La morte del socio nelle società di persone
02 Gennaio 2023
La fattispecie della morte del socio è regolata dall'art. 2284 c.c., in tema di società semplice, applicabile alle società in nome collettivo in virtù del richiamo di cui all'art. 2293 c.c. La norma prevede, innanzitutto, una possibilità di deroga e, come alternativa legale, la c.d. triplice opzione: “Salvo contraria disposizione del contratto sociale, in caso di morte di uno dei soci, gli altri devono liquidare la quota agli eredi, a meno che preferiscano sciogliere la società, ovvero continuarla con gli eredi stessi e questi vi acconsentano”. La prima opzione, ritenuta di default, è quella della liquidazione della quota agli eredi del socio defunto. Trattasi dell'ipotesi principale conseguente alla morte del socio. Sul piano terminologico, la norma parla di “eredi”, ma non si dubita in dottrina che, per eredi, debbano intendersi anche i legatari. Poiché la liquidazione della quota rappresenta una modifica del contratto sociale, la relativa decisione richiede l'unanimità sociale (art. 2252 c.c.), salva l'ipotesi di clausola statutaria di modificabilità a maggioranza. La prima problematica da esaminare concerne la sorte del rapporto sociale dopo la morte del socio, ossia individuare e qualificare quella fase intermedia che si instaura con la morte del socio e si conclude con la scelta dei soci superstiti. La legge non fissa un termine entro il quale i soci superstiti devono decidere se liquidare la quota, procedere allo scioglimento della società o continuarla con gli eredi. In caso di prolungata inerzia, è facoltà degli eredi chiedere al giudice la fissazione di un termine entro il quale la scelta deve essere effettuata. Tuttavia, poiché l'art. 2289 c.c. prevede che il pagamento della quota al socio uscente debba avvenire entro il termine di sei mesi dal giorno in cui si verifica lo scioglimento del rapporto sociale, traslando tale disciplina al caso di specie, i soci superstiti avrebbero un massimo di sei mesi per scegliere se liquidare o meno la quota agli eredi. La decisione dovrà, come detto, essere presa all'unanimità, in quanto modificativa del contratto sociale. In difetto di scelta, gli eredi, decorso il termine, potranno chiedere il rimborso della quota del loro de cuius. Quanto alla posizione giuridica facente capo agli eredi nelle more della scelta da parte dei soci superstiti, secondo alcuni autori, alla morte del socio il rapporto sociale non si scioglierebbe, ma entrerebbe in uno stato di quiescenza, la cui conclusione sarebbe rimessa alla scelta da operarsi da parte dei soci superstiti. Secondo tale impostazione, in capo agli eredi non sussisterebbe, ab origine, alcun diritto di credito alla liquidazione della quota, nascente solo in caso di scelta dei soci di liquidare la quota in loro favore. Tale impostazione presenta l'evidente difficoltà di qualificare giuridicamente lo stato di “quiescenza” del rapporto sociale e le facoltà ad esso connesse, ponendosi, altresì, in contrasto con la lettera della norma dell'art. 2284 c.c. che, espressamente, intitola “scioglimento del rapporto limitatamente ad un socio”. In ragione di tali obiezioni, secondo altra dottrina e la giurisprudenza, la morte del socio determinerebbe la risoluzione del rapporto sociale ed il sorgere in capo agli eredi di un diritto di credito alla liquidazione della quota, risolutivamente condizionato alla scelta dei soci superstiti di continuare la società con gli eredi stessi o di scioglierla. Nella pendenza del termine di scelta (sei mesi) gli eredi sarebbero, pertanto, titolari di un mero diritto di credito, riconvertibile in quota sociale, ove i soci decidano di continuare con essi la società. Tale tesi presenta alcune criticità dovute alla circostanza che la condizione risolutiva richiamata (secondo alcuni autori, legale e non retroattiva; secondo altri, potestativa e retroattiva), in quanto apposta al diritto di credito degli eredi, in caso di suo avveramento (mediante scelta dei soci di continuare la società con gli eredi) non potrebbe comunque comportare un loro subingresso nel rapporto sociale ormai risolto. Ove, invece, si consideri tale condizione apposta, non al diritto di credito degli eredi, ma allo stesso scioglimento del rapporto sociale, in caso di suo avveramento, gli eredi subentrerebbero nel medesimo rapporto sociale facente capo al de cuius, con diritto a partecipare alle operazioni di scioglimento e liquidazione della società, ossia ad una quota di liquidazione del patrimonio sociale e non alla sola liquidazione della quota. La dottrina e la giurisprudenza dominanti hanno, tuttavia, precisato che la condizione risolutiva di cui trattasi concerne il diritto di credito spettante agli eredi e non lo scioglimento del rapporto sociale che si determina, automaticamente, al momento della morte del socio. Difatti, se la condizione riguardasse lo scioglimento del rapporto sociale, in caso di opzione, da parte dei soci superstiti, per lo scioglimento della società, gli eredi avrebbero diritto a partecipare, in luogo del de cuius, alle operazioni di liquidazione della società, contrariamente all'opinione prevalente secondo cui gli eredi del socio hanno diritto solo alla liquidazione della quota, da valutarsi con riferimento alla data della morte, e non anche ad una quota di liquidazione della società. Per la giurisprudenza di legittimità, l'evento della morte del socio porta alla cessazione della qualità di socio (la quale non si trasferisce agli eredi, essendo il contratto sociale stipulato intuitus personae) e determina la trasformazione ope legis della quota, quale insieme di diritti sociali, nel corrispondente importo pecuniario, di cui diviene creditore l'erede e debitrice la società. L'operazione di liquidazione della quota, già di pertinenza del socio defunto, secondo i criteri fissati dall'art. 2289 c.c., è, quindi, solo un procedimento contabile conseguente al già verificatosi scioglimento del singolo rapporto sociale. Queste stesse considerazioni valgono ad escludere che, in tale ipotesi, si verifichi un fenomeno di divisione, sia pure parziale, del patrimonio della società, in quanto il diritto dell'erede ha per oggetto, fin dal primo momento, un importo pecuniario, corrispondente al valore della quota, mentre il patrimonio sociale rimane immutato, sorgendo a carico della società solo l'obbligo di corrispondere il valore della quota (Cass. civ., sez. V, ord., 21 gennaio 2021, n. 1216). Il diritto alla liquidazione della quota del socio defunto e il diritto alla quota di liquidazione spettante ai soci in caso di scioglimento della società costituiscono, quindi, concetti diversi. Il primo è disciplinato dalla norma dell'art. 2289 c.c., che, nel cristallizzare il valore della quota alla data di decesso del socio, tutela anche gli eredi da eventuali insolvenze sopravvenute della società; mentre, il secondo consegue allo scioglimento e alla liquidazione della società, dopo la conversione in danaro dell'attivo e pagamento del passivo, con distribuzione del residuo in favore di tutti i soci. Per tale ragione, in dottrina e in giurisprudenza (Cass. 21803/2006; Cass. 6196/2006; Cass. 12361/2002; Cass. 3673/2001; Cass. 8670/2000) prevale la tesi dello scioglimento immediato e definitivo del rapporto sociale facente capo al socio defunto, con contestuale nascita, in capo agli eredi, o legatari, di un diritto di credito alla liquidazione della quota, indipendente dalla scelta da operarsi da parte dei soci. In tal senso, si ritiene che il socio defunto trasmetta ai suoi eredi un mero diritto di credito e non la qualità di socio, estintasi definitivamente al momento della sua morte. Nel caso in cui i soci decidano di continuare la società con gli eredi, e questi vi acconsentano, tale ingresso dovrà effettuarsi in base ad un autonomo atto negoziale intercorrente tra gli stessi, in cui non verrà effettuato alcun conferimento, ma la mera compensazione tra il debito da conferimento e il credito da liquidazione spettante agli eredi. Nel caso in cui i soci decidano di sciogliere la società, agli eredi spetterà la liquidazione della quota da valutarsi con riferimento al momento dell'apertura della successione e non una quota di liquidazione del patrimonio della società. Gli eredi non sono, pertanto, legittimati a chiedere la liquidazione della società, né possono vantare un diritto a partecipare alla procedura di liquidazione che, nelle società di persone, resta facoltativa, potendo i soci sostituirla con altre modalità di estinzione della società (Cass. n. 3671/2001). Essi non avranno, inoltre, diritto alla restituzione dei conferimenti effettuati dal socio defunto. In caso di conferimento in godimento, la giurisprudenza (Cass. n. 2171/1953; App Firenze 24 novembre 1955) ritiene, tuttavia, che il conferimento vada restituito agli eredi, in quanto, in difetto, si trasformerebbe automaticamente in conferimento in proprietà. Sul piano fiscale, l'estinzione definitiva del rapporto sociale facente capo al de cuius con la sua morte, comporta la costituzione di un “nuovo” rapporto con gli eredi, ai quali sarà, quindi, preclusa ogni possibilità di portare in deduzione pro quota, nelle rispettive dichiarazioni dei redditi, le perdite derivanti dalla partecipazione societaria di competenza del de cuius, intrasmissibili mortis causa (Cass. 1216/2021). In caso di morte di uno dei due soci da cui è formata la società e mancata ricostituzione della pluralità dei soci nel termine di sei mesi dall'evento (art. 2272 n. 4 c.c.), il coordinamento tra la norma dell'art. 2284 c.c. e quella dell'art. 2272 n. 4 c.c. depone, per la maggior parte degli autori, in favore della prima, in quanto, mentre lo scioglimento del rapporto sociale per morte del socio è immediato, con conseguente obbligo del socio superstite di liquidare la quota agli eredi; lo scioglimento della società per il venir meno della pluralità dei soci si verifica al solo decorso dei sei mesi dalla morte socio, senza che l'unico superstite abbia ricostituito la compagine sociale; ne consegue che, anche in tale ultimo caso, gli eredi del defunto, conformemente a quanto disposto dall'art. 2284 c.c., non avranno diritto a partecipare alla liquidazione della società e a pretendere una quota di liquidazione, ma il solo controvalore in danaro della quota di partecipazione del loro dante causa al momento della morte (Cass. n. 10802/2009; n. 5809/2001; Cass. n. 8670/2000). Poiché la mancata ricostruzione della pluralità dei soci nel termine di sei mesi va considerata quale condicio iuris non retroattiva, al cui verificarsi si determina lo scioglimento della società, quale completamento della fattispecie progressiva di cui all'art. 2272 n. 4 c.c., mentre lo scioglimento del rapporto particolare del socio si verifica al momento del morte, con la nascita in favore degli eredi del solo diritto alla liquidazione della quota, ove la morte di uno dei due soci sopravvenga durante la già instaurata fase di liquidazione della società, agli eredi del defunto non spetterà più la liquidazione della quota, ma il diritto a subentrare al dante causa nella fase liquidatoria, in quanto l'anteriorità dello scioglimento della società sarebbe in grado di paralizzare anticipatamente l'applicazione dell'art. 2284 c.c. Nel caso in cui, venuta meno la pluralità dei soci, sopravvenga anche il decesso dell'unico socio rimasto, che non abbia provveduto ai sensi dell'art. 2272 comma 1 n. 4 c.c., si avrà lo scioglimento automatico della società ex art. 2272 c.c., e i suoi eredi, sebbene subentrino nel solo diritto alla quota di liquidazione e non già nella società, sono, comunque, obbligati a chiederne la messa in liquidazione al fine di realizzare il loro diritto. Pertanto, nel caso in cui, venuta a mancare la pluralità dei soci, non ricostituita entro sei mesi, sopravvenga il decesso dell'unico socio superstite, che non abbia provveduto a mettere in liquidazione la società, i suoi eredi saranno obbligati a procedere in tal senso, al fine di poter realizzare il proprio diritto alla quota di liquidazione e provvedere a regolare la posizione degli altri aventi causa (Cass. n. 14449/2014). Come visto, la fattispecie del decesso di uno dei due soci della società di persone presenta problematiche di coordinamento tra gli artt. 2284 c.c. e 2272 n. 4 c.c., ai sensi del quale la società si scioglie se viene a mancare la pluralità dei soci, non ricostituita nel termine di sei mesi dal verificarsi della causa di scioglimento. Secondo giurisprudenza e dottrina, la mancata scelta del socio superstite di ricostituire la pluralità sociale, anche tramite l'ingresso in società degli eredi del socio defunto, nel termine stabilito, configurerebbe una condicio iuris non retroattiva di scioglimento ex lege ed automatico della società (Cass. n. 9346/2018). L'orientamento preferibile in materia ritiene ammissibile una ricostituzione tardiva (oltre il termine di sei mesi dalla morte del socio) della pluralità dei soci, non configurabile quale costituzione di nuova società, bensì come revoca implicita dello stato di liquidazione, ammissibile sino alla cancellazione della società dal Registro delle Imprese. In quanto tardiva, tuttavia, tale ricomposizione sociale non sarà opponibile ai creditori personali del socio superstite, i quali, per effetto dell'intervenuto scioglimento della società, potranno domandare la liquidazione della quota del loro debitore (Consiglio Nazionale del Notariato, Studio di Impresa n. 156-2009/I). Quanto all'individuazione del soggetto tenuto al pagamento della quota, alcuni autori lo individuano nella società, altri nei soci superstiti. Tale seconda impostazione (Cass. n. 1272/1995; Cass. n. 4821/1993; Cass. n. 1577/1972; Cass. n. 186/1965) si fonda sull'assunto della limitata soggettività giuridica delle società di persone, che non consentirebbe l'assunzione diretta dell'obbligo di liquidazione in capo alle stesse. A sostegno, l'art. 2284 c.c. si esprimerebbe con riferimento esclusivo agli “altri soci”, e, inoltre, poiché la liquidazione comporta l'accrescimento della quota relitta in capo ai soci superstiti, solo su di essi dovrebbe gravare l'obbligo cui è collegato il conseguente vantaggio. La prevalente dottrina e la giurisprudenza (Cass. civ., sez. I, ord., 31 luglio 2020, n. 16556) di legittimità ritengono, tuttavia, che il debito gravi sulla società e non sui singoli soci, in quanto le società di persone, pur difettando di personalità giuridica, sono titolari di soggettività giuridica, quale centro autonomo d'imputazione di diritti e obblighi, tra i quali ricomprendere quello di liquidazione della quota agli eredi. Come detto, il termine di sei mesi per la liquidazione della quota agli eredi del socio defunto si riferisce all'ipotesi legale in cui i soci superstiti decidano di proseguire la società senza gli eredi in questione. Qualora, invece, essi optino per lo scioglimento società, si farà luogo al procedimento di scioglimento e liquidazione della società, avente, di regola, una scansione temporale più lunga dei canonici sei mesi. In tal caso, la liquidazione della quota agli eredi avverrà solo al termine della liquidazione della società e purché rimanga un attivo da distribuire tra i soci; ciò in quanto l'iter liquidatorio, diretto alla tutela dei creditori sociali, prevale sul diritto alla liquidazione degli eredi del socio defunto. Nel caso in cui la decisione di sciogliere la società intervenga dopo la scadenza del termine semestrale, lo scioglimento non sarà opponibile agli eredi, i quali conserveranno il diritto alla liquidazione della quota nei termini di cui all'art. 2289 c.c. (Cass. n. 9346/2018). Quanto alla posizione giuridica degli eredi durante la fase di scioglimento e liquidazione, dottrina e giurisprudenza preferibili ritengono che essi non possano partecipare alla fase di liquidazione, avendo solo il diritto ad ottenere quanto dovuto al termine della liquidazione, con la possibilità di impugnare il bilancio finale di liquidazione da cui scaturisce il calcolo della loro quota, ove ritenuto pregiudizievole. Poiché, secondo l'interpretazione preferibile, la morte del socio comporta lo scioglimento del rapporto sociale facente capo al defunto, la continuazione della società con gli eredi presuppone la stipula tra tutti i soci superstiti e gli eredi, di un nuovo accordo negoziale inter vivos di ingresso in società; la conseguente assunzione della responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali comporta, quindi, che la prosecuzione della società con gli eredi possa avvenire solo con l'espresso consenso di questi ultimi (“…e questi vi acconsentano”). Nel caso in cui soci decidano di continuare la società con gli eredi del defunto e questi accettino di entrare in società, tale ingresso dovrà effettuarsi in base ad un autonomo atto negoziale intercorrente tra i soci superstiti e gli eredi, in cui non verrà effettuato alcun conferimento, ma la mera compensazione tra il debito da conferimento e il credito da liquidazione spettante agli eredi. Occorre interrogarsi sulla fattispecie della pluralità di eredi e del subingresso in società da parte soltanto di alcuni di essi. La soluzione del problema presuppone la corretta qualificazione del diritto spettante agli eredi in conseguenza della morte del socio. Come detto, la teoria prevalente ritiene che, con la morte, il rapporto sociale si sciolga definitivamente, residuando in capo agli eredi solo un diritto di credito alla liquidazione della quota sociale. La giurisprudenza (Cass. S.U. n. 24657/2007, la quale, riferendosi a qualunque credito ereditario, ha sostenuto che nel nostro ordinamento non vale il principio romanistico secondo cui tra gli eredi si dividono debiti e crediti, ma si di dividono tra gli eredi solo i debiti, restando i crediti in comproprietà) ha ritenuto che tale diritto non si divida tra gli eredi, con la conseguenza che, in difetto di unanimità, nessun coerede potrà entrare in società. La dottrina, invece, senza argomentare sulla natura giuridica del credito ereditario, in forza del principio del favor societatis operante in tale sede, ritiene che ciascun erede possa decidere singolarmente di entrare in società o meno, così come i soci superstiti potranno offrire singolarmente a ciascuno di essi l'ingresso in società. Può succedere che non tutti gli eredi siano concordi nel continuare la società; in tal caso, l'erede subentrante potrà farlo limitatamente alla propria quota ovvero per l'intera quota di eredità, con liquidazione dei coeredi dissenzienti. Nel primo caso, saranno i soci superstiti ad essere obbligati alla liquidazione della quota agli altri coeredi; nel secondo caso, invece, obbligato alla liquidazione sarà lo stesso coerede subentrante nell'intera quota di partecipazione del defunto. Sino a qui l'esame del regime legale previsto dall'art. 2284 c.c. La norma prevede anche un regime convenzionale, ammesso dall'inciso “Salva diversa disposizione”. La differenza principale tra i due regimi insiste nel fatto che la scelta di una delle tre opzioni previste dalla legge viene posta in essere dai soci superstiti dopo la morte di uno di essi, mentre il regime convenzionale viene preformato dai soci stessi al momento della predisposizione dell'atto costitutivo di società. Si distingue in dottrina tra clausole di consolidazione e clausole di continuazione facoltativa, obbligatoria o automatica. Le clausole di consolidazione prevedono, già in sede di atto costitutivo, in caso di decesso di uno dei soci, la liquidazione della partecipazione sociale agli eredi del defunto, sostanzialmente bloccando il loro ingresso nella compagine sociale e precludendo ai soci, già in fase costitutiva, la possibilità di scegliere in futuro una delle altre due opzioni previste della legge. Le clausole di consolidazione costituiscono, quindi, pattuizioni in forza delle quali la morte di un socio provoca, senz'altro, la cessazione del rapporto sociale a lui relativo e l'accrescimento proporzionale della partecipazione degli altri soci, con esclusione, sin dal principio, di ogni eventualità di subentro in società degli eredi del defunto Si ritengono ammissibili quelle clausole di consolidazione contemplanti la liquidazione a titolo oneroso del controvalore della quota ai sensi dell'art. 2289 c.c., in base ad una situazione patrimoniale aggiornata. Si ritiene, inoltre, legittima una clausola in base alla quale, nel caso di scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio, la determinazione del valore della quota da liquidare agli eredi del socio defunto sia effettuata in base alle risultanze di un bilancio straordinario da erigersi al momento in cui tali evenienze si verifichino, anziché sulla base della situazione patrimoniale della società, come prescritto dall'art. 2289 c.c. (Consiglio Nazionale del Notariato, Quesito di Impresa n. 210-2012/I, Società di persone e clausola relativa al prezzo in caso di trasferimento di partecipazioni). Trattasi delle c.d. clausole di consolidazione "impure" - sottocategoria delle clausole di consolidazione - comportanti, non solo l'accrescimento diretto della quota del socio defunto a quella dei soci superstiti, ma anche l'obbligo, in capo a questi ultimi, di versare agli eredi un importo corrispondente al valore detenuto dalla quota consolidata. La validità di tali clausole è stata riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità in epoca risalente (Cass. 16 aprile 1975, n. 1434) e riaffermata di recente in diverse pronunce di merito, in quanto esse costituirebbero non una convenzione mortis causa, in violazione del divieto dei patti successori, ma un modo di liquidazione di un "asset societario" volto a evitare lo scioglimento della società (Trib. Torino, Sez. I, Sent., 01 luglio 2020). Trattasi di una categoria dottrinale, successivamente riconosciuta a livello giurisprudenziale nella sentenza della Cassazione n. 3345/2010, in cui la Corte ha definito clausola di consolidazione "quella in forza della quale la morte di un socio provoca senz'altro la cessazione del rapporto sociale a lui relativo e l'accrescimento proporzionale della partecipazione degli altri soci, con esclusione sin da principio di ogni eventualità di subentro in società degli eredi del defunto". Paiono, di contro, discutibili quelle clausole di consolidazione c.d. “pure” che, escludendo di fatto il diritto degli eredi di chiedere la liquidazione della quota, introducono un meccanismo di consolidazione gratuita della quota di partecipazione, senza il correttivo della liquidazione a titolo oneroso in favore degli eredi del defunto. La giurisprudenza di legittimità si è pronuncia per la loro inammissibilità per violazione del divieto dei patti successori (art. 458 c.c.), in quanto con esse i soci disporrebbero inter vivos delle proprie reciproche successioni non ancora aperte, stabilendo quali beneficiari i soci superstiti. Ugualmente a dirsi per quelle clausole di consolidazione che, pur prevedendo l'obbligo di liquidazione della quota in favore degli eredi, contemplino che la quota debba essere calcolato sul valore del conferimento effettuato o su quello contabile. In tal senso la Suprema Corte, affermando la validità delle clausole di consolidazione impure”, ha al contempo precisato che "il patto con il quale si dispone che alla morte di uno dei soci le azioni o quote si trasferiscano agli altri, senza che sia prevista l'attribuzione di alcunché ai successori per legge o per testamento, è patto che esclude del tutto la liberta testamentaria, ed e quindi nullo a sensi dell'art. 458 c.c." (Cass. 16 aprile 1975, n. 1434). Quanto al termine entro cui procedere alla liquidazione della quota agli eredi, appare ammissibile un termine più breve di quello semestrale previsto dall'art. 2289 c.c., mentre si esclude la possibilità di introdurre pattiziamente un termine più lungo, in quanto un differimento eccessivo della liquidazione della quota agli eredi, producendo un effetto analogo al patto di consolidazione gratuita, potrebbe impingere nella violazione del divieto dei patti successori. Le clausole di continuazione sono patti del contratto sociale che prevedono, ab origine, la continuazione della società con gli eredi del socio defunto, nonostante essi non siano ancora conosciuti. In tali clausole i soci stabiliscono, ora per allora, che non liquideranno la quota né scioglieranno la società, ma continueranno il rapporto sociale con gli eredi. Esse possono essere facoltative, obbligatorie ed automatiche. Con le clausole di continuazione facoltative i soci si obbligano, in sede di atto costitutivo, ad offrire la quota del socio defunto ai suoi eredi, i quali restano assolutamente liberi di accettare o meno la proposta di continuazione. La facoltatività della definizione riguarderebbe, quindi, gli eredi e non i soci superstiti. Tali clausole sono ritenute sicuramente legittime, in quanto è la stessa norma dell'art. 2284 c.c. a consentire tale possibilità, previo il consenso degli eredi del socio defunto. Posta la loro ammissibilità, occorre chiedersi cosa accada in caso di violazione della clausola, ossia quando i soci, in dispregio dell'obbligo assunto, non acconsentano alla continuazione della società con gli eredi. Per la dottrina prevalente sorgerebbe, in tal caso, in capo agli eredi un mero diritto al risarcimento del danno. Secondo altri autori, invece, gli eredi potrebbero agire ex art. 2932 c.c. al fine di ottenere una sentenza costitutiva del contratto sociale non concluso. Nonostante tale soluzione appaia più aderente alla ricostruzione giuridica della clausola in oggetto quale patto di opzione, al quale i soci restano obbligati sino all'adesione degli eredi del socio defunto, essa viene ritenuta da alcuni autori inattuabile nelle società di persone, in ragione dell'intuitus personae che le caratterizza. Con le clausole di continuazione obbligatoria anche gli eredi del socio defunto sono obbligati, al pari dei soci superstiti, alla continuazione del rapporto sociale. Nonostante l'obbligo ad essi imposto dalla clausola sociale, ai fini della continuazione del rapporto sarà pur sempre necessario il loro espresso consenso. Secondo alcuni autori la clausola di continuazione obbligatoria sarebbe invalida perché violativa del divieto dei patti successori, in quanto con tale pattuizione i soci disporrebbero delle loro future successioni in un momento anteriore alla morte. Secondo la dottrina prevalente e la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 21803/2006), invece, tali clausole sarebbero da considerarsi valide, in quanto non contrastanti con il divieto dei patti successori, poiché il subingresso degli eredi in società dipenderebbe, pur sempre, da una loro espressa manifestazione di volontà in tal senso. Così intesa, la clausola di continuazione obbligatoria avrebbe natura di promessa del fatto del terzo, in forza della quale ciascun socio prometterebbe che, in caso di sua morte pendente societate, i suoi eredi acconsentiranno a continuare la società con i soci superstiti. Ove gli eredi non adempiano a quanto promesso, non acquisteranno la qualità di soci - non essendo la continuazione una conseguenza automatica della morte del loro dante causa - restando esclusivamente obbligati a risarcire il danno ai soci superstiti. L'obbligo risarcitorio è coerente con la natura di promessa del fatto del terzo della clausola, ove, in caso di mancato avveramento della promessa, il promittente diviene responsabile, con conseguente obbligo risarcitorio a suo carico, dei suoi eredi o aventi causa. Anche in questo caso è da escludere, per l'essenziale natura intuitus personae delle società personali, l'esecuzione in forma specifica ex art 2392 c.c., mediante una sentenza che produca gli stessi effetti dell'adesione degli eredi in società. La giurisprudenza di legittimità ha recentemente confermato come, in caso di clausola di continuazione nel contratto sociale, la continuazione in società "non avviene mortis causa, ma in virtù dell'accordo inter vivos intercorso con i soci superstiti" (Cass. civ., sez. I, ord., 06 luglio 2022, n. 21376). Nello stesso senso, ritiene la Cassazione che la costituzione per testamento dell'usufrutto sulla quota del socio defunto incontri i limiti previsti dall'art. 2284 c.c., che attribuisce agli eredi del socio il diritto alla liquidazione della quota salvo che i soci superstiti non preferiscano sciogliere la società o continuarla con gli eredi stessi, qualora vi acconsentano; pertanto, la costituzione dell'usufrutto sulla quota del socio defunto si avrà soltanto in caso di continuazione della società con gli eredi, mentre in caso di liquidazione della quota, il diritto di usufrutto si realizzerà sulle somme ricavate dalla liquidazione della partecipazione del socio defunto (Cass. civ. ord. n. 13265/2022) Le clausole di continuazione automatica (o necessaria o di successione) sono quelle pattuizioni con cui i soci stabiliscono che alla morte di uno di essi, gli eredi subentrino in società in forza della sola manifestazione di accettazione dell'eredità. Nonostante parte della dottrina e della giurisprudenza (Cass. 12906/1995; Cass. n. 2632/1993) le ritenga valide, argomentando che l'ingresso in società degli eredi sarebbe comunque evitabile con la rinuncia all'eredità; la dottrina prevalente e la giurisprudenza (Cass. n. 12906/1995) le considera invalide, in primo luogo, poiché contrarie al divieto dei patti successori (art. 458 c.c.), e, inoltre, perché sarebbe illegittimo attribuire ad un soggetto responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, senza un suo espresso consenso in tal senso. Nella specie, le clausole di continuazione automatica attribuirebbero la responsabilità illimitata in assenza di un'espressa manifestazione di volontà, non potendosi considerare il mancato rifiuto dell'eredità una manifestazione di volontà tacita equivalente all'accettazione della qualità di socio; inoltre, esse configurerebbero dei patti successori dispositivi, con i quali il socio disporrebbe in favore degli eredi di un bene derivante dalla sua futura successione. A tale obiezione, la Suprema Corte ha eccepito che tali clausole configurerebbero comunque atti inter vivos, in cui l'evento morte opererebbe quale condizione sospensiva di efficacia. La scissione tra gli effetti derivanti dall'accettazione dell'eredità e quelli conseguenti all'acquisto della qualità di socio appare evidente in caso di accettazione beneficiata da parte degli eredi, i quali, assumendo volontariamente la qualità di socio, risponderanno illimitatamente per le obbligazioni sociali – sicuramente posteriori al loro ingresso in società, come ritiene la giurisprudenza di legittimità, ovvero anche anteriori a tale momento - senza poter godere del filtro creato dal beneficio di inventario. Illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali saranno anche i legatari che, quali successori a tiolo particolare, rispondono per i debiti e i pesi ereditari entro i limiti di valore del bene legato. Ciò in quanto i nuovi soci, sia aventi causa inter vivos che mortis causa, sono responsabili, oltre che per le obbligazioni (posteriori) assunte dopo il loro ingresso in società, anche per quelle anteriori a tale momento (art. 2269 c.c.). In caso di mancato ingresso in società, l'eventuale pagamento, da parte degli eredi del socio defunto, di debiti sociali anteriori ovvero anche posteriori al decesso – ove questo non sia stato adeguatamente pubblicizzato nel Registro Imprese - attribuisce loro il diritto di regresso per l'intero verso la società ed i soci superstiti. Le argomentazioni sopra esposte non riguardano la quota dell'accomandante di società in accomandita semplice, che si trasmette agli eredi secondo le normali regole successorie, in quanto considerata quota di capitale, a responsabilità limitata e, quindi, scevra da problematiche relative all'intuitus personae dei soci. Il procedimento di liquidazione ex art. 2289 c.c.
Gli eredi del socio defunto hanno diritto ad una somma di denaro che rappresenti il valore della quota. La norma dell'art. 2289 c.c. tende, quindi, a tutelare il patrimonio sociale attribuendo agli eredi del socio una somma di denaro, rappresentante il controvalore della quota e non una parte del patrimonio sociale. Quanto al soggetto passivo di tale debito, una prima tesi sostiene che soggetti passivi dell'obbligazione siano i soci superstiti, su cui graverebbe l'obbligo di liquidare la quota del socio defunto. Tale interpretazione si fonda – come anticipato - sulla soggettività limitata delle società personali, sul tenore letterale delle norme che individuano nei soci superstiti i soggetti obbligati e, infine, sulla modifica dell'assetto societario a vantaggio dei soci superstiti che consegue alla liquidazione. Su tale ultimo aspetto, la dottrina rileva che, poiché la quota da liquidare si accresce a quella dei soci superstiti, questi ultimi, quali titolari attivi della vicenda, dovrebbero subirne necessariamente il contrappeso passivo. Secondo la teoria dominante in dottrina e in giurisprudenza (Cass. n. 12125/2006; Cass. n. 5809/2001; Cass. S.U. n. 261/2000), il debito farebbe capo esclusivamente alla società, quale autonomo soggetto di diritto, anche se privo di personalità giuridica, titolare di capacità processuale e sostanziale nei rapporti esterni, anche verso i terzi. In base alla teoria prevalente dell'automatico scioglimento del rapporto sociale alla morte del socio e della nascita in capo agli eredi di un mero diritto di credito alla liquidazione della quota, gli eredi sarebbero soggetti terzi vantanti un diritto di credito autonomo nei confronti della società. Essi avrebbero, pertanto, come primo debitore la società con il suo patrimonio e, in via sussidiaria, in forza del principio di responsabilità illimitata dei soci, anche il patrimonio dei soci superstiti. Ne consegue che, litisconsorte necessario nel giudizio promosso dagli eredi per la liquidazione della quota del de cuius è solo la società, senza necessità di evocare in giudizio i singoli soci (Cass. n. 3674/2018); tuttavia, ritiene la giurisprudenza che possa considerarsi convenuta in giudizio la società nel caso in cui siano in citati in giudizio tutti i soci e il giudice accerti, in sede di merito, che la parte abbia inteso, in tal modo, agire proprio nei confronti della stessa (Cass. n. 12125/2006, Cass. n. 5248/2012). Quanto alle modalità di liquidazione, come detto, ai sensi dell'art. 2289 c.c., gli eredi del defunto hanno diritto ad una somma di denaro che rappresenti il valore della quota. Tuttavia è possibile che le parti del rapporto (i soci all'unanimità e gli eredi del socio defunto) prevedano pattiziamente una modalità di pagamento diverso dalla liquidazione con somma di denaro, ad esempio tramite l'attribuzione di un bene sociale (Cass. n. 4808/1980), a titolo di datio in solutum. Alcuni autori ritengono addirittura che, poiché la liquidazione in denaro è posta dall'art. 2289 c.c. a tutela della conservazione della società, quest'ultima, unilateralmente, anche senza il consenso dei soggetti creditori (eredi), potrebbe decidere di liquidare la quota non in denaro, ma con beni sociali. Oltre che in un momento successivo alla morte, il procedimento di liquidazione di cui all'art. 2289 c.c. è derogabile dai soci in sede di atto costitutivo, prevedendo che la liquidazione della quota possa, ad esempio, avvenire in base all'ultimo bilancio approvato, con esclusione dell'avviamento, con beni sociali ovvero in un termine più lungo dei sei mesi legislativi. Decorsi i sei mesi dalla morte del socio senza liquidazione della quota agli eredi, la società sarà considerata inadempiente ed obbligata a risarcire il danno, senza necessità di una formale messa in mora, con decorrenza di interessi di mora sulla somma non pagata e rivalutazione monetaria. Infine, per quanto riguarda il quantum della liquidazione della quota, la norma dell'art. 2289 c.c. prevede che “la liquidazione della quota va fatta in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento”, ossia al momento della morte del socio. Parte della dottrina e la giurisprudenza (Cass. n. 5809/2001; Cass. 3671/2001; App. Genova 17 aprile 2001) hanno sostenuto che occorra fare una valutazione del patrimonio sociale svincolato dai valori storicizzati nel bilancio, ma parametrato, invece, ai valori effettivi, compreso l'avviamento. L'inserimento dell'avviamento nella valutazione eviterebbe una disparità di trattamento tra l'ipotesi di scioglimento parziale del rapporto limitatamente ad un socio e quello di scioglimento della società con riferimento a tutti i soci. La situazione patrimoniale indicata dall'art. 2289 c.c. è, quindi, non un documento contabile, come richiesto in caso di operazioni sul capitale, ma una situazione patrimoniale intesa come condizione di fatto del patrimonio della società su cui parametrare la liquidazione della quota agli eredi del defunto. Una volta quantificato il debito, esso è di valuta e non di valore (Cass. n. 11598/1995), nel senso che non si rivaluta nel corso del tempo. Infine, il diritto di credito degli eredi del socio alla liquidazione della quota sociale si prescrive, per la giurisprudenza, nel termine quinquennale previsto dall'art. 2949 c.c., applicabile a tutti i diritti derivanti dal rapporto sociale (Cass. n. 18963/2017). Conclusioni
Gli ultimi arresti giurisprudenziali di legittimità ci consentono di confermare la tesi, già prevalente in dottrina e in giurisprudenza, dell'automatico scioglimento del rapporto sociale in caso di morte del socio di società di persone. L'interpretazione offerta è conforme alla struttura ontologicamente personalistica di suddette società, in cui non è indifferente che al posto di un socio subentri un altro soggetto ovvero anche i suoi eredi. Al fine di assecondare la ratio personalistica di tali società, ogni scelta è, come visto, lasciata all'unanimità dei soci, con il solo limite rappresentato dalla potenziale violazione della norma imperativa di cui all'art. 458 c.c., in tema di patti successori, e dei diritti di credito ereditari nei confronti dei soci superstiti, eventualmente raggirati tramite la predisposizione di clausole di consolidazione “pure” e di continuazione automatica. |