Revocato il mantenimento della figlia maggiorenne
24 Novembre 2022
Massima
Sebbene l'art. 337-septies c.c., come già il suo antecedente dell'art. 155-quinquies c.c., riconosca al figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente un diritto concorrente con quello del genitore convivente alla percezione dell'assegno di mantenimento che ne legittima la partecipazione al giudizio sia in via principale sia in via di intervento autonomo, nondimeno l'attribuzione della provvidenza direttamente a mani del figlio ne presuppone la domanda giudiziale e non viene perciò meno al principio della domanda di cui all'art. 99 c.p.c. Il caso
La vicenda trae origine dal provvedimento con cui la Corte di Appello di Roma ha rigettato il reclamo proposto da una madre e dalla di lei figlia, avverso il decreto del Tribunale di Civitavecchia con cui veniva revocato – in accoglimento della domanda di modifica delle condizioni del divorzio spiegata nei confronti della prima – l'assegno posto a carico del marito per il mantenimento della figlia, avendo la stessa raggiunto l'indipendenza economica. In particolare, in quel giudizio di merito, in via pregiudiziale veniva rigettata l'eccezione, proposta dalla madre, relativamente ad un difetto di legittimazione passiva, in quanto non solo nessuna contestazione aveva investito la ritualità della notifica del ricorso introduttivo, ma fu anche ritenuto che alcun rilievo si sarebbe potuto riconoscere al fatto che la figlia non fosse più convivente con lei e che l'assegno fosse versato (dall'I.N.P.S.) direttamente alla ragazza. Nel merito, poi, la revoca del provvedimento di mantenimento rinveniva il proprio fondamento nella non più giovane età della figlia (di anni 31), nel titolo di studio conseguito ormai da anni nonché nell'effettivo inserimento nel mondo del lavoro con mansioni coerenti con gli studi svolti. Circostanze che non potevano non attestare come, in effetti, il percorso educativo e formativo della ragazza fosse stato completato da tempo, cosicché era stata altresì messa nelle condizioni di rendersi economicamente autosufficiente; viceversa, nessuna prova era stata fornita in ordine ad una eventuale incapacità a lavorare e di produrre reddito, a seguito di un precedente intervento chirurgico. La questione
Le questioni che emergono nella fattispecie in esame sono le seguenti: quando, nel giudizio di modificazione dei provvedimenti riguardanti la prole, la motivazione può dirsi apparente? Inoltre, quali sono i soggetti legittimati, nel relativo procedimento, a resistere alla domanda di revoca dell'assegno di mantenimento riconosciuto in favore del figlio maggiorenne convivente con il genitore già collocatario? Le soluzioni giuridiche
Quanto alla prima questione, la Corte di Cassazione evidenzia come non possa discorrersi di «nullità della sentenza per motivazione apparente». Richiamando un proprio precedente (Cass., Sez. Un. 22 settembre 2014, n. 19881) la Corte rammenta come il predetto vizio censurabile in sede di legittimità, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., ricorre allorché la motivazione, pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente – come parte del documento in cui consiste la sentenza (o altro provvedimento giudiziale) – non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perché esibisce argomentazioni obiettivamente inidonee a far riconoscere l'iter logico seguito per la formazione del convincimento e, pertanto, non consente alcun controllo sull'esattezza e la logicità del ragionamento del giudice. Dal punto di vista normativo, del resto, a seguito della riforma delle impugnazioni del 2012 (A. Mengali, La cassazione della sentenza civile non motivata, Torino, 2020), la riformulazione della norma concerne l'«omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti». Come è stato acutamente enunciato, infatti, da un lato «scompare ogni riferimento letterale alla “motivazione” della sentenza impugnata» e, dall'altro, accanto al predetto vizio di omesso esame circa un fatto decisivo «non sono più menzionati i vizi di insufficienza e contraddittorietà», cosicché la ratio legis non potrebbe che consistere «nella esplicita scelta di ridurre al minimo costituzionale il sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità». Sotto questo aspetto, l'anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità quale violazione di legge costituzionalmente rilevante deve allora consistere nella «omissione di motivazione, motivazione apparente, manifesta e irriducibile contraddittorietà, motivazione perplessa o incomprensibile, sempre che il vizio fosse testuale» (Cass., Sez. Un. 22 settembre 2014, n. 19881). Con specifico riferimento alla mera apparenza della motivazione, tale vizio, al pari degli altri, deve risultare dal testo del provvedimento impugnato non potendosi riconoscere in capo alla Corte di Cassazione una verifica della sufficienza e della razionalità della motivazione sulle quaestiones facti; quest'ultima verifica – riguardando ed implicando un raffronto tra le ragioni del decidere adottate ed espresse nella sentenza impugnata e le risultanze del materiale probatorio sottoposto al vaglio del giudice di merito – resta estranea al sindacato di legittimità, sub specie di violazione di legge (cfr. B. Capponi, L'omesso esame del n. 5 dell'art. 360 c.p.c. secondo la Corte di cassazione, in Judicium, 2015). Ciò che assume preminente rilievo è, in definitiva, il controllo sull'esistenza e sulla coerenza della motivazione, vuoi sotto il profilo dell'assoluta omissione o della mera apparenza vuoi sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell'illogicità manifesta della stessa; cioè a dire con riferimento a quei parametri che determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge: ebbene, in questi casi, il vizio (sempre che emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata), sarà così radicale da comportare, ai sensi dell'art. 132 c.p.c., n. 4 c.p.c., la nullità della sentenza per “mancanza della motivazione” (Cass., Sez. Un. 22 settembre 2014, n. 19881). Nel medesimo senso, il principio di diritto è stato costantemente ribadito, nei più diversi contesti, dalla giurisprudenza successiva (Cass., 01 marzo 2022, n. 6758; Cass., 27 gennaio 2022, n. 2441; Cass., 15 ottobre 2021, n. 28303; Cass., 08 aprile 2021, n. 27411; Cass., 13 gennaio 2021, n. 392; Cass., 03 novembre 2016, n. 22232), la quale ha finanche specificato come alle tradizionali ipotesi considerate debba altresì aggiungersi «il caso in cui la motivazione non risulti dotata dell'ineludibile attitudine a rendere palese (sia pure in via mediata o indiretta) la sua riferibilità al caso concreto preso in esame, di talché appaia di mero stile, o, se si vuole, standard; cioè un modello argomentativo apriori, che prescinda dall'effettivo e specifico sindacato sul fatto» (Cass., 26 febbraio 2021, n. 5488). Così ripercorso, seppur brevemente, il panorama interpretativo che coinvolge, in generale, il ricorso per Cassazione ex art. 360 comma 1, n. 5 c.p.c., occorre domandarsi se, nella vicenda in commento, possa dirsi apparente la motivazione che, nel giudizio di modificazione dei provvedimenti riguardanti la prole si limiti a rilevare come circostanze ininfluenti il fatto che la figlia non fosse convivente con il genitore alla data di introduzione del procedimento, e il fatto che l'importo dovuto per il mantenimento fosse versato direttamente sul conto corrente della beneficiaria. Ebbene, coerentemente con quanto sin qui detto, la Corte di Cassazione, ha evidenziato come il provvedimento impugnato si sottragga alla censura formulata. Nel ritenere infondato il motivo proposto, in particolare, l'organo della nomofilachia ha correttamente evidenziato come la motivazione contenuta nel decreto impugnato fosse «dotata della concisa esposizione sia delle ragioni di fatto della decisione, sia delle ragioni di diritto poste a fondamento della stessa decisione», nonché «di una esposizione logica e adeguata al caso di specie che consente di cogliere il percorso logico-argomentativo che ha portato la Corte decidente a rigettare le tesi» della ricorrente. Ciò posto, e giungendo così alla seconda questione affrontata, si rende opportuno verificare quali siano i soggetti legittimati a resistere alla domanda di revoca dell'assegno di mantenimento, chiedendosi, in particolare, se nel relativo giudizio, la modifica delle condizioni di mantenimento debba essere richiesta nei confronti della sola figlia, quale unica legittimata a resistere alla domanda di revoca del beneficio. A tal riguardo, la Corte, coerentemente con la propria giurisprudenza precedente (in dottrina cfr. L.M. Cosmai, Assegno di mantenimento per i figli, in IUS Famiglie (www.ius.giuffrefl.it); Id., Versamento diretto dell'assegno di mantenimento al figlio divenuto maggiorenne, in IUS Famiglie (www.ius.giuffrefl.it), all'uopo puntualmente richiamata, spiega da un lato che l'art. 337-septies c.c. riconosce senz'altro «al figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente un diritto concorrente con quello del genitore convivente alla percezione dell'assegno di mantenimento che ne legittima la partecipazione al giudizio sia in via principale sia in via di intervento autonomo»; ma che, nondimeno, dall'altro lato «l'attribuzione della provvidenza direttamente a mani del figlio ne presuppone la domanda giudiziale e non viene perciò meno al principio della domanda di cui all'art. 99 c.p.c.». Nel sintetico snodo argomentativo si rintracciano densi e consolidati orientamenti che suscitano nel giurista interessanti spunti di riflessione. È indubbio, infatti, come il genitore obbligato, in mancanza della corrispondente domanda del figlio, non possa pretendere di assolvere la propria prestazione direttamente nei confronti di quest'ultimo, e non nei confronti del genitore istante, poiché, sebbene quest'ultimo e il figlio, in quanto titolari di diritti autonomi e concorrenti, siano entrambi legittimati a percepire il menzionato assegno, tuttavia la decisione non può sottrarsi al principio della domanda (Cass., 12 novembre 2021, n. 34100; nella giurisprudenza di merito, recentemente, cfr. C.d.A. Roma, 02.05.2022, n. 2833; Trib. Torino, 28 maggio 2022, n. 2321; Trib. Rieti, 20 ottobre 2021, n. 551; Trib. Cosenza, 15 luglio 2021, n. 1636), cosicché «giammai, dunque, potrebbe disporsi il versamento diretto in favore del figlio in mancanza della domanda del medesimo, cioè dell'avente diritto» (Cass., 11 novembre 2013, n. 25300). Peraltro, in altre vicende si è precisato che «ciascuna legittimazione è concorrente con l'altra, senza, tuttavia, che possa ravvisarsi un'ipotesi di solidarietà attiva, ai cui principi è possibile ricorrere solo in via analogica, trattandosi di diritti autonomi e non del medesimo diritto attribuito a più persone» (Cass., 08 settembre 2014, n. 18869). Parimenti evidente è che il genitore, separato o divorziato, cui il figlio sia stato affidato durante la minore età, continua, pur dopo che questi sia divenuto maggiorenne, ma conviva ancora con lui e non sia economicamente autosufficiente, ad essere legittimato iure proprio, in assenza di un'autonoma richiesta da parte dello stesso, a richiedere all'altro genitore tanto il rimborso, pro quota, delle spese già sostenute per il mantenimento del figlio, quanto il versamento di un assegno periodico a titolo di contributo per detto mantenimento (così Cass., 24 febbraio 2006, n. 4188). In particolare, nella medesima prospettiva, si è detto che qualora il figlio divenuto maggiorenne e non ancora autosufficiente non chieda che l'assegno, disposto per il suo mantenimento a favore del coniuge affidatario, gli sia corrisposto direttamente, deve ritenersi che persista da parte di detto coniuge la legittimazione a riscuoterlo iure proprio a titolo di rimborso di quanto costantemente anticipato per conto dell'altro coniuge (in questi termini Cass., 27 maggio 2005, n. 11320; F. Colangeli, Spetta al genitore convivente richiedere il mantenimento del figlio maggiorenne?, in IUS Famiglie (www.ius.giuffrefl.it)). Ma, sotto tale aspetto, occorre specificare come un tale riconoscimento presupponga la persistenza della “convivenza” (seppure in talune sentenze il riferimento è alla “coabitazione”) fra il figlio divenuto maggiorenne ed il genitore cui era stato affidato il minore età; onde la necessità di fissarne il contenuto al fine di stabilire, nelle singole ipotesi, la sussistenza di tale requisito (Cass., 27 maggio 2005, n. 11320). Ebbene, su di un piano più generale, il requisito della convivenza non può dirsi insussistente per il mero fatto di una presenza solo saltuaria (e non quotidiana) del figlio maggiorenne, specialmente se dovuta a motivi di studio o di lavoro, anche per non brevi periodi; infatti, anche in queste situazioni si manifesta comunque un collegamento stabile con l'abitazione del genitore, che emerge proprio allorché il figlio vi ritorni ogniqualvolta gli impegni glielo consentano. Un siffatto collegamento, allora, costituisce un sufficiente elemento per ritenere non interrotto il rapporto che lo lega alla casa nella quale era prima vissuto quotidianamente e concreta la possibilità per il genitore (collocatario) di provvedere, sia pure con modalità diverse, alle sue esigenze (Cass., 27 maggio 2005, n. 11320). Nel caso considerato, peraltro, la Corte ha rigettato il ricorso poiché – così come si legge nella motivazione dell'ordinanza in commento – nessuna domanda giudiziale della figlia, nel caso di specie, è stata allegata, risultando, piuttosto, che era stata la madre ad azionare la procedura, prevista dalla l. n. 898/1970, art. 8, comma 3, per il pagamento diretto dell'assegno di mantenimento della figlia e che tale procedura era stata successivamente reiterata. Osservazioni
Il decreto impugnato, giova ripetere, non appare insanabilmente contraddittorio, tale per cui non si potrebbe razionalmente comprendere sulla base di quale considerazione abbia accolto la domanda del marito volta ad ottenere la revoca dell'assegno di mantenimento; non vi sono argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento. Al contrario, anche laddove il giudice del reclamo si fosse effettivamente limitato (come sostenuto dalla ricorrente) a rilevare come circostanze ininfluenti i fatti allegati dalla madre (cioè il fatto che la figlia non fosse convivente con la madre alla data di introduzione del giudizio ed il fatto che l'importo dovuto per il mantenimento fosse versato sul conto corrente della prima), ciononostante non si può negare come tali elementi siano stati debitamente presi in considerazione dal giudicante, anche se al fine di essere disattesi e seppure mediante una concisa esposizione delle relative ragioni poste a fondamento del provvedimento; e che, nel giudizio di legittimità, il vizio censurabile deve risultare dal testo del provvedimento e non dal raffronto tra questo e fascicolo processuale (B. Capponi, L'omesso esame del n. 5) dell'art. 360 c.p.c. secondo la Corte di cassazione, cit.). Tale rilievo si collega, di necessità, all'altro profilo segnalato. La pronuncia merita dunque di essere apprezzata soprattutto perché la Corte sembrerebbe fare riferimento, ancora una volta, a quella impostazione secondo cui, in assenza di un'autonoma richiesta da parte del figlio e ritenendo sussistente il rapporto di convivenza nell'ampia accezione sopra precisata, la madre non potrebbe che ritenersi ancora legittimata ad una partecipazione in giudizio tanto in via principale quanto in via di intervento autonomo. Pertanto, poiché il decreto impugnato ha ritenuto ininfluente – nel precipuo senso che si è avuto modo di vedere: la relativa valutazione integra un giudizio di fatto, che se motivato (come nella specie) resta insindacabile in sede di legittimità – la circostanza che la figlia non fosse convivente con la madre alla data di introduzione del giudizio, ne è derivata conseguentemente l'applicazione dei consolidati principi di diritto in materia. Del resto, quanto alla convivenza, val bene rilevare come rilevanza preminente venga attribuita, dalla giurisprudenza di legittimità, alla circostanza che il figlio, abbia fatto capo alla madre «per reperire le risorse necessarie per soddisfare le sue esigenze, a cui non può provvedere autonomamente» (Cass., 31 dicembre 2020, n. 29977); e, ciò, pare desumibile, tra l'altro, dal fatto che non solo nessuna domanda giudiziale della figlia, nel caso di specie, è stata formulata, ma che all'opposto è stata proprio la madre ad azionare la procedura, per il pagamento diretto dell'assegno di mantenimento della figlia, così ribadendosi quel “collegamento”, che in diversi ambiti costituisce elemento sufficiente per affermare non interrotto il rapporto che lega il beneficiario alla casa nella quale, in precedenza, aveva vissuto quotidianamente. Per concludere, si segnala da ultimo come al rigetto del ricorso e quindi alla soccombenza della madre segua la condanna al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento dell'ulteriore importo, previsto ai sensi del d.P.R. n. 115/2002, art. 13, comma 1-quater, a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.
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