Le delocalizzazioni nell'ordinamento complesso

28 Novembre 2022

Il tema delle delocalizzazioni conosce una nuova regolamentazione nelle leggi n. 234/2021 e n. 175/2022.L'Autore, dopo avere ricordato i precedenti normativi, si sofferma sulle molteplici questioni ermeneutiche che la nuova disciplina solleva.Nella parte finale del contributo vengono esaminate questioni di carattere costituzionale, il possibile contrasto con l'ordinamento dell'Unione europea ed il problema della doppia pregiudizialità.
La normativa sulle delocalizzazioni. Un cantiere aperto (1)

Le delocalizzazioni consistono, nella definizione contenuta nell'enciclopedia Treccani, nel “trasferimento del processo produttivo, o di alcune fasi di esso, in aree geografiche o Paesi in cui esistono vantaggi competitivi”, quali: minor costo dei fattori produttivi (in particolare la manodopera), regimi fiscali più favorevoli, prossimità fisica a mercati più ampi e dinamici, opportunità di migliorare l'accesso a reti di fornitura) (2).

La delocalizzazione “costituisce (…) un atto di gestione e una tecnica di law shopping volta a decentralizzare la regolamentazione” (3) e rappresenta l'espressione più puntuale del moderno “capitalismo geograficamente mobile” (4).

Sul mercato dei beni si assiste generalmente a un aumento della competitività.

Sul mercato del lavoro si osservano variazioni rilevanti nei livelli del salario e dell'occupazione, sia nel paese di origine che in quello di destinazione.

La delocalizzazione implica una frammentazione del processo produttivo.

Nella società liquida, scrive Bauman (5), tutto è momentaneo, fluido, cangiante e precario.

“Il passaggio dal capitalismo pesante a quello leggero, dalla modernità solida a quella liquida, potrebbe rivelarsi una frattura più radicale e gravida di conseguenze dello stesso avvento del capitalismo e della modernità. I lavori sicuri in aziende sicure sembrano ormai un ricordo del passato; né esistono specializzazioni ed esperienze che, una volta acquisite, possano garantire un posto di lavoro certo e, soprattutto, duraturo”.

La materia, nell'ultimo periodo, ha conosciuto tre interventi significativi.

Il primo, di tipo normativo, attiene alla nuova disciplina contenuta nei commi da 224 a 238 della legge del 30 dicembre 2021 n. 234.

Il secondo, di tipo giurisprudenziale, riguarda il decreto del Tribunale del lavoro di Trieste, del 23 settembre 2022, che affronta la delicata questione del rapporto tra gli obblighi informativi contenuti negli accordi collettivi e quelli previsti dalla disciplina legale (Legge n. 234/2021 e n. 223/91).

Il terzo, di tipo normativo, attiene alla legge del 17 novembre 2022, n. 175 che, all'art, 37, contiene rilevanti modifiche alla disciplina prevista nella legge di bilancio del 2022 (L. n. 234/2021).

Ma occorre procedere per ordine, ricordando, sia pure in breve, la “storia” di questo “tsunami” normativo che si snoda tra precedenti normativi e interventi giurisprudenziali in tema di licenziamenti collettivi per cessazione dell'attività.

I precedenti: tra fallimenti legislativi e interventi giurisprudenziali

La normativa di contrasto alla delocalizzazione è frammentata ed ispirata a finalità eterogenee.

Sul piano europeo (6) si ricordano i vincoli per la concessione di aiuti di Stato a finalità regionale (sottoposte all'obbligo di notifica individuale alla Commissione e a controlli rigorosi) e la normativa che riguarda i programmi co-finanziati dai Fondi SIE, ovvero i fondi strutturali e di investimento europeo disciplinati dal regolamento n. 1060/2021 (7).

Sul piano nazionale, il fenomeno delle delocalizzazioni è stato regolato, in passato, dalla legge di stabilità del 2014 (L. n. 147 del 2013 che nei commi 60 e 61 dell'art. 1, prevedeva alcune norme sulla decadenza dei benefici ricevuti dalle imprese che delocalizzano la propria produzione) e dal decreto Dignità (8) (artt. 5 e 6) che prevedeva due limiti alla delocalizzazione: il primo si applicava in relazione agli aiuti di Stato diretti a sostenere “investimenti produttivi” e riguardava le sole delocalizzazioni verso Stati extra–Ue o non aderenti allo spazio economico europeo (SEE); il secondo si applicava in relazione agli aiuti di Stato diretti a sostenere “investimenti produttivi specificamente localizzati” e riguardava ogni trasferimento al di fuori del sito produttivo incentivato (9).

Lo scarso impatto positivo di queste misure per contrastare il fenomeno della delocalizzazione ha sollecitato la presentazione di alcuni disegni di legge quali, ad esempio, il S. 2021 “recante misure per il contrasto alle delocalizzazioni e la salvaguardia dei livelli occupazionali” e il DDL 2206/2021 recante disposizioni “per sostenere i livelli occupazionali e produttivi e per contrastare la pratica della delocalizzazione delle attività produttive” (10).

Gli annunci di licenziamenti collettivi con cessazioni di attività decisi nel secondo semestre del 2021 (i casi GKN di Firenze (11), Giannotti Ruote di Ceriano Laghetto in Brianza (12) e dello stabilimento della Whirlpool di Napoli) (13) hanno accelerato la previsione di un nuovo modello normativo sulle delocalizzazioni che si è concretizzato nella legge n. 234 del 2021 (14).

Normativa che è stata, peraltro, modificata dal d.l. n. 144 del 2022, convertito, con modificazioni, nella legge n. 175/22.

Conviene procedere con ordine, analizzando, in primo luogo, la normativa della legge n. 234 del 2021 per poi esaminare le modifiche apportate con il decreto aiuti-ter.

La legge n. 234 del 2021. Finalità e ambito di applicazione

La disciplina contenuta nei commi da 224 a 238 della legge del 30 dicembre 2021, n. 234 si propone un progetto ambizioso: contrastare le delocalizzazioni delle aziende con misure che “garantiscano la salvaguardia del tessuto occupazionale e produttivo” (15).

Le disposizioni riguardano i datori di lavoro che, nell'anno precedente (16), abbiano occupato con contratto di lavoro subordinato (inclusi gli apprendisti e i dirigenti) “mediamente almeno 250 dipendenti” e che intendano procedere alla chiusura di una sede (“stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo situato nel territorio nazionale) (17) con “cessazione definitiva della relativa attività e con licenziamento di un numero di lavoratori non inferiore a 50”.

Tre considerazioni preliminari.

In primo luogo, la disciplina non si applica alle sole delocalizzazioni all'estero (18).

La disposizione, infatti, non si riferisce unicamente alle imprese (anche italiane) che delocalizzano all'estero ma anche a quelle che, avendo un organico di almeno 250 dipendenti con presenze di almeno 50 dipendenti presenti nelle unità interessate, le chiudono (19), “magari prospettando una razionalizzazione dell'attività con un accorpamento in altra sede del territorio nazionale” (20).

In secondo luogo, la procedura si applica non solo alla cessazione definitiva dell'attività dell'impresa ma anche quando il datore di lavoro decida di chiudere una singola unità produttiva, licenziando 50 o più dipendenti.

In terzo luogo, in ordine alle modalità di calcolo del personale interessato si fa riferimento ad una media di lavoratori in forza con rapporto di lavoro subordinato, compresi i dirigenti e gli apprendisti (21).

Per gli intermittenti (22) trova applicazione l'art. 18 del D.lgs. n. 81/2015 (ove il computo nell'organico dell'impresa va effettuato in proporzione all'orario effettivamente svolto nell'arco di ciascun semestre), mentre resta salva la modalità di calcolo dei lavoratori a tempo parziale (computo pro quota).

Per i lavoratori a tempo determinato si dovrebbe fare riferimento ai chiarimenti forniti dal Ministero del lavoro nella risposta ad interpello n. 30 del 19 novembre 2013, secondo il quale “ai fini della corretta determinazione della base di computo, occorre effettuare la somma di tutti i periodi di rapporto di lavoro a tempo determinato, svolti a favore del datore di lavoro nell'ultimo biennio e successivamente dividere il totale per 24 mesi”.

Sono, infine, esclusi dal campo di applicazione della nuova disciplina i datori di lavoro che si trovino “in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l'insolvenza e che possono accedere alla procedura di composizione negoziata per la soluzione della crisi di impresa di cui al decreto legge 24 agosto 2021, n. 118, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 ottobre 2021, n. 147” (23).

La disposizione pone un problema di rilevante attualità.

Per la configurazione di un licenziamento collettivo occorre che si sia in presenza di 50 licenziamenti in senso stretto ovvero possono essere incluse, nelle 50 risoluzioni dei rapporti, anche altre tipologie di cessazione di contratti?

Il tema richiede un accurato approfondimento che trascende la materia delle delocalizzazioni, posto che attiene, in modo più generale, alla materia dei licenziamenti collettivi.

Il problema dei licenziamenti indiretti

La definizione di “licenziamento collettivo”, contenuta nell'art. 1 della direttiva 98/59, risente dell'influsso dell'ordinamento tedesco ove tale figura era ben definita fin dalla legge del 1951 (24).

I requisiti sono duplici.

Il primo, di ordine qualitativo, è espresso in negativo con il riferimento ad: “uno o più motivi non inerenti la persona del prestatore di lavoro” (25).

Con l'attuale dizione sfuggono al raggio di azione della direttiva solo quei licenziamenti che trovino causa diretta ed immediata nei comportamenti o nelle condizioni soggettive del lavoratore, come le violazioni disciplinari o la sopravvenuta incapacità a prestare l'attività lavorativa (26).

Il secondo requisito, di carattere quantitativo-temporale, lascia la possibilità agli Stati membri di scegliere tra due differenti opzioni.

La prima opzione prevede che i licenziamenti siano effettuati nell'arco di 30 giorni e che coinvolgano 10 o più lavoratori negli stabilimenti che occupano più di 20 e meno di 100 lavoratori, o almeno il 10% del numero dei lavoratori negli stabilimenti che occupano abitualmente tra 100 e 300 lavoratori, o almeno pari a 30 unità negli stabilimenti che occupano abitualmente almeno 300 lavoratori; mentre la seconda opzione prevede che i licenziamenti siano effettuati in un periodo di 90 giorni e siano almeno pari a 20, senza considerare il numero dei lavoratori attualmente occupati negli stabilimenti interessati.

La legge n. 223/1991 realizza una tutela certamente più ampia rispetto agli standard comunitari.

Non solo con riferimento al requisito quantitativo-temporale (“almeno cinque licenziamenti nell'arco di centoventi giorni”) (27) ma anche con riferimento al requisito qualitativo espresso dal legislatore italiano in positivo (“in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro”) (28).

La direttiva Cee n. 56 del 1992 ha aggiunto un nuovo paragrafo al testo della direttiva n. 75/129, stabilendo che sono assimilati ai licenziamenti le cessazioni del contratto di lavoro verificatesi per iniziativa del datore di lavoro per una o più ragioni non inerenti alla persona del lavoratore, purché i licenziamenti siano almeno cinque.

La nuova disposizione intende accomunare nel novero delle fattispecie estintive prese in considerazione, anche gli altri atti risolutori dei rapporti (dimissioni, o risoluzioni consensuali) derivanti dall'iniziativa del datore di lavoro tenendo conto di esperienze normative di altri paesi (come quello tedesco) che assimilano ai licenziamenti veri e propri le fattispecie di risoluzione incentivate dal datore di lavoro.

La nuova direttiva, però, avverte che, per il computo della soglia minima da prendere in riferimento per la qualificazione del licenziamento come collettivo, le risoluzioni dei rapporti di lavoro devono avvenire nella forma di licenziamenti in senso stretto.

Da questa disposizione nasce uno dei problemi più complessi (sul piano giuslavoristico) degli ultimi anni.

La questione è la seguente.

Se per calcolare il numero totale di licenziamenti nel periodo di riferimento, altre cessazioni del contratto di lavoro per iniziativa del datore di lavoro possono essere assimilate ai licenziamenti ai sensi dell'art. 1, paragrafo 1, della direttiva 98/59.

L'orientamento della Suprema Corte italiana sul tema era, fino a pochi anni fa, “granitico” (29).

Secondo l'orientamento consolidato di legittimità solo i licenziamenti propriamente intesi concorrono a determinare il requisito numerico rilevante per l'applicazione della disciplina del licenziamento collettivo.

È necessario conteggiare, cioè, solamente gli atti di licenziamento in senso tecnico, intesi come manifestazione unilaterale da parte del datore di lavoro di cessare il rapporto, restando irrilevanti altre forme di cessazione pur se connesse, sul piano economico, alla medesima riduzione di personale.

La risoluzione concordata del rapporto di lavoro, così come le ipotesi di dimissioni o di prepensionamenti (30), non possono essere equiparate ad un licenziamento (31).

La ricostruzione dell'orientamento giurisprudenziale di legittimità si trova scolpita in una sentenza del 2000 (32), seguita, in modo costante, da tutta la giurisprudenza di legittimità fino al 2020 (33).

Questo orientamento risulta, però, “superato” da un'ordinanza della Suprema Corte del 20 luglio 2020 (la n. 15401) (34).

Nella specie, la Corte di appello di Milano (35) aveva appurato che nel periodo dei 120 giorni successivi al licenziamento del ricorrente, per soppressione della sua mansione a seguito della esternalizzazione dell'attività alla quale risultava addetto, erano stati effettuati due licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (trasformati in risoluzioni consensuali a seguito di procedura di conciliazione ex art. 7 l. n. 604/1966). In ogni caso, anche a voler considerare queste due risoluzioni consensuali come licenziamenti, il requisito minimo dei 5 licenziamenti non sarebbe stato comunque raggiunto in quanto le altre risoluzioni derivavano da dimissioni o da licenziamenti per diversa causale (disciplinare, mancato superamento di prova, superamento del periodo di comporto) o ancora da risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro con incentivo economico.

La Corte territoriale aveva, peraltro, escluso la rilevanza delle risoluzioni consensuali derivanti dalla mancata accettazione del trasferimento proposto (è questa la questione che ha esaminato la Cassazione) perché la causale giustificativa di cui all'art. 24 l. n. 223/91 è solo quella riconducibile ad una riduzione o trasformazione “di attività o di lavoro” dovendosi, dunque, trattare di licenziamenti in senso stretto e non di risoluzioni ad essi genericamente assimilabili.

La Cassazione, nell'ordinanza del 20 luglio 2020, non condivide queste ultime affermazioni ritenendo che le risoluzioni consensuali dei rapporti di lavoro derivanti dalla mancata accettazione dei trasferimenti erano rilevanti al fine del computo dei lavoratori che determinano la configurabilità di un licenziamento collettivo.

Viene richiamata, a sostegno di tale valutazione, la sentenza Pujante Rivera della Corte di giustizia (36).

(segue) Critica al nuovo orientamento di legittimità

La motivazione della sentenza della Cassazione non convince (37).

Il giudice del rinvio nel secondo quesito della sentenza Pujante Rivera (38) chiedeva alla Corte di giustizia se, al fine di accertare l'esistenza di un “licenziamento collettivo” ai sensi della direttiva, la condizione prevista nel comma 2 dell'art. 1 della Dir. 98/59 che “i licenziamenti siano almeno cinque” debba essere interpretata nel senso che essa riguarda esclusivamente i licenziamenti ovvero ricomprende le cessazioni di contratti di lavoro assimilate ad un licenziamento.

La Corte ritiene corretta la prima tesi (la disposizione riguarda “esclusivamente i licenziamenti in senso stretto”, punto 42) in base ad argomenti esegetici (la disposizione riguarda solamente i “licenziamenti”, punto 43) avvalorati dalla finalità della direttiva quale risulta dal suo preambolo.

Infatti, ai sensi dellconsiderando n. 8 della direttiva 98/59, “ai fini del calcolo del numero di licenziamenti previsti nella definizione di licenziamenti collettivi occorre assimilare ai licenziamenti altre forme di cessazione del contratto di lavoro per iniziativa del datore di lavoro, purché i licenziamenti siano almeno cinque. Come rilevato dall'Avvocato generale (…)” sono questi veri licenziamenti che il legislatore dell'unione ha inteso considerare con l'adozione delle disposizioni relative ai licenziamenti collettivi” (punto 45).

Affermazione ribadita nella sentenza della Corte di giustizia del 21 settembre 2017, C-429/16, punto 26 (39) che la Cassazione non menziona nell'ordinanza del 20 luglio 2020.

L'interpretazione fornita nelle sentenze della Corte di giustizia trova conforto nei lavori preparatori della direttiva.

La Commissione, nella sua proposta che ha preceduto la Dir. 92/56/CEE, intendeva accogliere una nozione di licenziamento collettivo più ampia.

Per licenziamento collettivo doveva intendersi qualunque cessazione del contratto di lavoro intervenuta su iniziativa del datore di lavoro, per motivi non inerenti alla persona del lavoratore ed eccedenti la corrispondente soglia.

Il legislatore europeo non ha però aderito a tale proposta.

È stata, quindi, mantenuta la definizione originaria di licenziamento collettivo ai sensi dell'art. 1, par. 1, lett. a), della direttiva, ma è stato aggiunto nell'art. 1, un ultimo comma vertente sulle cessazioni dei contratti assimilabili ai licenziamenti.

La motivazione dell'ordinanza del 20 luglio 2020, per “superare” l'orientamento precedente, valorizza, in realtà, la risposta della Corte di giustizia alla terza questione che le era stata sottoposta nella causa Pujante Rivera.

Con la terza questione, il giudice del rinvio chiedeva, sostanzialmente, se la Dir. 98/59 doveva essere interpretata nel senso che il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso rientrava nella nozione di “licenziamento” di cui all'art. 1, par. 1, comma 1, lett. a) della medesima direttiva, oppure costituiva una cessazione del contratto di lavoro assimilabile a un siffatto licenziamento, a norma dell'art. 1, par. 1, comma 2, di detta direttiva.

La Corte di giustizia risponde affermando che la direttiva 98/59 “deve essere interpretata nel senso che il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso rientra nella nozione di licenziamento di cui all'art. 1, paragrafo 1, comma 1, lettera a) della medesima direttiva” dopo avere precisato, però (vedi punto 49), che “dalla giurisprudenza della Corte emerge che i licenziamenti si distinguono dalle cessazioni del contratto di lavoro le quali, in presenza dei presupposti di cui all'art.1, paragrafo 1, secondo comma della direttiva 98/59 sono assimilate ai licenziamenti per la mancanza di consenso da parte del lavoratore”.

In sostanza, dalle risposte fornite dalla Corte di giustizia nella sentenza Pujante Rivera si desumono due indicazioni che attengono a problemi distinti (la configurazione di un licenziamento collettivo; l'accertamento di licenziamenti “indiretti”) (40).

La prima precisazione attiene alle condizioni per potersi configurare un “licenziamento collettivo” ai sensi della direttiva 98/59: sono necessari almeno cinque licenziamenti da intendersi “in senso stretto”.

La seconda precisazione riguarda un problema diverso: la possibilità di qualificare come “licenziamenti indiretti” quelle risoluzioni dei rapporti di lavoro, qualora facciano seguito “ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro” disposta dal datore di lavoro, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore.

Precisazione che opera su un piano diverso da quello della configurazione di un licenziamento collettivo.

In sostanza, per la configurazione di un licenziamento collettivo è necessario che vi siano almeno cinque licenziamenti “in senso stretto”.

Superata questa soglia, vi è la possibilità, per il giudice adito di definire le cessazioni dei rapporti di lavoro, al di là della loro qualificazione formale (dimissioni, risoluzioni concordate) come licenziamenti “indiretti”; ovviamente, con tutte le conseguenze del caso (inefficacia dei licenziamenti “indiretti” per violazione dei criteri di scelta o altra violazione) (41).

In conclusione, riportando queste conclusioni al tema in oggetto, per la configurazione di un licenziamento collettivo, in presenza di delocalizzazioni, occorre la presenza di 50 licenziamenti in senso stretto, salve, ovviamente, ipotesi in cui vengano accertate delle ipotesi di licenziamenti in frode di legge (per aggirare la normativa in esame).

La procedura, come delineata nella legge n. 234 del 2021

I datori di lavoro, in primo luogo, dovranno comunicare, per iscritto, l'intenzione di procedere alla chiusura ad una pluralità di soggetti (alle rappresentanze sindacali aziendali o alla rappresentanza sindacale unitaria nonché alle sedi territoriali delle associazioni sindacali di categoria comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e, contestualmente, alle regioni interessate, al Ministero del lavoro e dello sviluppo economico e all'ANPAL) “almeno novanta giorni prima dell'avvio della procedura di cui all'articolo 4 della legge n. 223/91” con l'indicazione: a) delle ragioni economiche, finanziarie, tecniche e organizzative della chiusura; b) del numero e dei profili professionali del personale occupato; c) del termine entro cui è prevista la chiusura.

La platea dei destinatari della comunicazione preventiva è più ampia rispetto alla procedura disciplinata dalla legge n. 223/91.

La ragione è ovvia.

Rispetto a quella procedura (della l. 223/91) la tutela degli interessi pubblici è più accentuata rispetto alla normale procedura per i licenziamenti collettivi e richiede una comunicazione più articolata rispetto ai destinatari.

Resta fermo, comunque, che per l'individuazione delle rappresentanze sindacali occorre fare riferimento alla sentenza della Corte costituzionale del 23 luglio 2013, n. 231.

In sostanza, l'effettiva partecipazione alle trattative, pur se non seguita dalla firma dell'accordo, diviene condizione necessaria e sufficiente per soddisfare il requisito dell'art. 19, comma 1, lett. b. dello Statuto dei lavoratori.

In ordine al contenuto della comunicazione occorre evidenziare che le “ragioni” della chiusura devono essere più specifiche rispetto ai “motivi che determinano la situazione di eccedenza” (della comunicazione di avvio della procedura di cui alla l. 223/91), ricomprendendo, oltre le ragioni tecniche e organizzative, anche quelle “economiche e finanziarie” alla base della chiusura.

Nell'interpretazione dell'inciso si possono ipotizzare due tesi.

Secondo una lettura riduttiva si potrebbe sostenere che le ragioni “economiche e finanziarie” sono solo quelle che si scaricano sull'organizzazione produttiva e del lavoro, non quelle afferenti alle generali strategie economico-imprenditoriali dei soggetti che operano sul mercato del lavoro.

Secondo una lettura estensiva, si potrebbe sostenere che sarebbe possibile richiedere notizie che attengono anche alla gestione complessiva dell'impresa.

La prima tesi può sembrare troppo riduttiva considerata l'esegesi della norma (innovativa rispetto al contenuto della l. 223/91) e alla ratio dell'intervento (che deve essere ricercata nella possibilità, per i destinatari della comunicazione, di intervenire nell'iter della decisione di chiusura).

La possibilità di conoscere i progetti di investimento, i cambiamenti fondamentali riguardanti l'organizzazione del lavoro e i trasferimenti dell'area produttiva non sembrano, di per sé, lesivi della libertà di iniziativa economica.

La seconda opzione interpretativa deve essere circoscritta alla luce di un necessario bilanciamento con un altro interesse meritevole di tutela: il diritto alla riservatezza su una serie di notizie attinenti all'impresa.

Diritto che si desume da una serie di norme contenute nel codice civile (ad es. art. 2105 c.c.) e nel diritto penale (artt. 622 e 623 c.p.).

Il confine tra informazione e riservatezza non può, peraltro, essere determinato a priori, rappresentando il frutto di un contemperamento di interessi che si modulerà in relazione alle fattispecie concrete lette alla luce dei principi generali di buona fede e correttezza.

In ordine al momento (dies a quo) entro il quale la comunicazione deve essere effettuata occorre partire dal dato letterale.

La comunicazione va effettuata dal momento in cui il datore di lavoro “intenda procedere alla chiusura di una sede, di uno stabilimento, di una filiale o di un ufficio o reparto autonomo (..) con cessazione definitiva della relativa attività”.

Sulla base dell'esegesi della disposizione si possono ipotizzare due interpretazioni.

L'obbligo sorge:

a) dal momento in cui si constata che le decisioni strategiche o modificative dell'attività dell'impresa rendano necessari i licenziamenti collettivi;

b) dal momento in cui si prevede che il datore di lavoro adotti le decisioni la cui conseguenza è la necessità dei licenziamenti collettivi.

L'interpretazione dell'inciso deve bilanciare due interessi: quello dei lavoratori per attivare tempestivamente una procedura (rafforzata) che tende a “garantire la salvaguardia del tessuto occupazionale”; quello dell'impresa a mantenere un certo grado di flessibilità nelle scelte aziendali.

Un punto di equilibrio tra questi due interessi può consistere nel fissare il dies a quo nel momento in cui è stata adotta una decisione strategica che lo costringe a prevedere o a progettare licenziamenti collettivi.

Una tale interpretazione prende le mosse dalla esegesi della norma (“intende effettuare”), rispetta la ratio della disposizione (un inizio più anticipato della comunicazione potrebbe portare ad una illegittima compressione della libera iniziativa economica) e risulta in linea con le indicazioni che si desumono dalla giurisprudenza della Corte di giustizia (si veda, ad esempio, la famosa sentenza Junk) (42).

I licenziamenti individuali per GMO e i licenziamenti collettivi intimati in violazione di questa previsione (mancanza della comunicazione o prima dello scadere del termine di novanta giorni) sono nulli.

Piano aziendale

I datori di lavoro, dopo aver effettuata la comunicazione, dovranno elaborare, entro 60 giorni dalla comunicazione, un piano (che non potrà avere una durata superiore ai 12 mesi) per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura (presentandolo agli stessi soggetti destinatari della comunicazione), contenente:

A) Azioni programmate per la salvaguardia dei livelli occupazionali e gli interventi per la gestione non traumatica dei possibili esuberi, quali:

a1) il ricorso ad ammortizzatori sociali (con la possibilità di chiedere, secondo la previsione dell'art. 22-ter del D.lgs. n. 148/2015, qualora sia stato esaurito il plafond complessivo nel quinquennio mobile, ulteriori dodici mesi di Cigs finalizzata alla c.d. “transizione occupazionale”);

a2) La ricollocazione presso altro datore di lavoro (non necessariamente in rapporto di collegamento o rapporto con l'azienda che cessa l'attività);

a3) Le misure di incentivo all'esodo (con la possibile applicazione del c.d. “accordo di ricollocazione” previsto dall'art. 24-bis del D.lgs. n. 148/2015).

B) Azioni finalizzate alla rioccupazione o all'autoimpiego, quali:

b1) Formazione e riqualificazione professionale anche ricorrendo ai fondi interprofessionali;

C) Cessione dell'azienda o di rami di azienda con finalità di continuazione dell'attività, anche mediante cessione di azienda, o di suoi rami, ai lavoratori o a cooperative da essi costituite.

D) Progetti di riconversione del sito produttivo, anche per finalità socio-culturali a favore del territorio interessato.

Per tutte queste misure previste il datore di lavoro deve indicare “i tempi e le modalità di attuazione delle azioni previste”.

Esame congiunto

Il piano deve essere discusso con le rappresentanze sindacali (e gli altri soggetti istituzionali di cui al comma 224) entro trenta giorni dalla sua presentazione.

Prima della conclusione dell'esame del piano e della sua eventuale sottoscrizione il datore di lavoro non può avviare la procedura di licenziamento collettivo di cui alla legge n. 223/91, né intimare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo.

Sorge una delicata questione: è possibile sanare, in sede di esame congiunto, eventuali vizi procedurali insorti in precedenza?

Sul tema, in attesa dei necessari chiarimenti giurisprudenziali, si può solo ricordare che la giurisprudenza, formatasi in tema di licenziamenti collettivi, si è mostrata ondivaga: ora ritenendo la soluzione possibile nel caso in cui l'imprenditore e le associazioni sindacali avessero comunque raggiunto un accordo e l'atto fosse passibile di integrazione (43); ora affermando che non fosse possibile alcuna sanatoria quando il vizio (o l'omissione) di una o più fasi procedenti avrebbe privato quelle successive di adempimenti e contenuti logicamente strumentali al perseguimento del risultato finale di evitare i licenziamenti collettivi (44).

Resta, poi, da vedere se sarà possibile applicare, in via analogica, la “sanatoria” prevista dalla legge Fornero (che ha aggiunto all'art. 4, comma 12 della l. n. 223/91, un secondo periodo) e in che limiti (45).

Qualora non venga raggiunto l'accordo, il datore di lavoro può avviare la procedura di licenziamento di cui alla legge n. 223/1991.

“In questo scenario, non trova applicazione l'art. 4, commi 5 e 6 della legge n. 223 del 1991”.

La disposizione è ambigua.

Non è chiaro, infatti, se la disapplicazione della prima fase della procedura di confronto sindacale comporti una sorta di passaggio per saltum alla fase amministrativa o se, invece, ferma l'assenza di alcun obbligo per le OOSS di richiedere, a pena di decadenza, un confronto entro i sette giorni successivi alla ricezione della comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo, debbano comunque essere attesi i quarantacinque giorni previsti dalla legge.

Qualora, viceversa, l'accordo venga raggiunto dovrà essere sottoscritta una specifica intesa.

L'accordo deve contenere, per il datore di lavoro:

a) L'impegno di realizzare le azioni contenute nel piano, nei tempi e con le modalità programmate;

b) L'obbligo di comunicare mensilmente ai soggetti di cui al comma 224 “lo stato di attuazione del piano, dando evidenza del rispetto dei tempi e delle modalità di attuazione nonché dei risultati delle azioni intraprese”.

Per i lavoratori interessati dal piano è prevista:

a) La possibilità di beneficiare del trattamento straordinario di integrazione salariale di cui all'art. 22-ter del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 148 nella misura prevista dal comma 229;

b) L'accesso al programma Garanzia di occupabilità dei lavoratori (GOL) di cui all'art. 1, comma 324, della legge 30 dicembre 2020, n. 178.

Sul piano dei benefici, è prevista:

a) L'applicazione dell'imposta di registro e le imposte ipotecaria e catastale nella misura fissa di 200 euro ciascuna in caso di cessione dell'azienda o di un ramo di essa con continuazione dell'attività e mantenimento degli assetti occupazionali, al trasferimento di beni immobili strumentali che per le loro caratteristiche non sono suscettibili di diversa utilizzazione senza radicali trasformazioni;

b) Il pagamento delle imposte di registro, ipotecaria e catastale nella misura ordinaria in caso di cessazione dell'attività o di trasferimento per atto a titolo oneroso o gratuito degli immobili acquistati con i benefici del comma 237 prima del decorso del termine di cinque anni dall'acquisto.

Le modifiche del decreto aiuti-ter

L'articolo 37 del D.L. n. 144/2022, come convertito nella legge n. 175 del 17 novembre 2022, reca alcune modifiche alla disciplina di cui all'art. 1, commi da 224 a 237, della l. n. 234/2021.

La novella, alla lettera a) del comma 1, modifica il termine entro il quale il datore di lavoro è tenuto a dare comunicazione per iscritto dell'intenzione di procedere alla chiusura.

Il comma 227 della l. n. 234/21 prevedeva che la comunicazione fosse effettuata almeno novanta giorni prima dell'avvio della procedura concernente i licenziamenti collettivi.

La novella eleva tale termine dilatorio a centottanta giorni.

Nel dossier del Senato del 7 ottobre 2022, veniva evidenziato che “l'elevamento del termine viene operato solo nel secondo periodo del comma oggetto di novella e non anche nel primo”; con l'opportunità, quindi, di una revisione formale della disposizione.

Revisione che è stata effettuata in sede di conversione in legge.

Resta fermo che i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo e i licenziamenti collettivi intimati in mancanza della comunicazione o prima dello scadere del termine, ora elevato a centottanta giorni, sono nulli.

Tuttavia, la novella specifica che i licenziamenti intimati dopo la sottoscrizione del piano (previsto dalla disciplina dalla legge di bilancio 2021) sono validi anche qualora essi siano effettuati durante il periodo temporale sopra menzionato (novanta giorni) (46).

La novella, alla lettera b) del comma 1, modifica il termine entro il quale il piano deve essere discusso con le rappresentanze sindacali aziendali o la rappresentanza sindacale unitaria, alla presenza delle regioni interessate, del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, del Ministero dello sviluppo economico e dell'ANPAL.

La disposizione del comma 231 della l. n. 234/21 prevedeva che l'esame venisse svolto entro trenta giorni dalla presentazione del piano.

La novella eleva il termine a centoventi giorni.

La norma transitoria del comma 3 della novella specifica che anche qualora, alla data di entrata in vigore del presente D.L. n. 144 (24 settembre 2022), la suddetta comunicazione iniziale sia già stata effettuata, il termine entro il quale il piano deve essere discusso è pari a centoventi giorni (decorrenti dalla presentazione del piano medesimo), anziché al termine previgente di trenta giorni.

La novella, alla lettera c) del comma 1, in primo luogo, modifica gli effetti della mancata sottoscrizione del piano da parte delle organizzazioni sindacali.

Modificando la disciplina del comma 235 della legge n. 234/21 si prevede che, in tale ipotesi, il datore di lavoro sia tenuto a versare all'INPS il contributo previsto per le cessazioni di rapporti di lavoro (47) “innalzato (48) del 500 per cento” (così, testualmente la disposizione).

Sempre con riferimento all'ipotesi di mancata sottoscrizione da parte delle organizzazioni sindacali, la lettera d) del comma 1 sopprime la previsione secondo cui il datore di lavoro, decorso il suddetto termine dilatorio (elevato ora a centottanta giorni) decorrente dalla comunicazione, possa avviare la procedura relativa ai licenziamenti collettivi senza lo svolgimento, in seno ad essa, della fase di esame congiunto con le rappresentanze sindacali.

Le sanzioni civili e il problema della restituzione delle sovvenzioni
Il comma 227 della legge di bilancio del 2021, sul piano civilistico, è chiaro.

In assenza dell'esperimento della procedura prevista dalla legge o, comunque, prima dello spirare del termine di 90 giorni, i licenziamenti individuali (per GMO) e i licenziamenti collettivi “sono nulli”, con conseguenze sostanzialmente uniformi ed insensibili al fatto che il lavoratore sia assunto o meno con un contratto a tutele crescenti.

Il comma 233 della l. n. 234/21 non è altrettanto chiaro.

La disposizione prevede: “prima della conclusione dell'esame del piano e della sua eventuale sottoscrizione il datore di lavoro non può avviare la procedura di licenziamento collettivo di cui alla legge 23 luglio 1991 n. 223 né intimare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo”.

La disposizione nulla dice in caso di violazione del precetto.

Nell'interpretazione della disposizione, attraverso l'argomento a contrario, dovrebbe escludersi la configurazione della nullità.

Probabilmente, la tesi più corretta è quella della sanzione della inefficacia dei licenziamenti posti in essere in violazione del precetto sulla premessa che i vincoli procedurali assurgono a condizione di legittimità della procedura sindacale e a condizione di efficacia dei provvedimenti consequenziali.

Il decreto aiuti-ter, nel comma 2 dell'art. 37, aggiunge alle sanzioni civilistiche un altro tipo di sanzione con riferimento ad alcuni esiti delle procedure rientranti nella disciplina in oggetto.

In particolare, per l'ipotesi che, dopo lo svolgimento delle suddette procedure (nel testo della legge n. 175/2022 si legge: “nel caso in cui, all'esito della procedura di cui all'art. 1, commi da 224 a 237, della legge 30 dicembre 2021, n. 234”), il datore di lavoro cessi definitivamente l'attività produttiva o una parte significativa della stessa, anche per effetto di delocalizzazioni, con contestuale riduzione di personale superiore al 40 per cento di quello impiegato mediamente nell'ultimo anno, a livello nazionale o locale ovvero nel reparto oggetto della delocalizzazione o chiusura, si prevede l'obbligo di restituzione delle sovvenzioni e dei contributi, sussidi, ausili finanziari o vantaggi economici, a carico della finanza pubblica, di cui il datore abbia beneficiato per gli stabilimenti produttivi oggetto delle medesime cessazioni o ridimensionamenti di attività; tale obbligo concerne i benefici rientranti fra quelli oggetto di iscrizione obbligatoria nel Registro nazionale degli aiuti di Stato, percepiti nei dieci anni antecedenti l'avvio delle procedure suddette, e l'importo da restituire è determinato in proporzione alla percentuale di riduzione del personale.

Fino al completo adempimento dell'obbligo di restituzione, al soggetto debitore non possono essere concessi ulteriori sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili.

Il provvedimento delle singole amministrazioni (eroganti i suddetti benefici) che dia atto della sussistenza dei presupposti per la restituzione costituisce titolo per la riscossione coattiva mediante ruolo, ai sensi del d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46.

Le somme riscosse in base a tale obbligo di restituzione sono riversate in apposito capitolo di bilancio e sono destinate in favore di processi di reindustrializzazione o riconversione industriale delle aree interessate dalla cessazione dell'attività.

Il comma 3 specifica che le “disposizioni di cui ai commi 1 e 2” si applicano anche alle procedure avviate prima dell'entrata in vigore (il 24 settembre 2022) del decreto aiuti-ter e non ancora concluse.

La disposizione, estremamente complessa, può avere un impatto devastante sulle imprese interessate.

Per analizzare la disposizione è bene ricordare il precedente intervento legislativo.

Con il decreto dignità (d.l. 80/2018 convertito con modificazioni nella legge n. 96/2018) erano state introdotte tre tipologie di vincoli applicabili alle imprese beneficiarie di aiuti di Stato.

All'art. 5 si stabiliva la decadenza dal beneficio, con conseguente restituzione delle somme eventualmente riscosse, per le imprese che: a) avessero beneficiato di aiuti di stato che prevedevano l'effettuazione di “investimenti produttivi” ai fini dell'attribuzione del beneficio e avessero delocalizzato l'attività economica interessata dal beneficio (o una sua parte) in Stati non appartenenti allo spazio economico europeo; b) avessero beneficiato di aiuti di stato che prevedevano l'effettuazione di “investimenti produttivi specificamente localizzati”, al di fuori dei casi previsti nel comma 1, e avessero delocalizzato l'attività economica interessata dal beneficio (o una sua parte) al di fuori dell'ambito territoriale del sito produttivo di origine.

L'art. 6 era diretto a preservare il mantenimento dei livelli occupazionali in seno ad imprese – operanti sul territorio nazionale – che avessero beneficiato di aiuti di Stato che “prevedono una valutazione di impatto occupazionale”.

L'impresa decadeva interamente dal beneficio qualora avesse ridotto i livelli occupazionali degli addetti all'unità produttiva o all'attività interessata dal beneficio in misura superiore al cinquanta per cento entro cinque anni dalla data di completamento dell'investimento.

In caso di riduzione dei livelli occupazionali in misura superiore al dieci per cento (ma inferiore al cinquanta) il beneficio veniva ridotto in modo proporzionale.

Una lettura, a specchio, della disciplina “vecchia” e “nuova” consente di formulare alcune considerazioni a prima lettura.

In primo luogo, sul raggio di azione delle due, diverse, discipline.

L'impostazione di fondo del decreto dignità era chiaro: “agganciare all'utilizzo di risorse pubbliche nazionali, finanziate dalla fiscalità nazionale, l'impegno imprenditoriale alla permanenza nel territorio per un certo lasso di tempo, con la garanzia, in alcuni casi, del mantenimento di determinati livelli occupazionali” (49).

L'ambito di applicazione del nuovo intervento è, in parte, diverso e, comunque, non strettamente legato alle c.d. “delocalizzazioni”.

Gli elementi costitutivi della fattispecie sono due.

In positivo, la “cessazione definitiva dell'attività produttiva o una parte significativa di essa, anche (e non solo) per effetto di delocalizzazioni, con contestuale riduzione di personale superiore al 40 per cento di quello impiegato mediamente nell'ultimo anno”.

In negativo, che le imprese interessate non versioni “in situazioni di crisi” (come si legge nella rubrica dell'art. 37 del decreto aiuti-ter).

La ratio della norma è, quindi, quella di ridurre la possibilità di cessazioni di attività (anche parziali) con il mantenimento di determinati livelli occupazionali a prescindere se vi sia, o meno, un fenomeno di delocalizzazione all'estero.

Il comma 2 dell'art. 37 del decreto aiuti-ter solleva numerosi dubbi interpretativi oltre che questioni di legittimità costituzionale.

In primo luogo, in ordine ai soggetti coinvolti.

La decadenza dei benefici si applica anche in caso di cessazioni di attività decise da imprese controllate o collegate, ai sensi dell'art. 2359 c.c.?

A favore della risposta positiva si era espressa una parte della dottrina (50) in ordine all'interpretazione del decreto dignità.

In secondo luogo, in ordine agli obblighi di restituzione.

La disposizione parla di: “sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari o vantaggi economici a carico della finanza”.

Dizione che, per un verso, sembra ricomprendere anche la cassa integrazione guadagni (che, viceversa, veniva esclusa, da una parte della dottrina (51), dal raggio di azione dell'art. 5 del decreto dignità) e che, sotto altro profilo lascia una totale discrezionalità all'interprete circa la delimitazione del concetto di “vantaggi economici a carico della finanza”.

In terzo luogo, in relazione al periodo temporale nel quale trova applicazione la nuova disciplina.

L'art. 6, comma 3, del decreto dignità faceva salvi i benefici già concessi prima della data di entrata in vigore del decreto (14 luglio 2018).

Il comma 3 dell'art. 37 del decreto aiuti-ter specifica che le “disposizioni di cui ai commi 1 e 2” si applicano anche alle procedure avviate prima dell'entrata in vigore (il 24 settembre 2022) del decreto aiuti-ter e non ancora concluse.

Disposizione che solleva delicate questioni di legittimità costituzionale come vedremo nel paragrafo n. 9.
Le previsioni di maggior favore per i lavoratori sancite nei contratti collettivi

La novella, alla lettera e) del comma 1 del decreto aiuti-ter, introduce una clausola di salvezza delle condizioni di maggior favore per i lavoratori - rispetto alla disciplina in esame - eventualmente previste dai contratti collettivi di lavoro rientranti nella definizione di cui all'articolo 51 del D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 - contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e contratti collettivi aziendali stipulati dalle rappresentanze sindacali aziendali delle suddette associazioni ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria.

Il riferimento è alle clausole sociali già presenti in molti contratti collettivi, come, ad esempio, l'art. 9 del CCNL metalmeccanico.

Sul tema, è opportuno esaminare il caso Wartsila Italia spa che è stato sottoposto, di recente, al Tribunale di Trieste.

Il decreto del 23 settembre 2022 del Tribunale, sez lavoro, di Trieste trae origine dall'azione per la repressione della condotta antisindacale ex art. 28 Stat. Lav. intrapresa dalle sigle sindacali Fim Cisl, Fiom Cgil e Uilm Uil della Provincia di Trieste nei confronti di Wartsila Italia S.p.A., filiale italiana del gruppo multinazionale finlandese Wartsila Corporation.

Con comunicazione del 14 luglio 2022, Wartsila Italia S.p.A. aveva avviato la procedura c.d. “antidelocalizzazioni” ex art. 1, comma 224, L. 234/2021 con la quale aveva preannunciato la cessazione dell'attività di produzione di motori, nota anche come Delivery Centre Trieste “DCT” e dell'attività di assemblaggio di propulsori, nota anche come DCT-P, presso il sito di Bagnoli della Rosandra, 334, San Dorlingo della Valle, Trieste, con il conseguente esubero di n. 451 dipendenti.

Secondo le Organizzazioni Sindacali ricorrenti l'invio della comunicazione ex art. 1, comma 224, L. 234/2021 configurava una condotta antisindacale per due ordini di ragioni:

a) in primo luogo, perché Wartsila Italia S.p.A. aveva omesso di rispettare gli obblighi informativi preventivi in materia di livelli occupazionali previsti sia dall'art. 9, sez. I, del CCNL Industria Metalmeccanica, in attuazione del D.lgs. n. 25/2007, attuativo della direttiva europea 2002/14/CE, sia dalla contrattazione collettiva aziendale.

b) in secondo luogo, perché la comunicazione di avvio della procedura non conteneva tutte le informazioni richieste dall'art. 1, comma 224, L. 234/2021.

In questo contesto, veniva chiesta la revoca della comunicazione di avvio della procedura ex art. 1, comma 224, L. 234/2021 nonché il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno.

La società replicava affermando:

a) che era inapplicabile l'art. 9 del CCNL invocato perché lo stesso prevede espressamente che “le procedure previste dalla Legge 23 luglio 1991, n. 223, dalla Legge 29 dicembre 1990, n. 428 nonché dal D.P.R. n. 218 del 2000, assorbono e sostituiscono le procedure di informazione e consultazione in materia”.

b) che la società non aveva potuto informare preventivamente le Organizzazioni Sindacali della volontà aziendale di chiudere lo stabilimento di Bagnoli della Rosandra sia perché ne era rimasta ignara fino al 13 luglio 2022, data in cui tale decisione sarebbe stata comunicata dalla capogruppo, sia perché ostava a una simile informazione l'obbligo di segretezza imposto dal Market Abuse Regulation (Regolamento Europeo 596/2014/EU).

Il Tribunale di Trieste non ha ritenuto di condividere le ragioni della società precisando che non vi è alcun assorbimento tra le due procedure in quanto l'art. 9 del CCNL “non fa alcun cenno alla procedura prevista dalla L. 234/2021, come è naturale che sia, in ragione del fatto che l'ultima versione del CCNL in questione è antecedente all'approvazione della legge or ora richiamata” (52).

La decisione del Tribunale di Trieste appare condivisibile.

L'art. 8 del D.gs n. 25/2007, in attuazione della Direttiva 2002/14/CE (53), chiarisce che le due diverse procedure – quelle generali in tema di informazione e consultazione e quelle specifiche in materia di licenziamento collettivo e di trasferimento di azienda – “non si elidono e anzi coesistono nella loro portata vincolante” (54).

Sulla base di questa premessa, il Tribunale di Trieste ha revocato l'atto introduttivo della procedura.

Afferma, infatti, il giudice triestino che “il problema delle conseguenze da raccordare all'accertamento dell'antisindacalità della condotta in casi come quello in argomento è stato affrontato con soluzioni differenti. In particolare è stato affermato che qualora le previsioni contrattuali di carattere collettivo o integrativo aziendale non prevedano espressamente che l'avvio della procedura debba essere preceduto dalla preventiva informazione sindacale, allora non si può ritenere la procedura invalida, la si deve ritenere legittima e la stessa non può essere revocata” notando, tuttavia, che “un'interpretazione siffatta, tuttavia, finisce con lo svuotare e rendere inoffensivo lo strumento dell'art. 28 L. 300/1970, il quale, invece, è stato concepito dal legislatore in termini di rilevante incisività ed efficacia, come si evince dal fatto stesso che i poteri del Giudice non sono tipizzati ma volti alla finalità precipua di reprimere la condotta illegittima”.

Secondo il giudice di Trieste l'argomento che valorizza l'assenza del nesso di causalità non coglie nel segno poiché “l'effetto della condotta antisindacale non è nel caso di specie l'invio di una comunicazione in una situazione nella quale il confronto con i sindacati avrebbe scongiurato la chiusura della sede Wartsila di Trieste, circostanza che nessuno può invero conoscere, ma semplicemente l'invio di una comunicazione relativa alla decisione di chiudere il sito produttivo che non sia stata preceduta da una consultazione sindacale. Per tale ragione non è utile chiedersi se la consultazione sindacale sia stata procedimentalizzata o meno, e nemmeno procedendo nel ragionamento, ha senso chiedersi se la Wartsila avrebbe o meno deciso di inviare la comunicazione se vi fosse stato il confronto con i sindacati. Lo scopo del procedimento, qualora sia emersa l'antisindacalità della condotta datoriale è quello di reprimere la condotta antisindacale qualora la stessa sia ancora attuale. Qualora l'attualità ricorra come nel caso di specie, l'unica modalità per ottenere l'effetto repressivo richiesto dalla legge, è consentire al sindacato di svolgere il ruolo che gli è stato assegnato nell'ambito della contrattazione collettiva ed integrativa nel caso di specie. Ed allora altra soluzione non v'è che riportare la situazione di fatto allo status quo ante, in una fase nella quale il confronto preventivo sia ancora possibile, e dunque ordinarsi al datore di lavoro la revoca della comunicazione ex art. 1 L. 234/2021, affinché si dia luogo alla concertazione fra datore di lavoro e sindacati prevista da contrattazione collettiva ed integrativa, concertazione che dovrà ovviamente essere effettiva e non risolversi nella mera esibizione della comunicazione già inviata”.

La soluzione del problema fornita dal giudice triestino deve essere contestualizzata in riferimento alla fattispecie esaminata.

Da un punto di vista più generale, occorre ribadire che nei rimedi da adottare bisogna valutare, caso per caso, “l'incidenza della violazione delle procedure sindacali preventive di informazione e consultazione sulla procedura di licenziamento, ove la stessa sia stata già avviata, nella prospettiva di rendere effettivo il confronto con il sindacato” (55).

Questioni di legittimità costituzionale

Il combinato disposto della legge di bilancio del 2012 e del decreto aiuti-ter solleva non poche perplessità di natura costituzionale.

Perlomeno in due direzioni.

La prima, di carattere generale, attiene al tema del c.d. blocco dei licenziamenti.

Per effetto della nuova disciplina prevista per il contrasto delle delocalizzazioni (L. n. 234 del 2021) il blocco dei licenziamenti, per le imprese medio-grandi, è stato prorogato, di diritto o di fatto, fino al 31 marzo del 2022.

È vero che la nuova disciplina (che ha carattere strutturale) non è, direttamente, connessa con il blocco dei licenziamenti.

Ma la connessione con il blocco dei licenziamenti deriva da agevoli considerazioni di carattere sistematico.

In primo luogo, il blocco dei licenziamenti è stato prorogato fino al 31 dicembre 2021 per i datori di lavoro privati che, a partire dal 1° luglio 2021, hanno avuto accesso alla Cassa integrazione salariale ordinaria o straordinaria secondo quanto previsto dal Decreto Sostegni-bis e per i datori di lavoro individuati dall'art. 40 bis del d.l. 30 giugno 2021, n. 99 (56).

In secondo luogo, il blocco dei licenziamenti si è esteso, di fatto, fino al 31 dicembre 2021 anche per i datori di lavoro che potevano accedere alla Cigo, alla Cigs o alla Cigs in deroga, anche se, in concreto, non lo hanno fatto perché “se si escludessero dall'ambito soggettivo del divieto i datori di lavoro che, pur potendo accedere agli ammortizzatori, non vi hanno fatto ricorso, si farebbe dipendere l'ambito del divieto da una decisione unilaterale dell'azienda, disancorandola da elementi obiettivi” (57).

L'opinione, ancorché non vincolante, ha condizionato l'operato della gran parte delle aziende che hanno deciso di posticipare i licenziamenti al 2022.

Per effetto della normativa contenuta nella legge di bilancio le procedure di licenziamento collettivo, in concreto, non sono iniziate prima del mese di aprile (2022).

Il blocco ha superato i due anni di vita e pone, già sotto questo primo aspetto, un serio problema di legittimità costituzionale (58).

Un blocco dei licenziamenti, fino al 31 marzo 2022 (ancorché limitato alle medie e grandi imprese), sembra collidere con il principio di proporzionalità combinato con il criterio di ragionevolezza che deve ispirare le scelte del Legislatore e le valutazioni dell'interprete.

L'inasprimento delle sanzioni previste dal decreto aiuti-ter pone un secondo profilo di possibile contrasto con la Costituzione.

L'obbligo di restituzione delle sovvenzioni e dei contributi, sussidi, ausili finanziari o vantaggi economici, a carico della finanza pubblica, di cui il datore abbia beneficiato per gli stabilimenti produttivi oggetto delle cessazioni o ridimensionamenti di attività applicato “anche alle procedure avviate prima dell'entrata in vigore (il 24 settembre 2022) del decreto aiuti-ter e non ancora concluse” (59) solleva non poche perplessità per la possibile violazione del principio di affidamento che rappresenta un principio costituzionale generale non scritto della nostra Carta costituzionale (60).

Il legittimo affidamento costituisce un limite alla discrezionalità del legislatore nell'elaborazione di norme sopravvenute regolatrici in senso peggiorativo.

Limite, certamente, non assoluto (come nel caso della legge penale) ma che deve essere “governato” (61) eventualmente con disposizioni transitorie, per proteggere, quanto più è possibile, quei rapporti giuridici – ancora in itinere – nati nel regime normativo di segno più favorevole.

Il possibile contrasto con la libertà d'impresa e di stabilimento

È, peraltro, ipotizzabile un rinvio della questione alla Corte di giustizia.

Sul tema occorre operare un distinguo.

Per il divieto di licenziamenti individuali la Corte non ha competenza in assenza di una direttiva (62).

Per il divieto di licenziamenti collettivi, viceversa, una direttiva esiste (la n. 98/59).

Non solo.

Considerato che la disciplina italiana prevede una sorta di procedura collettiva rafforzata è evidente il collegamento con le materie di informazione e consultazione sindacale che costituiscono il “cuore” della direttiva.

In base alla ordinanza Balga (63) e alla sentenza ConsulmarKeting (64) è possibile sostenere la “competenza” della Corte di giustizia.

Ma quali sono i “principi” (65) che entrano in gioco?

Sicuramente, come nel diritto nazionale, la libertà d'impresa e la tutela del posto di lavoro che trovano espressione negli artt. 16 e 30 della Carta dei diritti fondamentali.

In questo contesto, peraltro, entra in gioco anche la libertà di stabilimento tutelata dall'art. 49 del TFUE.

Rientra nell'ambito della libertà di stabilimento la situazione in cui una società stabilita in uno Stato membro cessi, in tutto o in parte, la sua attività delocalizzandola in altro Paese membro.

In questo contesto, la Corte di giustizia dovrebbe verificare se siamo in presenza di una “restrizione” della libertà di stabilimento.

In base alla giurisprudenza Gebhard (66), le restrizioni devono soddisfare quattro condizioni per essere compatibili con il diritto dell'Unione: esse devono applicarsi in modo non discriminatorio, essere giustificate da motivi imperiosi di interesse pubblico, essere idonee a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non andare oltre quanto necessario per il raggiungimento di questo.

Occorre, poi, esaminare il profilo della possibile “compressione” della libertà d'impresa.

Dall'art. 52, paragrafo 1, della Carta risulta che la libertà d'impresa garantita dall'art. 16 della Carta non è assoluta, ma può essere oggetto di disciplina.

L'art. 16 della Carta (67) recita che “la libertà d'impresa è riconosciuta conformemente al diritto dell'Unione e alle legislazioni e prassi nazionali”.

La libertà di determinare la natura e la portata dell'attività, come ha precisato la Grande sezione della Corte di giustizia nella sentenza del 21 dicembre 2016 (68), è un diritto fondamentale per l'impresa e la decisione di procedere a un licenziamento collettivo rappresenta una decisione fondamentale nella vita dell'impresa”.

Ma questo principio va bilanciato con le finalità sociali che, nella giurisprudenza della Corte di giustizia, hanno trovato sempre più spazio e rilevanza.

La tutela dei lavoratori rientra tra le ragioni imperative di interesse generale (69).

La Corte di giustizia ha già ammesso che le considerazioni attinenti al mantenimento dell'occupazione possono costituire, in determinate circostanze e a certe condizioni, giustificazioni per una normativa nazionale limitativa (70).

L'Unione europea non soltanto instaura un mercato interno ma si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa.

“Poiché dunque l'Unione non ha soltanto una finalità economica ma anche una finalità sociale, i diritti che derivano dalle disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali devono essere bilanciati con gli obiettivi perseguiti dalla politica sociale tra i quali figurano in particolare, come risulta dall'art. 151, primo comma, TFUE, la promozione dell'occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro l'emarginazione” (71).

Identificati (ed interpretati) i “principi” in gioco occorre effettuare un bilanciamento.

Il principio di proporzionalità e la tecnica del bilanciamento sono considerati il tratto essenziale dei moderni sistemi costituzionali.

La relazione stretta tra proporzionalità e diritti fondamentali si fonda sulla teoria di Alexy (72).

Le norme dei diritti fondamentali hanno generalmente carattere di principi e in caso di collisione con altre norme di diritti fondamentali sono oggetto di bilanciamento.

Alexy evidenzia lo stretto legame tra teoria dei principi e principio di proporzionalità in quanto “il carattere dei principi implica il principio di proporzionalità e questo implica quello” (73).

I conflitti tra principi costituzionali sono risolti per mezzo di un “enunciato di preferenza”, come lo chiama Alexy, la cui forma logica è: Il principio P1 ha più peso (ossia più valore) del principio P2 nel contesto X” (74).

Bilanciare due principi non è “riconciliarli” o trovare, tra essi, un “equilibrio” (75).

Il bilanciamento si risolve “nel concretizzare o specificare uno di essi in un determinato caso (…). Ma si tratta di una gerarchia assiologica, flessibile, mobile, instabile: dipende dal caso in discussione” (76).

Secondo Alexy, l'enunciato di preferenza stabilisce una “relazione di precedenza condizionale” (77), se si danno le condizioni C1, P1 prevale su P2; se si danno le condizioni C2, P2 prevale su P1.

Nei processi applicativi delle norme sui diritti fondamentali “la tecnica del bilanciamento è, essa stessa, la forma di decisione, la quale consiste in un giudizio di prevalenza di uno o l'altro dei principi che nel caso concreto vengono a confliggere, oppure di concorrenza dell'uno con l'altro in condizioni di reciproca limitazione” (78).

Il bilanciamento, comunque, deve essere effettuato in astratto e in concreto

(79).

Sul piano “astratto” (80) viene in rilievo il rispetto del contenuto essenziale (81) della libertà d'impresa.

Non basta, quindi, una limitazione prevista dalla legge ma occorre che tale limitazione non leda il “contenuto essenziale” del principio in gioco (nella specie la libertà d'impresa) rispettando il principio di proporzionalità (82).

La presenza di una sanzione pesantissima quale quella prevista nel comma 2 dell'art. 37 del decreto aiuti-ter non comprime, forse, la stessa libertà di stabilimento per non parlare della libertà d'impresa?

Il principio di proporzionalità impone, peraltro, anche un bilanciamento in concreto dei principi in gioco.

In questo contesto, il carattere generico e impreciso della formulazione dei commi da 224 a 238 della legge del 30 dicembre 2021, n. 234 (con le incertezze interpretative che, fin dal suo nascere, ha generato) potrebbe comportare un grave pregiudizio alla libertà d'impresa considerato che si tratta di decisioni il cui carattere essenziale nella vita dell'impresa è evidente (83).

Non solo.

Il tema dei c.d. licenziamenti indiretti, come emerge dalla giurisprudenza degli ultimi anni, può incidere, in modo rilevante, sulla libertà d'impresa per le incertezze che suscita nella fase di applicazione della disciplina sulle delocalizzazioni (84).

Non occorre dimenticare, in questo contesto, che la direttiva 98/59 non incide, in alcun modo, “sulla libertà di giudizio” del datore di lavoro “in merito al se e al quando debba elaborare un piano di licenziamento collettivo” (85).

In questo contesto, si impone una domanda.

A quale Corte occorre rivolgersi in prima battuta?

È il problema della doppia pregiudizialità.


Il problema della doppia pregiudizialità

La Corte costituzionale, fino a qualche anno fa, riteneva che, in presenza di una “doppia pregiudizialità”, la questione fosse inammissibile, considerato l'onere del giudice nazionale di rivolgersi alla Corte di giustizia e, solo dopo avere esperito tale rimedio, al giudice delle leggi (86).

A partire dalla sentenza n. 269/2017 (C. cost. 14 dicembre 2017 n. 269), tuttavia, tale orientamento è mutato.

In questa sentenza, la Corte costituzionale ha affermato che, nel caso in cui “la violazione di un diritto alla persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell'Unione”, è necessario “un intervento erga omnes di questa Corte, anche in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell'architettura costituzionale”.

Si tratta di un'inversione dell'ordine logico e cronologico della “doppia pregiudizialità”.

La Consulta, pur non imponendo la necessità dell'inversione (la Corte giudicherà “alla luce dei parametri interni ed eventualmente di quelli europei secondo l'ordine di volta in volta appropriato”), lascia intendere che la questione di legittimità costituzionale sarà ordinariamente trattata per prima, lasciando la pregiudiziale comunitaria in posizione temporalmente successiva ed eventuale.

La sentenza ha suscitato un acceso dibattito in dottrina, trovando un riscontro diversificato in sede di giudizi di legittimità.

In dottrina sono emerse varie opinioni.

Ai poli opposti si collocano le tesi di chi (87) sostiene che la preferenza e, quindi, la priorità debba essere comunque data alla Corte di giustizia e chi (88), viceversa, afferma che la precedenza debba essere garantita in ogni caso alla Consulta. Nella terra di mezzo si colloca chi (89) sostiene la tesi del contestuale impiego dei due strumenti, con rinvio pregiudiziale parallelo alla rimessione alla Consulta.

Secondo una diversa impostazione (90), basata sul “principio di prossimità”, occorre distinguere l'ipotesi in cui vi sia un margine di discrezionalità in capo al legislatore nazionale in sede di trasposizione dell'obbligo posto dal diritto dell'Unione ed il caso in cui questa discrezionalità non sia ravvisabile.

Nel primo caso, occorrerebbe in primis ricorrere alla Corte costituzionale. Nel secondo la precedenza dovrebbe essere accordata al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.

In giurisprudenza si sono creati due orientamenti.

Secondo un primo orientamento (Cass. sentenza 17 maggio 2018 n. 12108 e ordinanza del 30 maggio 2018 n. 13678), la presa di posizione della Consulta non sarebbe vincolante per il giudice comune in quanto espressa in un “obiter” contenuto in una decisione di inammissibilità.

Un secondo orientamento si adegua, invece, alle indicazioni della Consulta.

Espressione di tale orientamento è la sentenza Bolognesi (Cass. sentenza 16 febbraio 2018 n. 3831), nell'ambito della quale, però, si percepisce una notevole preoccupazione (91).

Ma lo scenario è in movimento.

Sulla questione sono intervenute due sentenze della Corte costituzionale (C. cost. 21 febbraio 2019 n. 20 e C. cost. 21 marzo 2019 n. 63) e l'ordinanza n. 117 del 10 maggio 2019 dove la Corte “riassume” il suo pensiero.

Nell'ordinanza si legge che resta fermo “che i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso necessaria anche al termine del procedimento incidentale di legittimità costituzionale; e fermo restando, altresì, il loro dovere — ricorrendone i presupposti — di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al loro esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta”.

Il tutto, come già evidenziato dalla sentenza n. 269 del 2017, “in un quadro di costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia, nel quale le Corti costituzionali sono chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di giustizia (da ultimo ordinanza n. 24 del 2017), affinché sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico” (92).

Nell'evoluzione degli orientamenti della Consulta si avverte il tentativo di “smussare” alcune “tensioni” generate dalla sentenza n. 269/17 e di rimettere alla gestione del giudice ordinario i casi di “doppia pregiudizialità” senza imporre vincoli assoluti.

Resta ferma, in caso di doppia pregiudizialità, l'indicazione di preferire il sindacato incidentale rispetto all'interpello alla Corte di giustizia.

Ma la Consulta ha cura di rassicurare i giudici di merito (e la stessa Corte di giustizia) sul fatto che la via del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia non è affatto preclusa (anche dopo la pronuncia della Corte costituzionale) dichiarandosi disponibile a percorrerla essa stessa (93) per trarre dall'ordinamento dell'Unione europea elementi utili allo sviluppo ermeneutico dei diritti fondamentali.

Un recente contributo del giudice della Corte costituzionale Nicolo Zanon (94) consente di approfondire, ulteriormente, la materia.

La premessa del ragionamento, ampiamente condivisibile, è che, rispetto al tempo in cui è stata emessa la sentenza Granital (n. 170 del 1984), l'ordinamento europeo “ha vissuto una straordinaria espansione, non essendo più relegato alla tutela e promozione delle libertà economiche” (95).

Espansione che trae origine “dall'appropriazione del terreno dei diritti fondamentali” (96) ma che trova consacrazione nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea che segna un vero e proprio cambio di paradigma (97).

In questo contesto, viene posta la seguente domanda:

“L'interesse a che sia garantita l'uniforme applicazione di un diritto fondamentale (e sia dunque assicurata uguaglianza e certezza del diritto su aspetti cruciali) può davvero essere affidata unicamente al singolo giudice comune e alla sua scelta (laddove non si tratti di giudice di ultima istanza) di investire la Corte di giustizia? E, in ultimo, può questo interesse essenziale restare confidato ad una decisione del giudice comune, che si limita per l'appunto a disapplicare nel singolo caso la norma nazionale lesiva di un diritto fondamentale, lasciandola però sopravvivere nell'ordinamento giuridico, senza un'effettiva e decisiva garanzia che il legislatore provveda a rimuoverla?” (98).

La risposta fornita dal giudice Zanon è che, “in casi di rilievo costituzionale assoluto” (99), è preferibile richiedere, in prima battuta, l'intervento della Consulta perché “nel campo dei diritti fondamentali, sono spesso necessarie valutazioni complesse, di proporzionalità e di bilanciamento. E nessuno dubita trattarsi di valutazioni che vanno compiute dal giudice costituzionale”.

La decisione della Corte costituzionale, produttiva di effetti erga omnes, assicurerebbe, in questo contesto, “la tutela del diritto, mettendo definitivamente fuori gioco la disposizione di legge illegittima, a beneficio di tutti i consociati e delle esigenze di certezza del diritto”.

L'autorevole indicazione è, in linea di massima, condivisibile.

Restano, però, delle perplessità sulla sua applicazione in tema di principio di non discriminazione.

Anche in questo caso, secondo l'illustre Autore (100), “una norma europea a effetto diretto non necessariamente “somministra” la regola del caso concreto. O meglio: in casi che presentano simili peculiarità, è opportuno che il giudice comune investa la Corte costituzionale. Questa, soprattutto, è a mio avviso la permanete ragione che continua a fondare l'obiter contenuto nella sentenza n. 269 del 2017”.

L'affermazione lascia qualche perplessità.

Il principio di non discriminazione è un “diritto” che trova applicazione anche nei rapporti orizzontali.

È sempre il giudice del singolo caso che deve verificare l'esistenza di una discriminazione (sulla base, eventualmente, delle indicazioni della Corte di giustizia), poiché egli “è l'unico ad avere conoscenza diretta della controversia”.

Non vi è dubbio che, nel caso di specie, il giudice comune opera un bilanciamento degli interessi coinvolti nella fattispecie concreta.

Ma affermare che, in questo caso, “si verifica qualcosa di simile a quanto accade a seguito di una pronuncia di accoglimento additiva della Corte costituzionale” è, forse, eccessivo.

In realtà, in queste fattispecie, la via maestra è l'utilizzo dell'interpretazione conforme al diritto UE.

Ma in caso di impraticabilità della stessa non resta per il giudice comune che disapplicare la norma interna illegittima.

Vi è di più.

In casi di questo genere la rimessione alla Consulta potrebbe essere dichiarata inammissibile.

La stella polare per orientarsi sulla materia è costituita dalla sentenza della Corte costituzionale dell'11 marzo 2022, n. 67 (101).

Con due ordinanze, la Corte di cassazione, sezione lavoro, sollevava questioni di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 6-bis, del decreto-legge 13 marzo1988, n. 69 (Norme in materia previdenziale, per il miglioramento delle gestioni degli enti portuali ed altre disposizioni urgenti), convertito, con modificazioni, nella legge 13 maggio 1988, n. 153 prospettando la violazione degli artt. 11 e 117, primo comma Cost., in relazione agli artt. 2 e 3 della direttiva n. 2003/109/CE.

In entrambi i casi, il contrasto della norma censurata con il diritto dell'Unione europea era stato accertato dalla Corte di giustizia con le sentenze rese nelle cause C-303/19 e C-302/19.

Nella specie, quindi, non si poneva una questione di doppia pregiudizialità (102).

Né l'una né l'altra ordinanza evocavano la violazione della Carta dei diritti fondamentali

dell'Unione europea e in particolare dell'art. 34.

La Cassazione, dopo avere escluso il ricorso allo strumento dell'interpretazione conforme, riteneva di non poter procedere alla disapplicazione della disposizione citata poiché, con riferimento alla prestazione sociale in oggetto, il diritto europeo non detta una disciplina in sé compiuta, da applicare in luogo di quella dichiarata incompatibile.

La Consulta, per confutare questo argomento, dopo aver richiamato l'importanza del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia in questi giudizi e ribadito il primato del diritto dell'Unione (103) precisa che “alle norme di diritto europeo contenute negli artt. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE e 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, deve riconoscersi effetto diretto nella parte in cui prescrivono l'obbligo di parità di trattamento tra le categorie di cittadini di paesi terzi individuate dalle medesime direttive e i cittadini dello Stato membro in cui costoro soggiornano.

Si tratta di un obbligo cui corrisponde il diritto del cittadino di paese terzo – rispettivamente titolare di permesso di lungo soggiorno e titolare di un permesso unico di soggiorno e di lavoro – a ricevere le prestazioni sociali alle stesse condizioni previste per i cittadini dello Stato membro (…).

Si tratta di un obbligo imposto dalle direttive richiamate in modo chiaro, preciso e incondizionato, come tale dotato di effetto diretto”.

Alla luce di quanto sopra, conclude la Consulta, “si può affermare che le disposizioni censurate, ritenute dalla Corte di giustizia incompatibili con il diritto europeo, si prestano a essere disapplicate dal giudice rimettente. Pertanto, le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto tale disposizione devono essere dichiarate inammissibili per difetto di rilevanza”.

Affermazioni di grande rilievo alle quali si deve dare seguito.

Certo, rimane sullo sfondo la mancata invocazione, nella specie, della Carta di Nizza-Strasburgo (104).

In questo caso, però, non si sarebbe trattato di un problema di doppia pregiudizialità “ma si sarebbe verificata quanto meno una situazione di rilevanza dei diritti fondamentali e della Carta” (105), con la possibile remissione alla Corte di giustizia da parte della stessa Consulta.

Resta ferma, comunque, l'indicazione di metodo contenuta nella sentenza n. 67 del 2022, al punto n. 11:

“Il principio del primato del diritto dell'Unione e l'art. 4, paragrafi 2 e 3, TUE costituiscono dunque l'architrave su cui poggia la comunità di corti nazionali, tenute insieme da convergenti diritti e obblighi.

Questa Corte ha costantemente affermato tale principio, valorizzandone gli effetti propulsivi nei confronti dell'ordinamento interno.

In tale sistema il sindacato accentrato di costituzionalità, configurato dall'art. 134 Cost., non è alternativo a un meccanismo diffuso di attuazione del diritto europeo (…), ma con esso confluisce nella costruzione di tutele sempre più integrate”.

Note

(*) Roberto Cosio, Avvocato Giuslavorista presso il foro di Catania.

(1) Il testo, aggiornato al 25 novembre 2022, riprende, con l'aggiunta delle note, la relazione tenuta a Napoli, il 13 dicembre 2022, nell'ambito del Corso, organizzato dalla Scuola superiore della Magistratura, dal titolo “Diritto del lavoro dell'Unione europea e dialogo delle Corti”.

(2) Sul tema, si veda F. GALGANO, La globalizzazione nello specchio del diritto, Bologna, 2006, 86 ss. e 157 ss., F. GALGANO, F. MARRELLA, Diritto del commercio internazionale, Padova, 2011, 71 ss., F. AMATORI, A. COLLI, Storia d'impresa. Complessità e comparazioni, Milano, 2011, 315-324.

(3) Testualmente, C. BERNARD, Socila dumping and race to the bottom: some lessons for the European Union from Delaware?, ELR, 2000, 57 ss.

(4) Cfr. R. DE LUCA TAMAJO, L'accordo di Pomigliano: una storia italiana, ADL, 2011, 1080.

(5) Z. BAUMAN, Modernità liquida, Bari, 2011.

(6) Cfr. G. ZAMPINI, Delocalizzazioni e tutela della occupazione nel governo multilivello del mercato globale. Problemi e prospettive, Arg. dir. lav., n.5/2019, 980 ss.

(7) Sul tema si veda R. TONELLI, Delocalizzazione di imprese beneficiarie di aiuti di Stato: problemi e prospettive evolutive di una disciplina inefficace, LDE, n. 4/20121.

(8) Sul decreto dignità si veda L. TEBANO, Limiti alle delocalizzazioni e modelli di aiuti, in Decreto dignità e Corte costituzionale n. 194 del 2018, a cura di L. FIORILLO- A PERULLI, Torino, 2019, 123 ss.

(9) Sul tema V. BRINO, Delocalizzazioni e misure di contrasto, in Decreto dignità e Corte costituzionale n. 194 del 2018, a cura di L. FIORILLO- A PERULLI, cit., 115. Dello stesso Autore si veda Diritto del lavoro e catene globali del valore, Torino, 2020. Sulla delocalizzazione a livello regionale si rinvia a R. TONELLI, Incentivi alle imprese e misure di contrasto alla delocalizzazione produttiva, SI, n. 11/2019, 1303.

(10) Entrambi commentati da A. PERULLI, Giustizia e ingiustizia della globalizzazione, LDE, n. 4/20121. Si veda anche V. BRINO, Dentro e oltre le delocalizzazioni: prove di responsabilizzazione delle imprese nello scenario globale? LDE, n. 4/20121.

(11) Trib. Firenze 20 settembre 2021, dove si legge che il sindacato non può essere messo di fronte al fatto compiuto. Nel decreto si legge che “il comportamento antisindacale accertato è consistito – nella sua parte più significativa e lesiva degli interessi del sindacato ricorrente – nell'aver impedito al sindacato stesso di interloquire, come sarebbe stato suo diritto, nella delicata fase di formazione della decisione di procedere alla cessazione totale dell'attività dell'impresa”. Sul tema si veda A. POSO, In claris fit interpretatio? Le relazioni sindacali “pericolose” alla GKN Driveline di Campi Bisenzio e le conseguenze sulla decisione aziendale di cessare l'attività d'impresa e avviare la procedura dei licenziamenti collettivi, www.rivistalabor, 27 settembre 2021.

(12) Sulla vicenda si veda Trib. di Monza, 12 ottobre 2021, www rivistalabor, 3 novembre 2021 e sentenza del Trib. di Monza, resa in sede di opposizione, del 28 gennaio 2022, , www rivistalabor, 8 aprile2022, entrambe annotate da M. A. POLLAROLI.

(13) Cfr. Trib. Napoli, 3 novembre 2021, www rivistalabor, con nota di M. FALSONE. Si veda, altresì, sul caso Caterpillar, Trib. Ancona, 22 febbraio 2022, www rivistalabor, 28 febbraio 2022, con nota di A. POSO. Per un esame, complessivo, del contenzioso richiamato si veda l'intervista di A. POSO a R. DE LUCA TAMAJO, Le relazioni industriali “politicamente corrette” e il conflitto sindacale nella crisi aziendale, tra obblighi di informazione e consultazione preventivi e in corso di procedura, rispetto delle prerogative del sindacato e della libera iniziativa economica www.giustiziainsieme.it, 11 marzo 2022.

(14) Tra i primi commenti della legge n. 234 del 2021 si veda M. MISCIONE, Il diritto del lavoro omnicomprensivo e la legge di bilancio 2022, Lav. Giur., n. 2/2022, 113 ss.; R. COSIO, Le misure sulle delocalizzazioni delle aziende nella legge di bilancio del 2022. Prime osservazioni. Il giuslavorista, Focus 13 gennaio 2022. L. TRIA, Tanta fatica ma poco lavoro: dallo Job Study del 1994 alle delocalizzazioni contemporanee, LDE, n. 1/2022. Per la legislazione francese si veda P. LOKIEC, La loi Florange o il licenziamento come extrema ratio, LDE, n. 4/2021. Si veda, altresì, il webinar organizzato dall'AGI Nazionale il 10/5/2022 sulle “Nuove misure sulle delocalizzazioni delle aziende nella legge di bilancio 2022” con relazioni di G. FERRIGHI “Benefici contributivi e fiscali, meccanismi sanzionatori: la legge di stabilità 2022”, V. M. TEDESCO, “Delocalizzazioni e chiusure aziendali nel diritto sovranazionale”, M. S. AGOSTINI “Delocalizzazioni e riduzioni di personale: obblighi procedurali tra legge e contratti collettivi” e F. AIELLO “La legge di bilancio ambito di applicazione e dubbi interpretativi della nuova normativa”.

(15) Le misure di protezionismo sono, peraltro, armi a doppio taglio “perché inducono, prima o poi, analoghe ritorsioni da parte degli altri Paesi operanti all'interno dello stesso mercato”; in questi termini G. CAZZOLA, Politically (in) correct – Guerra alle delocalizzazioni? Va avanti tu che a me viene da ridere, Bollettino Adapt 20 dicembre 2021, n. 45.

(16) Si pone il problema se il dato normativo debba essere inteso come diretto all'anno solare che precede l'avvio della procedura (e quindi una media calcolata sui 365 giorni precedenti l'invio della comunicazione oggetto della disciplina) ovvero l'anno di calendario precedente a quello in cui la procedura è avviata.

(17) La norma prende come riferimento solo il territorio nazionale, indipendentemente dal numero dei dipendenti impiegati dal datore di lavoro all'estero. Per unità produttiva, secondo l'indirizzo prevalente (Cass. 30 luglio 2019, n. 30520), deve intendersi ogni articolazione autonoma dell'azienda, che abbia, sotto il profilo funzionale, “idoneità ad esplicare, in tutto o in parte, l'attività dell'impresa medesima, della quale costituisca una componete organizzativa, connotata da indipendenza tecnica e amministrativa, tali che in essa possa concludere una frazione dell'attività produttiva aziendale”.

(18) In questo senso si veda R. ROMEI, La nuova procedura in caso di cessazione di una attività produttiva, Riv. it. dir. lav., 2022, I, 32 e L. FAILLA, Divieto di delocalizzazioni: la procedura resta complessa, DPL, n. 41/2022, 2490.Torneremo sul tema parlando delle nuove misure sanzionatorie previste dal decreto aiuti-ter.

(19) Il testo del decreto aiuti-ter, nella legge di conversione (L. 17 novembre 2022, n. 175) recita, nella rubrica dell'art. 37, di “delocalizzazioni o cessazione di attività di imprese che non versano in situazione di crisi”.

(20) Cfr. E. MASSI, Delocalizzazioni: procedura e criticità operative, DPL, n. 12/2022, 714 ss.

(21) Così derogando all'art. 47 del D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, a mente del quale “fatte salve le diverse previsioni di legge o di contratto collettivo, i lavoratori assunti con contratto di apprendistato sono esclusi dal computo dei limiti numerici previsti dalla legge e contratti collettivi per l'applicazione di particolari normative e istituti”.

(22) E. MASSI, Delocalizzazioni: procedura e criticità operative, cit., 715.

(23) Sul tema si veda G. CASTANO, Relazioni industriali e contrattazione collettiva nella gestione delle crisi aziendali, Working Paper Adapt, n. 2/2022.

(24) Sul tema veda G. ZANINI, La disciplina dei licenziamenti collettivi nell'ordinamento tedesco, Dir. lav., 1973, 136 e M. WEISS, I licenziamenti collettivi per riduzione del personale in Germania, Giorn. dir. lav. rel. ind., 1992, 157.

(25) Dalla giurisprudenza (CGUE sentenza10 dicembre 2009, Rodriguez Major e a., C-323/08, punto 34) risulta che l'espressione “ragioni non inerenti alla persona del lavoratore” deve essere interpretata in senso lato. Sul raccordo tra l'ordinamento italiano e quello comunitario si veda M.G. GAROFALO, Eccedenze di personale e conflitto, Gior. dir. lav. ind., 1990, 237 ss.; B. GRANATA, Le direttive comunitarie in materia di licenziamenti collettivi e l'ordinamento italiano, Quad. dir. lav. rel. ind., 1997, n. 19, 159 ss., U. CARABELLI, I licenziamenti per riduzione di personale in Europa, Bari,2001, 135 e E. GRAGNOLI, La riduzione del personale fra licenziamenti individuali e collettivi, Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell'economia (diretto da F. GALGANO) 2006; R. COSIO, F. CURCURUTO e R. FOGLIA, Il licenziamento collettivo in Italia nel quadro del diritto dell'Unione europea, Milano, 2016; M. DE LUCA, I licenziamenti collettivi nel diritto dell'Unione europea e l'ordinamento italiano: da una remota sentenza storica della Corte di giustizia di condanna dell'Italia alla doppia pregiudizialità per il nostro regime sanzionatorio nazionale (note minime), parte prima e parte seconda, rispettivamente in Labor, n. 2, 2020, 149 e n. 3, 2020, 267. Per il diritto comparato si veda R. COSIO, F. CURCURUTO, E. DI CERBO, G. MAMMONE, Collective Dismissal in the European Union. A comparative Analiysis, Kluwer Law International, 2017.

(26) Per tutti A. LYON CAEN, G. LYON CAEN, Droit social international ed europeèn, VIII ed., 1993, 303.

(27) Cfr. R. FOGLIA, L'attuazione giurisprudenziale del diritto comunitario del lavoro, Padova, 2002, 182.

(28) Cfr. R. COSIO, I licenziamenti collettivi, Il diritto del lavoro nell'unione europea (a cura di R. FOGLIA e R. COSIO), Milano, 2011, 285.

(29) M. T. CROTTI, Licenziamento collettivo: le risoluzioni consensuali “indotte” rientrano nel computo dei licenziamenti al fine della operatività della disciplina, www.ilgiuslavorista, 13 novembre 2020.

(30) Cfr. Cass. sentenza 24 marzo 2004, n. 5940.

(31) Cfr. Cass. sentenza 29 marzo 2010, n. 7519. Per una ricostruzione della giurisprudenza, sul tema, si veda Cass. 16 luglio 2019, n. 19022.

(32) Cass. 25 ottobre 2000, n. 14079 (estensore R. Foglia), Mass. Giur. lav., n. 12 dicembre 2000, 1326 ss., con nota di G. Gramiccia.

(33) Conforme Cass. sentenza 23 giugno 2006 n. 14638, Riv. It. dir. lav., 2007, II, con nota di M. CARUSONE.

(34) Cass. Ordinanza 20 luglio 2020, n. 15401, in Lav. Giur., n. 2/2021, 163-173, con nota di F. NARDELLI, Arg. dir. lav., 2020, II, con nota di G. CENTAMORE e in RGL, 2021, II, 78 con osservazioni di G. NATULLO. Si veda, altresì, F. LIMENA, I licenziamenti collettivi indiretti entrano nella fattispecie dei licenziamenti collettivi: il revirement della Cassazione, in Lav. Giur., n. 6/2021, 600-604.

(35) Edita in Labor, 3 agosto 2020.

(36) CGUE 11 novembre 2015, C-422/15, punti da 50 a 54, Lav. Giur., 2016, 3, 250, con nota di R. COSIO. In dottrina si veda A. RIEFOLI, I presupposti di applicabilità della disciplina sui licenziamenti collettivi al vaglio della Corte di giustizia, Riv. it. dir. lav., 2016, III, 699. Per una rilettura critica della sentenza si veda G. GAUDIO, Licenziamenti collettivi: la nozione di licenziamento alla ricerca di una sua identità, Arg. dir. lav., 2016, 2, 401.

(37) Sul tema si veda R. ROMEI, La nuova procedura in caso di cessazione di una attività produttiva, cit, 34-40. Occorre, peraltro, richiamare la sentenza della Cassazione n. 15118/2021 che, pur richiamando (in modo contraddittorio) l'ordinanza n. 15401, ha escluso dal numero minimo dei cinque licenziamenti (per integrare la fattispecie del licenziamento collettivo) “ipotesi risolutorie del rapporto di lavoro, ancorché riferibili all'iniziativa del datore i lavoro”.

(38) CGUE sentenza 11 novembre 2015, C-422/15, Lav. giur., n.3/2016, con nota di R. COSIO.

(39) CGUE sentenza 21settembre 2017, C-429/16, Lav. giur., n. 4/2018, con nota di R. COSIO.

(40) Nello stesso senso si veda V. A. POSO, Le risoluzioni consensuali del rapporto lavoro che derivano da modifiche unilaterali sostanziali di condizioni essenziali del contratto di lavoro? Tu chiamale se vuoi ….licenziamenti, Labor, 3 agosto 2020.

(41) Sul tema si veda, se si vuole, R. COSIO, La nozione di licenziamento collettivo. Il problema dei licenziamenti indiretti nell'ordinamento multilivello, Lav. Giur., 2022. Numero speciale per i 30 anni della Rivista.

(42) CGUE sentenza 27 gennaio 2005, C- 188/03, Foro it., 2005, IV, 186, con nota di R. COSIO.

(43) Cfr. Cass. sentenza S.U. 16 giugno 2000, n. 419.

(44) Cfr. Cass. sentenza 22 giugno 2012, n. 10424.

(45) Sul tema si veda G. MAMMONE, La regolazione dei licenziamenti collettivi. Itinerari legislativi ed orientamenti giurisprudenziali, pag. 138-139, in Il licenziamento collettivo in Italia nel quadro del diritto dell'Unione europea (a cura di R. COSIO, F. CURCURUTO e R. FOGLIA), Milano, 2016.

(46) “Ovvero del minor termine entro il quale è sottoscritto il piano di cui al comma 233”. In questo senso il dossier del Senato del 7 ottobre 2022.

(47) La contribuzione in esame è dovuta - oltre che per i licenziamenti, individuali o collettivi - per i casi di dimissioni per giusta causa del dipendente o di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nell'ambito della procedura di cui all'articolo 7 della L. 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni. Per un quadro generale del contributo in oggetto si veda la circolare dell'INPS n. 137 del 17 settembre 2021.

(48) Nella conversione in legge si utilizza il termine, più corretto, “aumentato”.

(49) Cfr. G. ZAMPINI, Delocalizzazioni e tutela della occupazione nel governo multilivello del mercato globale, cit., 991.

(50) Cfr. G. ZAMPINI, Delocalizzazioni e tutela della occupazione nel governo multilivello del mercato globale, cit., 994-995.

(51) Cfr. A. TURSI, Delocalizzazioni e occupazione: il lato oscuro del decreto dignità. Facciamo chiarezza, Ipsoa Quotidiano,, 15 dicembre 2018.

(52) Sul tema si veda R. MARAGA, Obblighi informativi previsti dal contratto collettivo, procedura “antidelocalizzazioni” e condotta antisindacale, il giuslavorista, 4 ottobre 2022.

(53) Cfr. M. BIASI, La partecipazione dei lavoratori nel CCNL Metalmeccanici 5 febbraio 2021: la retta via e il lungo cammino, in G. ZILIO GRANDI (a cura di), Commentario al CCNL metalmeccanici 5 febbraio 2021, Torino, 2021, 93 ss.; D. MARINO, La partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese nella contrattazione collettiva, in Dir. Rel. Ind., 2020, 4, 1024 ss.; M. FALSONE, La repressione della condotta antisindacale fra spiazzamenti, potenzialità inespresse ed esigenze di manutenzione, Lav. Dir., 2021, 2.

(54) In questo senso si veda l'intervista di A. POSO a R. DE LUCA TAMAJO, Le relazioni industriali “politicamente corrette” e il conflitto sindacale nella crisi aziendale, tra obblighi di informazione e consultazione preventivi e in corso di procedura, rispetto delle prerogative del sindacato e della libera iniziativa economica www.giustiziainsieme.it, 11 marzo 2022.

(55) In questo senso si veda l'intervista di A. POSO a R. DE LUCA TAMAJO, Le relazioni industriali “politicamente corrette” e il conflitto sindacale nella crisi aziendale, tra obblighi di informazione e consultazione preventivi e in corso di procedura, rispetto delle prerogative del sindacato e della libera iniziativa economica, cit.

(56) Cfr. R. COSIO, Il blocco dei licenziamenti. Dai decreti “sostegni” al decreto lavoro, LDE, n. 3/2021.

(57) Tribunale di Venezia del 17 maggio 2021. Sul tema si veda M. DE LUCA, Condizionalità ed ipotesi di esclusione (dalla seconda proroga) del blocco dei licenziamenti al tempo del covid-19: molto rumore per (quasi) nulla (note minime), WP CSDLE “Massimo D'Antona” n. 434/2021.

(58) Sul tema si veda R. ROMEI, La nuova procedura in caso di cessazione di una attività produttiva, cit, 48-58.

(59) Non è inutile ricordare che la disciplina previgente (art. 6, comma 3, della legge n. 96/2018) faceva salvi, in caso di obbligo di restituzione, i benefici già concessi o banditi prima dell'entrata in vigore del decreto (14 luglio 2018). Sul tema si veda G. ZAMPINI, Delocalizzazioni e tutela della occupazione nel governo multilivello del mercato globale. Problemi e prospettive, cit., 998.

(60) Sul tema si veda F. MERUSI, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni trenta all'alternanza, Milano, 2001.

(61) Cfr. F.F. PAGANO, Il principio di affidamento nella giurisprudenza nazionale e sovranazionale, Dir. pubbl., n. 2/2014, 583.

(62) Sul tema è sufficiente rinviare alla sentenza della Corte Cost. n. 194/2018.

(63) CGUE Ordinanza 4 giugno 2020, C-32/20.

(64) CGUE sentenza 17 marzo 2021, C- 652/19, Lav. Giur., n. 8-9/2021, con nota di R. COSIO.

(65) Tra le novità introdotte dalla Carta (per la ricostruzione del dibattito si veda L. Trucco, Carta dei diritti fondamentali e costituzionalizzazione dell'Unione europea, Torino, 2013) spicca la distinzione tra “diritti” e “principi” introdotta nel paragrafo 1 dell'art. 51, enunciata nel titolo dell'art. 52 e i cui effetti sono precisati nel paragrafo 5 di quest'ultimo articolo.

Già la Commissione, incaricata di redigere la prima versione della Carta, era consapevole dell'utilità di introdurre una distinzione tra “principi” e “diritti”, sia al fine di conseguire un ampio consenso all'interno della prima Convenzione, sia per facilitare l'applicazione pratica delle disposizioni della Carta (sul tema si veda G. Braibant, nel suo contributo La Charte des droit fondamentaux de l'Union europèenne, Parigi, 2001, 44-46). Dal testo della Carta si evince che i “principi”, a differenza dei “diritti”, comportano un mandato ampio ai pubblici poteri, specie al legislatore. Il suo enunciato non definisce una situazione giuridica soggettiva, bensì talune materie generali e taluni risultati che condizionano l'attività di tutti i pubblici poteri.

I “diritti” si rispettano mentre i “principi” si osservano (art. 51, paragrafo 1) si legge nella Carta.

In sostanza, i “principi” non danno adito a pretese dirette per azioni positive da parte delle istituzioni dell'Unione o delle autorità degli Stati membri.

Nelle Spiegazioni si citano come esempi di principi riconosciuti nella Carta gli articoli 25 (diritto degli anziani), 26 (inserimento dei disabili) e 37 (tutela dell'ambiente). Si ricorda, altresì, che in alcuni casi è possibile che un articolo della Carta contenga elementi sia di un diritto sia di un principio, come negli articoli 23 (parità fra uomini e donne), 33 (vita familiare e vita professionale) e 34 (sicurezza sociale e assistenza sociale).

Sul tema si veda A. von Bogdandy, I principi fondamentali dell'Unione europea, Napoli, 2011.

Per orientarsi sulla materia è fondamentale la sentenza della Corte di giustizia, grande sezione, del 27 marzo 2014, C-314/12 (per la ricostruzione del dibattito, sul tema, si veda, C. Malberti, Sub art. 16, in Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, a cura di R. Mastroianni, O. Pollicino, S. Allegrezza F. Pappalardo E O. Razzolini, Milano, 2017, 311) che ha inquadrato tra i “principi” l'art. 27 della Carta in quanto la portata del “diritto” è circoscritta “nei casi e alle condizioni previsti dal diritto dell'Unione e dalle legislazioni e prassi nazionali”.

Per produrre i suoi effetti, l'art. 27 della Carta deve “essere precisato mediante disposizioni del diritto dell'Unione o del diritto nazionale”.

Sulla base di queste “coordinate” appare corretto classificare tra i “principi” anche gli artt. 16 e 30 della Carta.

(66) CGUE sentenza 30 novembre 1995, C- 55/94, punto 37.

(67) Cfr. M. Libertini, L'iniziativa economica privata e l'economia sociale di mercato, in La metafora delle fonti e il diritto privato europeo Giornate di studio per Umberto Breccia, a cura di E. Navarretta, Torino, 2015, 59.

(68) CGUE, sentenza 21 dicembre 2016, C-201/15, Riv. it. dir. lav., 2017, II, 446 con nota di M. T. Salimbeni, e Labor, 2017, 3, 299 con nota di G. Centamore. Per una ricostruzione, in termini di teoria generale, della pronuncia si veda R. Cosio, Libertà d'impresa e tutela dei lavoratori nei licenziamenti collettivi, LDE, n. 2/2018. Per una ricostruzione del dibattito dottrinale sulla sentenza si veda M. Biasi, Liberty e Freedom nel blocco dei licenziamenti collettivi, LDE, 3/2020.

(69) CGUE sentenza 11 dicembre 2007, C-438/05, punto 77.

(70) CGUE sentenza 25 ottobre 2007, C-464/05, punto 26.

(71) CGUE sentenza 21.12.2016, C- 201/15 punto 77.

(72) R. Alexy, Teoria dei diritti fondamentali, Bologna, 2012, 156.

(73) R. Alexy, Teoria dei diritti fondamentali, cit., 157.

(74) R. Alexy, Teoria dei diritti fondamentali, cit., cap. 3.

(75) G. Pino, Diritti e interpretazione. Il ragionamento giudico nello Stato costituzionale, Bologna, 2010, 182 ss.

(76) R. Guastini, Saggi scettici sull'interpretazione, Torino, 2017, 99.

(77) R. Alexy, Teoria dei diritti fondamentali, cit., 52.

(78) L. Mengoni, L'argomentazione nel diritto costituzionale, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano, 1996, 122.

(79) Sull'importanza del bilanciamento “in concreto” si vada R. Guastini, Interpretare e argomentare, Milano, 2011, 205.

(80) R. Cosio, La proroga del blocco dei licenziamenti. La compatibilità con l'ordinamento dell'Unione europea, Mass. giur. lav., 4/2020.

(81) Sul “contenuto essenziale” dei diritti e libertà si confrontano due scuole di pensiero, a seconda che a tale nozione venga attribuito un carattere assoluto o relativo. Sul tema si veda A. BALDASSARE, Diritti della persona e valori costituzionali, Torino, 1997, 97. Per un'analisi della giurisprudenza della Corte di giustizia, sul tema, si veda L. CASTELLI, Alla ricerca del “limite dei limiti”: il contenuto essenziale dei diritti fondamentali nel dialogo delle Corti, aic. 1/2021 (23 febbraio 2021).

(82) Sul tema si veda A. RUGGIERO, Il bilanciamento degli interessi nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Osservazioni di diritto comparato a margine dell'art. 52, Padova, 2004.

(83) Cfr. CGUE sentenza 4 giugno 2002, C-483/99, punti 50 e 51.

(84) La Corte di giustizia ha, peraltro, chiarito, nella sentenza del 19 aprile 2016, C-441/14, che l'esigenza di una interpretazione conforme all'ordinamento UE include l'obbligo, per i giudici nazionali, di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su una interpretazione del diritto nazionale incompatibile con gli scopi di una direttiva. Sul tema si veda R. COSIO, Le fonti europee, in Il lavoro privato (a cura di G. AMOROSO, V.DI CERBO, A. MARESCA), Milano, 2022, 174.

(85) Cfr. CGUE 12 febbraio 1985, C-284/83, punto 15.

(86) M. Cartabia, La Corte costituzionale italiana e il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, in ZANON (a cura di), Le Corti dell'integrazione europea e la Corte costituzionale italiana, 2006, 101 ss.

(87) A. Ruggeri, Conflitti tra norme eurounitarie e norme interne, tecniche giurisprudenziali di risoluzione di aporie teoriche di costruzione, giurcost.org., 2019, 495 ss.

(88) S. Catalano, Doppia pregiudizialità: una svolta opportuna della Corte costituzionale, federalismi.it,2019, n. 10, 25 ss.

(89) C. Amalfitano, Il rapporto tra rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e rimessione alla Consulta e tra disapplicazione e rimessione alla luce della giurisprudenza comunitaria e costituzionale, AIC, 2020, n. 1, 310. Tesi, quest'ultima, seguita dalla Corte di appello di Napoli Sulle ordinanze della Corte di appello di Napoli si veda R. Cosio, Le ordinanze di Milano e Napoli sullo Jobs Act. Il problema della doppia pregiudizialità, LDE,2020, n. 1.

(90) R. Mastroianni, La Carta UE dei diritti fondamentali fa gola o fa paura? Giustizia insieme, aprile 2019.

(91) Sul tema si veda R. Mastroianni, Da Taricco a Bolognesi, passando per la ceramica di Sant'Agostino: il difficile cammino verso una nuova sistemazione del rapporto tra Carte e Corti Osservatorio sulle fonti, 2018, n. 1.

(92) Per una ricostruzione della giurisprudenza della Consulta si veda N. Lupo, Con quattro pronunce dei primi mesi del 2019 la Corte costituzionale completa il suo rientro nel sistema a rete di tutela dei diritti, federalismi.it,2019, n. 13. Più di recente si vedano le sentenze della Corte costituzionale n. 182 del 2020 e n. 84 del 30 aprile 2021.

(93) Fino alla svolta del 2017 la Consulta aveva sollevato solo due rinvii pregiudiziali in via incidentale (ord. 207/2013 e 24/2017) e uno in via di azione (ord. 102/2088). Negli ultimi cinque anni sono stati ben sei.

(94) N. ZANON, Ancora in tema di doppia pregiudizialità: le permanenti ragioni della “precisazione” contenuta nella sentenza n. 269 del 2017 rispetto alla “grande regola” Simmenthal-Granital, ottobre 2022, edito nel sito della Corte costituzionale.

(95) N. ZANON, Ancora in tema di doppia pregiudizialità, cit., 7. Sul tema si veda A. MANGIA, L'interruzione della grande opera. Brevi note sul dialogo tra le Corti, Dir. pubb. Comparato ed europeo, 2019, n. 3, 865.

(96) N. ZANON, Ancora in tema di doppia pregiudizialità, cit., 7.

(97) Cfr. G. SCACCIA, Il controllo della legittimità costituzionale del diritto dell'Unione europea, federalismi.it., n. 29 del 2 novembre 2022, 136.

(98) N. ZANON, Ancora in tema di doppia pregiudizialità, cit., 11-12.

(99) N. ZANON, Ancora in tema di doppia pregiudizialità, cit., 21.

(100) N. ZANON, Ancora in tema di doppia pregiudizialità, cit., 16.

(101) Definita “storica” da A. RUGGERI (Alla cassazione restia a far luogo all'applicazione diretta del diritto eurounitario la consulta replica alimentando il fecondo dialogo tra le Corti, Consultaonline, 14 marzo 2022, fasc. I). Sul tema si veda A.O. COZZI, Per un elogio del primato, con uno sguardo lontano. Note a Corte Cost. n. 67 del 2022, e F. TORRE, L'assegno per il nucleo familiare sfugge dalla morsa della doppia pregiudizialità: occasione mancata o balzo in avanti per il dialogo tra Roma e Lussemburgo? (Prime riflessioni a margine della sent. n. 67/2022), entrambi editi in Consultaonline, 2022 Fasc. II, 9 maggio 2022.

(102) Cfr. B. NASCIMBENE e I. ANRO', Primato del diritto dell'Unione europea e disapplicazione. Un confronto fra la Corte costituzionale e Corte di giustizia in materia di sicurezza sociale, Giustizia insieme, 2022.

(103) Sul tema si veda A. RUGGERI Alla cassazione restia a far luogo all'applicazione diretta del diritto eurounitari, cit, 253.

(104) Sul tema si veda A. RUGGERI Alla cassazione restia a far luogo all'applicazione diretta del diritto eurounitari, cit., 256.

(105) Cfr. B. NASCIMBENE e I. ANRO', Primato del diritto dell'Unione europea e disapplicazione, cit.