Risarcimento da reato tributario, condanna generica e diritto europeo, legittimazione e “risorse proprie” della UE nelle SU n. 29862 del 12 ottobre 2022

Andreina Giudicepietro
18 Novembre 2022

Il riconoscimento dell'ammissibilità della domanda risarcitoria tesa ab origine ad ottenere una condanna è imposta dai principi desumibili dall'art. 6 Convenzione EDU, in quanto “comunitarizzati” dall'art. 6, comma 3, del T.F.U.E.Allorché l'evasione fiscale riguardi tributi destinati a costituire “risorse proprie” dell'Unione europea, titolare del diritto al risarcimento del danno è la stessa Unione europea; mentre lo Stato membro è semplicemente legittimato a domandare il risarcimento nella qualità di soggetto incaricato della riscossione.
I principi affermati dalla decisione

In ipotesi di danno da fatto illecito (nella specie da evasione fiscale), il danneggiato può proporre domanda risarcitoria limitata ab origine all'accertamento del solo an debeatur, con riserva di accertamento del quantum in un separato giudizio, e, nell'ambito del giudizio così instaurato può ad istanza, anche in sede di rinvio ex art. 622 c.p.p., conseguire la condanna del responsabile al pagamento di una provvisionale, ai sensi dell'art. 278 c.p.c..

Ai fini dell'accoglimento della domanda di condanna generica al risarcimento del danno (nella specie da evasione fiscale) è sufficiente che l'esistenza del danno appaia anche solo probabile, mentre incombe sull'attore l'onere della prova in merito alla colpa del danneggiante ed al nesso causale tra la condotta di questi ed il danno.

Il danno da evasione fiscale, qualora l'evasione integri gli estremi di un reato commesso dal contribuente o da persona che del fatto di quest'ultimo debba rispondere direttamente nei confronti dell'erario, non coincide in modo automatico ed immediato con il tributo evaso, ma consiste in un pregiudizio ulteriore e ontologicamente diverso, che si realizza laddove l'evasore abbia, con la propria condotta, reso impossibile la riscossione del credito erariale. Qualora, invece, l'evasione fiscale integri gli estremi di un reato commesso da persona diversa dal contribuente e non altrimenti obbligata nei confronti dell'Erario, il danno da evasione consiste sia nel tributo evaso sia in eventuali ulteriori pregiudizi, ma, nella prima ipotesi, il risarcimento sarà dovuto a condizione che l'Erario alleghi e dimostri la perdita del credito o la ragionevole probabilità della sua infruttuosa esazione.

Ove l'Erario agisca, per il risarcimento del danno da evasione, nei confronti del contribuente spetta all'Erario dimostrare l'esistenza, l'entità nonché la derivazione causale dal fatto illecito del danno risarcibile. Ove l'Erario agisca, invece, nei confronti del terzo corresponsabile dell'evasione, poiché in tal caso il fatto costitutivo della pretesa è rappresentato dalla perduta possibilità di esigere (in tutto od in parte) il credito tributario vantato nei confronti del contribuente, compete all'Erario dimostrare la titolarità del credito, la sua perdita nonché il nesso eziologico tra condotta del terzo e perdita del credito. Se, poi, l'Erario ponga in essere condotte causalmente concorrenti alla produzione della perdita del credito, spetta al convenuto eccepire e dimostrare, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 1227, primo comma, c.c., e che l'Erario ha perso il credito per propria negligenza.

Allorché l'evasione fiscale riguardi tributi destinati a costituire “risorse proprie” dell'Unione europea, titolare del diritto al risarcimento del danno è la stessa Unione europea; mentre lo Stato membro è semplicemente legittimato a domandare il risarcimento nella qualità di soggetto incaricato della riscossione.

Il fatto

Nel 2003 Raffaella Orsero, direttore generale della società importatrice Simba s.r.l., e Maurizio Misturelli, dominus di fatto della società intermediatrice Rico s.r.l., vennero rinviati a giudizio, dinanzi al Tribunale di Verona, per aver evaso dazi sull'importazione di oltre 5.000 tonnellate di banane - ed aver, così, commesso il delitto di contrabbando di cui agli artt. 292, 295 e 301 d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 - beneficiando di esenzioni e riduzioni non dovute, mediante l'interposizione fittizia di compiacenti società che, in base alla complessa disciplina in materia, godevano di regime daziario più favorevole.

Nel giudizio, l'Agenzia delle Dogane, il Ministero dell'economia e la Commissione europea, costituitesi parti civili, chiesero la condanna degli imputati al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, da liquidarsi in separato giudizio.

Prescrittisi i reati nel corso dei primi due gradi del processo penale, il processo medesimo proseguì ai soli effetti civili e, in esito al successivo giudizio di legittimità (nei cui ambito fu sollevata questione pregiudiziale sull'interpretazione del reg. 2362/98/Ce, in tema d'importazione comunitaria di banane, risolta dalla Corte di giustizia con decisione 9 luglio 2015 in causa C-607/13), la Corte di cassazione annullò la sentenza impugnata limitatamente alle statuizioni civili, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d'appello, ai sensi dell'art. 622 c.p.p.

Pronunciando quindi in sede di rinvio, la Corte d'appello di Venezia - ritenuto che Raffaella Orsero e Maurizio Misturelli avevano consapevolmente tenuto condotta intesa a violare in modo diretto la normativa sui dazi e, dunque, astrattamente qualificabile come reato ed idonea a far sorgere l'obbligo di risarcimento del danno in favore delle parti civili - condannò, in via generica, la Orsero ed il Misturelli, a favore del Ministero, ma non della Commissione europea, al risarcimento del danno da liquidarsi in separato giudizio. Dispose, inoltre, a favore del Ministero, una provvisionale pari alla metà della differenza tra il dazio dovuto e quello effettivamente riscosso, oltre agli interessi nella misura legale.

La sentenza d'appello pronunciata in sede di (secondo) rinvio fu impugnata per cassazione, in via principale da Raffaella Orsero e Maurizio Misturelli ed, in via incidentale, dal Ministero dell'economia, dall'Agenzia delle Dogane e dalla Commissione Europea.

Per quanto qui rileva, in proposito, si è, in particolare: contestata la stessa ammissibilità di domanda circoscritta alla richiesta di condanna generica (e, di conseguenza, di quella, connessa, di pagamento di provvisionale), tanto più in assenza di accertamento del danno; prospettata l'illegittimità della condanna al pagamento della provvisionale ai sensi dell'articolo 278 c.p.c., in sede di rinvio ex articolo 622 c.p.p., e, comunque, in assenza di espressa quantificazione del danno; negata la coincidenza del danno da reato tributario con il tributo evaso; negato il diritto dell'Amministrazione fiscale ed affermato quello della Commissione europea al conseguimento del risarcimento dei danni da evasione concernenti “entrate proprie” dell'Unione europea.

Ritenuto che implicassero questioni di massima di particolare importanza, i ricorsi sono stati assegnati alle Sezioni unite, che hanno conclusivamente affermato i principi riportati in premessa, sulla base delle argomentazioni di seguito analizzate.

Legittimità della domanda risarcitoria limitata ab origine all'accertamento del solo an debeatur: la prospettiva interna

Merita continuità la giurisprudenza largamente prevalente (anche a Sezioni unite; v. la sentenza in commento, § 2.2 e la giurisprudenza ivi citata), secondo cui la domanda risarcitoria tesa ab origine ad ottenere una condanna solo generica deve ritenersi pienamente ammissibile.

Il fondamento di tale criterio va essenzialmente riposto nel principio di libera scelta delle forme di tutela offerte, che permea il nostro ordinamento processuale quale espressione della libertà del diritto di azione (art. 24 Cost.) e della conseguente facoltà dell'attore di stabilire, in totale libertà, cosa chiedere, quanto chiedere e quando chiedere, con l'unico limite del divieto di abuso del diritto.

Se tale affermazione non si riscontra nella giurisprudenza della Sezione tributaria della Corte di cassazione, ciò è dovuto soltanto alle caratteristiche tipiche del giudizio tributario, che è giudizio cd. "di impugnazione-merito", in quanto diretto ad una decisione sostitutiva del provvedimento amministrativo impugnato; con la conseguenza che il giudice non può limitarsi all'annullamento dell'atto dell'Amministrazione o al mero accertamento, ma deve esaminare nel merito la pretesa fiscale o il diniego del rimborso e determinarne la corretta misura: con il che resta di norma esclusa la possibilità di una sentenza limitata all'an debeatur o di una condanna generica (v., tra le altre, Cass., Sez. 5, 27875/18; 5860/16).

In linea con granitico pregresso indirizzo giurisprudenziale (v. la sentenza in commento, § 3.6 e la giurisprudenza ivi citata), deve, poi, ritenersi che, ai fini dell'accoglimento della domanda di condanna generica al risarcimento del danno,è sufficiente - oltre la prova dell'illiceità della condotta del preteso danneggiante, della sua colpa e del nesso causale tra la condotta predetta ed il danno lamentato - la prova di un fatto, anche solo potenzialmente, idoneo a produrre conseguenze dannose in base a valutazione di probabilità e verosimiglianza: la prova dell'entità del danno e della sua stessa concreta esistenza è, infatti, rimessa al successivo giudizio sul quantum.

Legittimità della domanda risarcitoria limitata ab origine all'accertamento del solo an debeatur: la prospettiva eurounitaria

D'altro canto, l'opposto indirizzo dell'inammissibilità della domanda risarcitoria tesa ab origine ad ottenere una condanna solo generica (indirizzo, da ultimo, sostenuto da Cass. 17984/22, secondo cui "l'attore che chiede la tutela giurisdizionale di una situazione giuridica soggettiva [...] non può proporre la domanda limitando la richiesta di tutela ad una condanna generica, cioè al solo an debeatur e fare riserva di introdurre un successivo giudizio per l'accertamento del quantum, a somiglianza di quanto l'art. 278 c.p.c. consente all'attore di chiedere nel corso del processo in cui abbia proposto la domanda di condanna in modo pieno"), urta irrimediabilmente con vari principi stabiliti dal diritto europeo, ovvero da norme interposte ai sensi dell'art. 10 Cost.

Sancendo che "i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali [...] fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali", l'art. 6, comma 3, del Trattato sull'Unione Europea (c.d. "Trattato di Lisbona", ratificato e reso esecutivo con l. 2 agosto 2008, n. 130), ha, infatti "comunitarizzato" i principi della CEDU, introiettandoli quali "principi fondanti dell'Unione Europea".

Tra tali principi va annoverato quello della certezza del diritto, che discende dall'art. 6 Convenzione EDU (sulle garanzie di cui all'art. 6 Convenzione EDU, ma in diversa prospettiva, v., A. Cappabianca, Convenzione europea dei diritti dell'uomo e obbligazioni tributarie, in IUS - UE e internazionela, 15 settembre 2022) e che ha, fra gli altri, due corollari, il principio di tutela del legittimo affidamento ed il principio di salvaguardia dei diritti quesiti, dai quali, nell'ulteriore elaborazione della giurisprudenza della Corte EDU, ne sono stati desunti ulteriori in campo processuale. In particolare:

- che è impedito ai giudici degli Stati membri interpretare le norme processuali in modo che conducano all'inammissibilità d'una domanda giudiziale, quando tali interpretazioni siano "troppo formalistiche", adottate "a sorpresa" e niente affatto chiare od univoche;

- che costituisce violazione dell'art. 6 Convenzione EDU l'adozione d'una interpretazione della norma processuale che comporti per l'individuo la perdita della possibilità di adire un Tribunale, senza che tale effetto potesse essere previsto ex ante (la necessità di tutelare l'affidamento di una parte che abbia conformato la propria attività processuale ad un consolidato orientamento giurisprudenziale si evince, del resto, anche nelle sentenze della Cassazione in tema di prospective overruling, finalizzato a porre la parte al riparo dagli effetti processuali pregiudizievoli - nullità, decadenze, preclusioni, inammissibilità - di mutamenti imprevedibili della giurisprudenza di legittimità su norme regolatrici del processo sterilizzandoli, così consentendosi all'atto compiuto con modalità ed in forme ossequiose dell'orientamento giurisprudenziale successivamente ripudiato, ma dominante al momento del compimento dell'atto, di produrre ugualmente i suoi effetti, v., per tutte, Cass., ss.uu., 15144/11 e successive conformi);

- che la legge processuale "deve essere accessibile ai giustiziabili e da loro prevedibile quanto agli effetti";

- che ogni soggetto deve essere in grado di prevedere le conseguenze che possono derivare da un determinato atto; che non possono imporsi cause d'inammissibilità non previste dalla legge, se non indispensabili;

- che, infine, i giudizi degli Stati membri devono osservare per quanto possibile orientamenti stabili, sicché non è loro consentito esercitare nel corso del tempo le loro competenze in modo da ledere imprevedibilmente situazioni e rapporti giuridici soggettivi (cfr. la sentenza commentata, § 2.3.4 e la giurisprudenza ivi citata).

Nel solco della giurisprudenza comunitaria, va, dunque, valorizzata l'importanza, quale misura del diritto all'accesso alla giustizia, del principio del legittimo affidamento, che preclude soluzioni non esplicitamente risultanti dalla legge, imprevedibili dai litiganti e non indispensabili (agli ampi richiami contenuti nella sentenza in rassegna può aggiungersi la segnalazione di Corte EDU, sez.I, 28 ottobre 2021, Succi e altri c. Italia, che, pronunciandosi su un caso “italiano” in cui si discuteva della legittimità della pronunzia dalla Corte di cassazione d'inammissibilità d'un ricorso civile per violazione del principio di autosufficienza, ha ritenuto ricorrere violazione dell'art. 6 Convenzione EDU).

Giudizio limitato all'an debeatur e provvisionale

Va negata fondatezza all'orientamento secondo cui la condanna provvisionale ex art. 278, comma 2, c.p.c. non può essere pronunciata quando l'azione ha ad oggetto l'accertamento di responsabilità del convenuto e la sua condanna generica al risarcimento dei danni, per i fatto che, in tal caso, "esula dal giudizio la concreta quantificazione del danno risarcibile" (in tal senso, Cass. 11117/15, nella motivazione).

Al riguardo, deve rilevarsi che, al contrario, l'art. 278 c.p.c. pone la richiesta di condanna generica proprio quale necessario presupposto della pronuncia di provvisionale e che, in caso di domanda limitata all'an debeatur, proprio perchéil giudizio non è destinato a fornire compiuta quantificazione del danno (che dunque, al suo esito, resta ancora controverso), è accordata al giudice la potestà di pronunciare una condanna sommaria, nei limiti in cui, anche a prescindere dall'attività delle parti, la prova del danno sia comunque rifluita nel giudizio.

La pronuncia di condanna provvisionale è, poi, ammissibile anche in sede di giudizio di rinvio ai sensi dell'articolo 622 c.p.p., giacché tale giudizio si svolge dinanzi al giudice civile con le regole del processo civile (v. Cass. 517/20, cit.) e che, fra queste regole, rientra l'art. 278 c.p.c., che consente, per l'appunto, la condanna del convenuto al pagamento d'una provvisionale.

Il danno tributario: il rapporto tra erario e contribuente

Nei reati tributari, il danno patito dall'erario non coincide ontologicamente, ma eventualmente solo nella misura con il tributo evaso.

L'obbligazione tributaria scaturisce (art. 1173 c.c.) dalla legge e, avendo ad oggetto il pagamento di una somma di denaro, ha natura di obbligazione pecuniaria.

Ciò posto, deve osservarsi che il creditore di un'obbligazione pecuniaria (essendo, questa, obbligazione generica) ha sempre diritto, in caso di inadempimento, ad esigere la prestazione principale, oltre al risarcimento del danno (art. 1218 c.c.) e che, in relazione a tali obbligazioni, il “danno” in senso tecnico, quale pregiudizio causato dall'inadempimento, non s'identifica concettualmente con la prestazione dovuta ed inadempiuta. Del resto, nelle obbligazioni pecuniarie, il creditore che domandi la condanna del debitore non esercita un'azione di danno, ma un'azione di adempimento; la stessa esecuzione forzata non è un "risarcimento" per il creditore, ma la coattiva realizzazione di quel risultato non reso spontaneamente possibile dal debitore.

Se ne inferisce che l'inadempimento dell'obbligazione tributaria (quale obbligazione pecuniaria), posto in essere dal contribuente evasore, non refluisce, di norma, in "danno" in senso tecnico per l'Erario. Il credito accertato e non adempiuto spontaneamente non è, di per sé, perduto e l'Amministrazione finanziaria dispone, d'altro canto, d'una vasta gamma di efficaci strumenti sostanziali, processuali e cautelari per tutelare le proprie ragioni e riscuotere coattivamente i propri crediti tributari ai sensi dell'art. 2740 cod. civ.; tant'è che - potendo l'Amministrazione finanziaria operare autonomamente, in via coattiva, per il soddisfacimento della pretesa tributaria – non sarebbe nemmeno agevole riscontrare un suo interesse ad agire, per lo stesso titolo, in via risarcitoria.

Finché l'Amministrazione non abbia perduto la possibilità di agire utilmente nei confronti del debitore, il danno causato dal reato di evasione non può, quindi, identificarsi nell'importo del tributo non corrisposto.

Approfondendo il tema, deve, inoltre, osservarsi che l'evasione del tributo, quale inadempimento d'una obbligazione pecuniaria, genera, ai sensi dell'art. 1224 c.c., l'ulteriore obbligazione al pagamento degli interessi moratori (che, nell'ordinamento tributario, formano oggetto d'una disciplina ad hoc, in deroga a quella di cui all'art. 1224, primo comma, c.c. quanto a saggio applicabile e decorrenza; v. l'art. 13, comma 3, d.lgs. 24.9.2015 n. 159).

Anche il credito per interessi moratori tuttavia, estedendosi alla relativa liquidazione e riscossione gli strumenti propri della riscossione delle imposte, non è, di norma, suscettibile di liquidazione dal giudice penale, a titolo di risarcimento del danno da reato (pur essendo concettualmente espressione di danno patrimoniale), per le stesse ragioni già esposte in precedenza con riguardo ai tributi evasi.

Suscettibili di liquidazione dal giudice penale, a titolo di risarcimento del danno da reato, restano quindi, di regola, i soli eventuali pregiudizi ulteriori (rispetto all'inadempimento fiscale ed agli interessi di mora), rientranti nell'ipotesi del "maggior danno" di cui all'art. 1224, secondo comma, c.c. (norma di portata generale, applicabile anche alle obbligazioni tributarie), per i quali non è possibile ricorrere agli strumenti di riscossione coattiva previsti dal diritto tributario.

Tale "maggior” danno risarcibile non può, tuttavia, ritenersi in re ipsa ed identificarsi con il c.d. "danno funzionale" (e, cioè, nell'attività amministrativa resa necessaria per l'accertamento dell'evasione), giacché non può ritenersi "danno" ex art. 1218 c.c. lo svolgimento proprio di quell'attività per la quale una struttura amministrativa è costituita.

Esso sarà, invece, configurabile in qualsiasi altro specifico pregiudizio, che sia conseguenza immediata e diretta dell'illecito (art. 1223 c.c.), ulteriore o diverso rispetto a quello costituito dal costo della normale attività istituzionale dell'Amministrazione e che l'Amministrazione deduca e comprovi compiutamente (cfr. la sentenza commentata, § 3.7.4. e la giurisprudenza ivi citata). In proposito, in via puramente esemplificativa, si possono annoverare: l'ipotesi in cui, in presenza di forti fenomeni inflazionistici, l'Amministrazione alleghi e dimostri che la tardiva riscossione del tributo le abbia impedito di adottare adeguate misure per salvaguardare il valore reale del proprio credito; quella in cui l'evasore abbia con la propria condotta provocato l'impossibilità giuridica o di fatto di riscuotere il credito erariale, per decadenza od altra causa (beninteso, sempre che non ricorrano le condizioni per ritenere prorogato il dies a quo del termine di decadenza, come stabilito, in tema di dazi doganali, da Corte di giustizia U.E., 16 luglio 2009, in cause C-124/08 e C-125/08, Gilbert Snauwaert e altri.

Il danno tributario: il rapporto tra erario e reo diverso dal contribuente

A conclusioni non dissimili si perviene nell'ipotesi in cui il reato tributario sia stato commesso da o con il concorso di persona diversa dal contribuente.

Al riguardo, è decisivo il rilievo che l'erario nei confronti del contribuente vanta un credito pecuniario. Se, dunque, l'evasione è agevolata o concausata da un terzo, non possono che darsi due possibilità: o il credito tributario resta esigibile oppure la sua esazione, in conseguenza del reato, diviene impossibile o di difficile realizzo.

Nel primo caso, non è ipotizzabile alcun danno.

Nel secondo caso, il terzo avrà arrecato all'Erario un pregiudizio che si configura quale "danno da lesione del credito". Ed, in base ai criteri ordinari, in relazione ad esso il terzo correo del reato tributario potrà essere chiamato a rispondere nei confronti dell'Erario: a) della perdita del credito tributario, se sia dimostrato che, in assenza della condotta illecita del terzo, l'Amministrazione finanziaria avrebbe potuto riscuotere il proprio credito dal contribuente, secondo la regola causale della preponderanza dell'evidenza; b) di eventuali ed ulteriori danni diversi dal tributo evaso, ai sensi dell'art. 1224, comma secondo, c.c., secondo quanto esposto in precedenza; c) nonché, eventualmente, in caso di corresponsabilità penale, del danno non patrimoniale di cui agli artt. 2059 c.c. e 185 c.p.

Azione risarcitoria da danno tributario e onere della prova

Non sussistendo coincidenza tra la nozione di “danno” in senso tecnico da evasione fiscale e quella di imposta evasa, deve escludersi che riscossione coattiva del tributo e azione di risarcimento possano considerarsi rimedi fungibili, in modo che, di fronte all'evasione, l'Erario abbia facoltà di scelta tra l'uno e l'altro. L'azione di risarcimento è, pertanto, inutilizzabile per ottenere l'esatta esecuzione della prestazione dovuta. E, nei confronti di eventuali correi o corresponsabili dell'evasione, se l'Erario ha titolo per agire in executivis, l'esistenza di tale titolo preclude l'azione di danno, mentre, in assenza del titolo suddetto, l'azione di danno è obbligata; sicché ogni alternanza è esclusa.

Quanto, poi, all'onere della prova, ove l'Erario agisca nei confronti del contribuente, spetterà all'Erario dimostrarne l'esistenza, l'entità nonché la derivazione causale dal fatto illecito del risarcibile.

Ove l'Erario agisca nei confronti del terzo corresponsabile dell'evasione, poiché in tal caso il fatto costitutivo della pretesa è costituito dalla perduta possibilità di esigere, in tutto od in parte, il credito tributario nei confronti del contribuente, spetterà all'erario dimostrare la titolarità del credito, la sua perdita nonché il nesso eziologico tra condotta del terzo e perdita del credito.

Nel caso, poi, che l'Erario ponga in essere condotte causalmente concorrenti alla produzione della perdita del credito (ad es.: trascuri, per negligenza, di riscuotere il proprio credito; incorra colpevolmente in prescrizione o decadenze; trascuri di avvalersi degli strumenti di conservazione della garanzia patrimoniale), spetterà al convenuto eccepire e dimostrare, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 1227, primo comma, c.c., e che l'Erario ha perso il credito per propria negligenza.

Danno da reato tributario incidente su “risorse proprie” della U.E. e legittimazione ad causam

Atteso che, a partire dal 1970 (decisione del Consiglio 21 aprile 1970, n. 70/243), l'Unione Europea si è dotata di un sistema di finanziamento autonomo e diretto, attraverso le c.d. "risorse proprie" e, cioè, entrate autonome rispetto alle finanze degli Stati membri, qualunque fatto illecito che pregiudichi il credito tributario "proprio" dell'Unione Europea costituisce danno per quest'ultima. Quest'ultima ha, pertanto, la titolarità del relativo risarcimento (e della corrispondente legitimatio ad causam), mentre gli stati membri, tramite i loro organi, sono legittimati a domandare detto risarcimento, ma solo nella qualità di soggetti incaricati della riscossione.