Assegno divorzile: il giudice deve prendere in considerazione tutti i parametri valutativi?
30 Novembre 2022
Massima
Il giudice, nel quantificare l'assegno di divorzio, non è tenuto prendere in considerazione tutti e contemporaneamente i parametri di riferimento indicati dalla l. n. 898/1970, art. 5, ma può anche prescindere da alcuni di essi, dando adeguata giustificazione delle sue valutazioni, con una scelta discrezionale non sindacabile in sede di legittimità. Il caso
A seguito dell'intervenuta pronuncia in corso di causa della cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale poneva a carico dell'ex marito il pagamento di un assegno divorzile in favore della ex moglie di euro 1.300,00 mensili, da rivalutarsi annualmente. Tale decisione veniva confermata anche in sede di appello in quanto la Corte di merito, pur riconoscendo che la quantificazione dell'assegno divorzile debba tenere conto dei parametri di cui alla l. n. 898/1970, art. 5, comma 6, ha ritenuto di dover dare rilievo al consistente divario reddituale esistente tra le parti, specie in considerazione della malattia da cui era affetta l'ex moglie (infiammazione demielinizzante). Avverso tale statuizione, l'ex marito proponeva ricorso per cassazione, denunciando la nullità della sentenza nella parte in cui la Corte d'appello non avrebbe reso esplicita la ratio decidendi in riferimento ai motivi di appello dallo stesso formulati. A detta del ricorrente, infatti, la Corte di merito non avrebbe effettuato il doveroso bilanciamento tra tutti i parametri indicati dall'art. 5, comma 6, l. n. 898/1970, da rapportare poi alla durata del matrimonio, avendo dato, di contro, rilievo, nel soffermarsi solo sulle condizioni di salute della ex moglie, al mero divario di reddito esistente tra gli stessi e ritenendo altresì, di conseguenza, gli altri parametri irrilevanti. In particolare, secondo il ricorrente, il tetto massimo della misura dell'assegno divorzile era stato sicuramente superato, in quanto l'importo attribuito a titolo dello stesso andava ad aggiungersi alla pensione percepita dalla ex moglie, nonché al godimento integrale, da parte di quest'ultima, della proprietà della casa familiare, di cui era divenuta titolare esclusiva, a seguito della cessione da parte dell'uomo della quota di sua spettanza in adempimento degli accordi di separazione. La questione
Ai fini della quantificazione dell'assegno divorzile il giudice deve tenere conto di tutti i parametri di cui alla l. n. 898/1970, art. 5, comma 6, oppure può attribuire valore solo ad alcuni di essi escludendo, quindi, gli altri? Le soluzioni giuridiche
Con la ormai celeberrima pronuncia n. 18287 del 2018 le Sezioni Unite, pur confermando l'abbandono del parametro legato al tenore di vita matrimoniale e la rilevanza del criterio dell'autosufficienza economica, hanno riconosciuto all'assegno divorzile tanto una funzione assistenziale che, in pari misura, compensativa e perequativa. In particolare, la natura perequativo-compensativa discende direttamente dalla declinazione del principio di solidarietà postconiugale (art. 29 Cost.), e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge che lo richiede il raggiungimento, in concreto, di un livello reddituale adeguato al contributo dallo stesso fornito nella realizzazione della vita familiare, tenuto conto delle aspettative professionali sacrificate. La funzione, poi, equilibratrice del reddito degli ex coniugi, mira a riconoscere il ruolo e il contributo fornito dal coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio familiare e di quello personale degli ex coniugi. Pertanto, il riconoscimento dell'assegno divorzile richiede: l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge che lo richiede e l'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, mentre i criteri equi-ordinati indicati nella prima parte dell'art. 5, comma 6, l. n. 898/1970, costituiscono, in linea generale, il parametro a cui il giudice deve attenersi con riguardo all'an e al quantum dell'assegno. Tuttavia, la Suprema Corte, fin da epoca risalente, ha avuto modo di chiarire, a più riprese, che il giudice del merito, nel quantificare l'importo dell'assegno divorzile, non è tenuto a prendere in considerazione tutti i criteri indicati dall'art. 5, l. n. 898/1970, essendo, invece, necessario che lo stesso giustifichi in modo adeguato le sue valutazioni (Cass. civ., sez. un., sent. 29 novembre 1990, n. 11490). Pertanto, deve escludersi la necessità di una puntuale considerazione da parte dell'organo giudicante, che dia adeguata giustificazione della propria decisione, di tutti e contemporaneamente, i parametri di riferimento indicati nella legge divorzile. Di conseguenza, il giudice di merito può anche prescindere dal prendere in considerazione taluni parametri e tale scelta discrezionale non è sindacabile in sede di legittimità (Cass. civ., sez. I, sent. 16 maggio 2005, n. 10210). Ciò posto, nel caso di specie, la Corte di appello, pur riconoscendo che, in via generale, la quantificazione dell'assegno divorzile deve tenere conto dei parametri di cui alla l. n. 898/1970, art. 5, comma 6, ha deciso di dare preminenza al consistente divario reddituale esistente tra le parti, specie in considerazione, da un lato, del reddito annuale dell'ex marito, magistrato del TAR dal 2008, e, dall'altro, della particolare situazione di salute in cui versava la ex moglie. Quest'ultima, infatti, poteva contare come introito sull'esclusivo assegno pensionistico e, data la sua grave invalidità, si trovava, in ogni caso, nella condizione di non avere risorse sufficienti per far fronte alle sue necessità di vita condizionate dalla malattia, con un decorso nel tempo caratterizzato da ricadute che avevano compromesso i sistemi neurologici motori, cerebrali, sensitivi e sfinterici. Ragion per cui, secondo la Corte di appello, i parametri collegati all'apporto di contributo personale ed economico alla conduzione della famiglia ed alla formazione del patrimonio personale o comune, si presentavano irrilevanti, così come non pertinente era l'elemento della ragione della decisione in quanto, nel giudizio di separazione, le parti avevano assunto accordi congiunti abbandonando le domande di addebito. La Corte di appello, quindi, ha tenuto conto di tutti i parametri indicati dalla l. n. 898/1970, art. 5, comma 6, ma ha deciso di attribuire motivatamente rilievo ad alcuni e non ad altri, invero di valorizzare in misura preponderante, tra i vari criteri legali utilizzabili ai fini della quantificazione dell'assegno divorzile, la comparazione delle condizioni economiche delle parti e il consistente divario reddituale esistente. In conclusione, secondo la Cassazione, la Corte di merito ha espresso un giudizio consentito e, poiché adeguatamente motivato, neppure sindacabile in sede di legittimità. Osservazioni
La pronuncia in esame si presenta altresì interessante nella parte in cui gli Ermelliniricordano come, a fronte della nuova formulazione dell'art. 360 c.p.c. (introdotta dal d.l. n. 83/2012, conv. con modif. in l. n. 134/2012), non sia più consentita l'impugnazione “per omessa insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, ma soltanto “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” (cfr. art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.). In particolare, la modifica normativa appena ricordata ha avuto l'effetto di circoscrivere il vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, ai casi in cui esso si converte in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé e a patto che il vizio risulti dal testo della decisione impugnata. Pertanto, oggi, si può parlare di “motivazione apparente” o di “motivazione perplessa e incomprensibile” laddove non siano percepibili le ragioni della decisione, data la presenza di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l'iter logico seguito per la formazione del convincimento, con conseguente impossibilità di effettuare alcun effettivo controllo sull'esattezza e sulla logicità del ragionamento a cui è pervenuto l'organo giudicante. Non solo, ma il vizio di omessa o apparente motivazione ricorre anche nell'ipotesi in cui il giudice ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento, ovvero li indichi in modo non approfondito, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull'esattezza e sulla logicità del suo ragionamento. Nel caso della pronuncia in commento, la Suprema Corte, esaminando il motivo di ricorso ha ritenuto che già dalla sua semplice lettura emergesse come non fosse stata prospettata l'assoluta carenza di motivazione della decisione sulla quantificazione dell'assegno divorzile o l'incomprensibilità della stessa, ma semplicemente criticato il modo in cui i più volte ricordati parametri di riferimento, di cui alla l. n. 898/1970, art. 5, comma 6, fossero stati valutati, attribuendo valore ad alcuni ed escludendo altri, per ragioni che dal ricorrente non sono state condivise. |