile 2020, causa C-565/18), invece, la Corte ha ritenuto che “l'art. 63 TFUE deve essere interpretato nel senso che non osta a una normativa di uno Stato membro che assoggetta ad un'imposta le transazioni finanziarie riguardanti strumenti finanziari derivati, che gravi sulle parti dell'operazione, indipendentemente dal luogo in cui la transazione è conclusa o dallo Stato di residenza di tali parti e dall'eventuale intermediarioche interviene nell'esecuzione della stessa, qualora tali strumenti siano basati su un titolo emesso da una società stabilita in tale Stato membro. Gli adempimenti amministrativi e dichiarativi associati a tale imposta e incombenti ai soggetti non residenti non devono tuttavia eccedere quanto necessario per la riscossione di detta imposta”.

La libera circolazione dei capitali, in linea di massima, non tollera differenze di trattamento tra soggetti residenti e non residenti in uno Stato Membro. Così, ancora di recente, in nome dell'art. 63 TFUE, la Corte di Giustizia ha ritenuto che il diritto dell'Unione non permetta l'adozione di una normativa nazionale in forza della quale i dividendi distribuiti da società residenti a un organismo di investimento collettivo (OIC) non residente sono soggetti a una ritenuta alla fonte, mentre i dividendi distribuiti a un OIC residente sono esenti da una siffatta ritenuta (CGUE, seconda sezione, sentenza del 17 marzo 2022, causa C-545/19).

In tal senso, non possono non ricordarsi anche alcune recentissime pronunce della Corte di Cassazione, in tema di trattamento fiscale dei dividendi di fondi, che hanno fatto diretta applicazione del principio, affermato dalla Corte di Giustizia (CGUE, sentenza del 10 aprile 2014, Emerging Markets Series of DFA Investment Trust Company, causa C‑190/12), secondo il quale “le misure vietate dall'articolo 63, paragrafo 1, TFUE, in quanto restrizioni dei movimenti di capitali, comprendono quelle che sono idonee a dissuadere i non residenti dal compiere investimenti in uno Stato membro o a dissuadere i residenti di detto Stato membro dal compierne in altri Stati” (Cass., sez. V, n. 21454, 21475, 21480, 21481 e 21482 del 2022).

Inoltre, la questione è sottesa anche alle decisioni, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, in tema di doppia imposizione (Tra le numerose, Cass., sez. V, n. 2313 del 2020; sez. V, ord. n. 5152 del 2022) in merito alla tassazione dei dividendi corrisposti da società figlia, basata in Italia, a società madre, basata in un altro Stato Membro UE (nel caso specifico il Regno Unito prima della Brexit, ma considerazioni analoghe valgono anche per gli altri Stati UE), dove si è valorizzato il concetto di doppia imposizione economica e non solo giuridica.

In mancanza di un interesse generale che giustifichi misure impositive che possano avere come effetto la restrizione della libertà di movimento dei capitali, pertanto, tali limitazioni non possono aver luogo.

Per questo, nel primo caso in commento, è essenziale che il giudice del rinvio interpreti la ratio della misura in questione perché da essa dipenderà il giudizio sulla legittimità o meno della stessa.

Nel seconod caso, invece, la Corte ha già potuto verificare che tale interesse non sussisteva, ravvisando il contrasto tra la normativa nazionale e quella unionale.

Le due pronunce, quindi, hanno, in sostanza, la medesima ratio, al di là della lievemente diversa soluzione.