Licenziamento disciplinare, sanzione conservativa e reintegrazione: l'interpretazione estensiva della volontà negoziale è preclusa?

01 Dicembre 2022

Non può essere estesa la sanzione conservativa anche ad ipotesi non contemplate in sede negoziale, sebbene di pari disvalore disciplinare.
Massima

Solo ove il fatto contestato ed accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale, vincolante per il datore, tipizzante il comportamento del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento può essere dichiarato illegittimo.

Al giudice di merito, dunque, in presenza di una condotta non rientrante in una di quelle descritte dai contratti collettivi ovvero dai codici disciplinari come punibili con sanzione conservativa, non è consentito applicare la tutela reintegratoria, operando altrimenti una sostanziale estensione della previsione negoziale ad una ipotesi non prevista dalle parti contraenti, sul presupposto del ritenuto pari disvalore disciplinare.

Fatto

La Corte di appello di Ancona, in riforma della pronunzia del Tribunale di Ascoli Piceno ed in seguito a due pronunce di rinvio da parte del giudice di legittimità (Cass., n. 27238/2018 e Cass., n. 15111/2020) dichiarava l'illegittimità del licenziamento disciplinare intimato dalla società-datrice, con condannata al pagamento di una indennità risarcitoria omnicomprensiva nella misura di diciotto mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre interessi e rivalutazione.

La sentenza veniva impugnata dalla lavoratrice innanzi alla Corte di Cassazione. Il ricorso veniva fondato su tre motivi. In sintesi la ricorrente lamentava la mancata uniformità da parte del giudice di appello al principio di diritto enunciato nella sentenza di rinvio, avendo ampliando la propria cognizione oltre a quella devoluta e circoscritta all'individuazione del regime di tutela applicabile, reiterando l'esame nel merito sulla illegittimità del recesso datoriale. Nell'effettuare il giudizio di sussunzione, inoltre, la Corte di appello avrebbe erroneamente ricondotto la fattispecie concreta nell'ambito di una previsione negoziale contemplante la sanzione espulsiva, senza tener conto di quanto affermato nella precedente sentenza della Corte di Cassazione (i.e. Cass., n. 27238/2018), circa la non gravità della condotta addebitata per carenza di intenzionalità.

La questione

Entro quali limiti il giudice di merito può sussumere il caso concreto, non previsto dalle parti contraenti, in una fattispecie astratta negozialmente regolata e sanzionata?

La decisione della Corte

La Corte ha dichiarato fondato il ricorso limitatamente al punto dell'illegittima estensione della propria cognizione da parte del giudice del rinvio.

Nella citata sentenza n. 27238/2018, la Corte aveva dato atto della sussunzione della condotta nella fattispecie astrattamente prevista in via negoziale e sanzionata con il licenziamento senza preavviso ("connivente tolleranza di abusi commessi da dipendenti o da terzi"), valutando poi il licenziamento come sproporzionato in relazione al concreto disvalore dei fatti addebitati.

Dall'accertamento in fatto allora compiuto e dalla valutazione dell'elemento soggettivo della condotta, i giudici di legittimità avevano rilevato l'erroneità della suddetta sussunzione, essendo la connivenza, richiesta dalla disposizione negoziale, logicamente incompatibile con l'affermazione, da parte della Corte di appello, di non consapevolezza dell'altrui abuso. Il ricorso veniva, pertanto, dichiarato fondato, avendo la sentenza impugnata attratto la fattispecie concreta nell'ipotesi prevista dal C.C.N.L. come suscettibile di sanzione espulsiva, nonostante la ritenuta assenza di un atteggiamento doloso nella violazione delle procedure interne.

La Corte era stata adita nuovamente dalla lavoratrice (sent. n. 15111/2020), in quanto il giudice del rinvio aveva ritenuto che il comportamento della medesima integrasse, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, la fattispecie della "consapevole tolleranza dell'altrui abuso". Il giudice di merito, nel procedere al nuovo accertamento di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta, non poteva rivalutare l'atteggiamento soggettivo dell'incolpata al fine di escludere o meno la consapevolezza che la condotta compiuta, su richiesta del superiore gerarchico, integrasse un abuso di pubblica fede ovvero grave violazione di fondamentali regole operative dell'Ufficio.

L'esame "ex novo", infatti, si era tradotto in una nuova valutazione di merito, ormai preclusa, essendo stata demandata solo una nuova verifica della sussunzione del caso specifico nella previsione della contrattazione collettiva. Su tale ultimo punto la Corte aveva precisato che solo ove il fatto contestato ed accertato fosse stato espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale, vincolante per il datore e tipizzante il comportamento del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento sarebbe stato non solo illegittimo ma anche meritevole della tutela reintegratoria prevista dal comma 4 dell'art. 18 St. Lav. Al giudice di merito, dunque, in presenza di una condotta accertata non rientrante in una di quelle descritte dai contratti collettivi ovvero dai codici disciplinari come punibili con sanzione conservativa, non è consentito applicare la tutela reintegratoria operando una sostanziale estensione – non consentita- della previsione negoziale ad un'ipotesi non prevista dalle parti contraenti, sul presupposto del ritenuto pari disvalore disciplinare.

Nel giudizio attuale anche la Corte di appello di Bologna non si era limitata ad operare una mera sussunzione, ma aveva rivalutato, in punto di elemento soggettivo della lavoratrice, la di lei condotta, ritenuta di "tolleranza" dell'operato illecito altrui, contrariamente a quanto affermato in sede di legittimità nella citata sentenza n. 27238/2018 e, successivamente, nella decisione n. 15111/2020. Il giudizio di sussunzione, pertanto, era stato effettuato in contrasto con le indicazioni fornite dalla Corte di Cassazione. La sentenza impugnata è stata, pertanto, cassata con rinvio.

Osservazioni

La sentenza in commento offre l'opportunità di affrontare la questione dell'ammissibilità dell'interpretazione estensiva, in sede giudiziale, delle previsioni contrattuali in materia disciplinare, in particolare qualora in relazione alla fattispecie astratta sia prevista una sanzione conservativa.

La contestazione disciplinare, la quale sia seguita da un licenziamento, può condurre a tre diversi scenari: la contrattazione collettiva ha tipizzato la condotta del lavoratore e per essa prevede il licenziamento; in sede negoziale quella condotta è annoverata tra le ipotesi meritevoli di sanzione conservativa; il contratto o il codice disciplinare non contemplano la fattispecie.

Con riferimento al primo scenario, in tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, non sono vincolanti per il giudice le tipizzazioni operate dalle parti negoziali, sicché non è precluso il giudizio multifattoriale di gravità della condotta e della proporzionalità della sanzione espulsiva applicata. La scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce, dunque, uno dei parametri ai quali il giudice deve fare riferimento. Ne consegue che, sebbene il comportamento del lavoratore rientri in quelle ipotesi contrattuali giustificanti il recesso datoriale, sarà possibile escludere che esso, valutati tutti i fattori oggettivi e soggettivi, integri una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo.

Diversa è la situazione in cui nella contrattazione sia stata prevista una sanzione conservativa, poiché il giudice non può discostarsi da quando stabilito dalle parti nell'esercizio dell'autonomia negoziale, costituendo tale previsione una condizione di maggior favore cui è vincolato ai sensi dell'art. 12, L. n. 604/1966. Un'eccezione è stata individuata dalla giurisprudenza nel caso in cui emerga che le parti negoziali non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità di una sanzione espulsiva, dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di gravità di quel peculiare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall'autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari.

Ci si è chiesti entro quali limiti il giudice possa estendere la previsione negoziale più favorevole, recte se possa ritenersi applicabile la sanzione conservativa – e la conseguente reintegrazione – anche ad una condotta non pienamente corrispondente a quella tipizzata.

Si giunge così al terzo scenario, ossia all'ipotesi in cui il caso concreto non sia riconducibile alle fattispecie tipizzate in sede negoziale.

Sul punto si sono formati essenzialmente due tesi, una restrittiva ed una più garantista: la prima ha escluso la reintegrazione del lavoratore qualora la condotta a questo addebitata non possa essere sussunta in una previsione negoziale, vincolante per il datore, escludendo anche la possibilità di procedere ad una interpretazione estensiva in quanto incidente sulla volontà espressa dalle parti ed incompatibile con il carattere eccezionale della tutela reale rispetto alla quella indennitaria; la seconda, invece, facendo leva sulla formulazione delle previsioni contrattuali e, in particolare, sull'impiego di clausole generali e norme elastiche in sede negoziale, ha ritenuto non precluso il giudizio di sussunzione “favorevole”.

La giurisprudenza maggioritaria sembra essersi orientata verso la posizione più restrittiva, sostenendo che solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con una sanzione conservativa, il licenziamento sarà non solo illegittimo ma anche meritevole della tutela reintegratoria a condizione, in più, che vi sia l'abuso consapevole del potere disciplinare ossia una "sicura e chiaramente intellegibile conoscenza preventiva", da parte del datore, della illegittimità del provvedimento espulsivo adottato.

Proprio la prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie per il datore e per il lavoratore ha costituito uno degli elementi corroboranti l'impostazione ermeneutica più rigida, considerando non ammissibile l'adozione del criterio di interpretazione estensiva al fine di estendere la portata delle previsioni contrattuali a casi non espressamente contemplati dalle parti sociali ma aventi pari disvalore disciplinare.

Tuttavia nel caso in cui ritenga che la condotta del lavoratore non costituisce comunque giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, anche utilizzando la graduazione negoziale delle infrazioni disciplinari come parametro integrativo delle clausole generali di fonte legale, ai sensi dell'art. 30, comma 3, D.lgs. n. 183/2010, il giudice potrebbe dichiarare illegittimo il recesso e, risolto il rapporto di lavoro, applicare la tutela indennitaria (Cass. n. 12365/2019).

Sembra opportuno considerare, però, che il procedimento di sussunzione del fatto concreto addebitato nella previsione contrattuale astratta non è sempre di facile attuazione, richiedendo anche un esame sistematico delle previsioni negoziali, nonché uno sforzo di concretizzazione per le clausole generali e le norme elastiche cui contenuto viene ad essere definito mediante l'interpretazione. Non sono rari, infatti, i casi in cui le fattispecie astratte sono formulate in maniera generica o includono ipotesi esemplificative ma espressamente non esaustive.

Al fine di stabilire la tutela applicabile, il giudice procede ad una sorta di valutazione bifasica in quanto, accertata la sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo, procede alla valutazione della proporzionalità del licenziamento, verificando se le parti negoziali abbiano già effettuato tale giudizio di valore prevedendo una sanzione conservativa.

Se ciò è avvenuto ma la fattispecie astratta è descritta mediante l'impiego di espressioni che necessitano di essere riempite di contenuto, non può negarsi che sia compito del giudice procedervi in via interpretativa, utilizzando standard conformi ai valori dell'ordinamento ed esistenti nella realtà sociale.

Tale attività di sussunzione della condotta contestata al lavoratore nella previsione contrattuale, espressa attraverso clausole generali o norme elastiche, non trasmoderebbe in un giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, arrestandosi all'interpretazione ed applicazione della norma contrattuale, ossia dando attuazione al giudizio di proporzionalità già eseguito dalle parti sociali.

Queste ultime, si evidenzia, sono libere nella scelta del maggiore o minore grado di analiticità nella individuazione delle condotte suscettibili di essere sottoposte a sanzione, sicché qualora dovesse procedersi ad una presa d'atto strettamente formale e rigida delle espressioni impiegate, qualora queste risultino generiche e, dunque, non consentano di sussumere nella sua interezza la concreta condotta addebitata, ciò andrebbe, in ultima analisi, a discapito del lavoratore. Una tale conclusione potrebbe generare qualche perplessità, in particolare tenuto conto del favor espresso dal Legislatore rispetto a previsioni negoziali in melius per il dipendente ai sensi dell'art. 12 L. n. 604/1966.

L'impiego nei contratti collettivi o nei codici disciplinari di clausole generali o norme elastiche, ovvero di previsioni di chiusura o fattispecie esemplificative, è connessa all'impossibilità pratica di tipizzare tutte le condotte aventi potenzialmente rilievo disciplinare, sicché la tipizzazione operata in sede negoziale non potrebbe, secondo taluni, essere ex se dirimente nell'individuazione della tutela applicabile qualora si accerti l'illegittimità del licenziamento.

Con riferimento al problema della prevedibilità, si è notato che è sempre alla volontà negoziale delle parti e, quindi, anche del datore per il tramite della o.s. cui aderisce, che va ascritto il maggiore o minore livello di analiticità nella tipizzazione e della sanzione irrogabile. L'impiego di clausole generali (es. lieve, grave) o di norme elastiche denoterebbe non tanto una perimetrazione netta delle condotte punibili mediante sanzione conservativa, bensì un'estrinsecazione dell'intenzione di non definire tassativamente tali fattispecie, demandando all'interprete la sussunzione della condotta accertata nella nozione generale indicata dalla disposizione collettiva, utilizzando giudizi di valore condivisi e standard conformi ai valori dell'ordinamento.

L'indeterminatezza della disposizione negoziale, quindi, richiederebbe un'integrazione valutativa in via ermeneutica.

Le due tesi sopra esposte non sembrano a chi scrive inconciliabili. Nell'ipotesi in cui le parti sociali abbiano impiegato nella descrizione della fattispecie astratta espressioni o termini cui significato non sia preciso nei suoi confini, si potrebbe procedere ad un'interpretazione estensiva, ammessa dalla tesi più restrittiva soltanto ove le previsioni negoziali appaiano inadeguate, per difetto dell'espressione letterale, rispetto alla volontà delle parti, tradottasi in un contenuto carente rispetto all'intenzione. Non si verificherebbe in tale ipotesi la paventata riduzione della portata della norma costituente la regola (tutela indennitaria) con l'introduzione di nuove eccezioni.

Da ultimo si osserva che se la finalità dell'art. 18, co. 4, St. Lav. è quella di valorizzare l'autonomia collettiva, prevedendo la tutela reintegratoria nel caso di licenziamento per comportamenti che il C.C.N.L. o il codice disciplinare punisce con una sanzione conservativa, allora tale funzione dovrebbe ritenersi svolta nella medesima misura non soltanto qualora le fattispecie astratte siano state specificatamente tipizzate, ma anche se esse siano state formulate mediante l'impiego di clausole generali o norme elastiche. Il riconoscimento di una diversa tutela, reintegrazione nel primo caso e indennità nel secondo, si risolverebbe in una ingiustificata disparità di trattamento, svilendo il ruolo che il Legislatore ha inteso attribuire alla volontà negoziale delle parti sociali.

Per approfondire

F. M. Giorgi, Revirement della cassazione sull'art. 18, comma 4, Stat. Lav., in Lav. giur., 2022, 8-9, pp. 818 ss.

C. Cester, Licenziamento disciplinare - illeciti disciplinari e tipizzazioni collettive: verso un ritorno della tutela reale?, in Giur. It., 2022, 1, pp. 143 ss.

F. Nardelli, il "fatto contestato" e il ruolo delle sanzioni conservative nella valutazione del giudice, in Lav. giur., 2021, 10, pp. 943 ss.

F. Olivelli, Licenziamento disciplinare - principio di proporzionalità - il divieto di estensione analogica delle sanzioni conservative sindacalmente tipizzate, in Giur. It., 2021, 1, 130.

M. Lamberti, Licenziamento disciplinare - tipizzazione collettiva dei comportamenti lavorativi meritevoli di sanzione conservativa: eccezionalità della reintegrazione nei licenziamenti disciplinari illegittimi, in Giur. It., 2020, 2, pp. 378 ss.

V. S. Giubboni, La valutazione della proporzionalità nei licenziamenti disciplinari: una rassegna ragionata della giurisprudenza, tra legge Fornero e Jobs Act, in WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona".it, 334/2017.

C. Berrini CeschiL, L'art. 18, c. 4, Stat. lav.: il riferimento ai contratti collettivi e al codice disciplinare. Interpretazione dottrinale ed applicazione giurisprudenziale, in Lav. giur., 2014, 10, pp. 845 ss.