Con la sentenza n. 27346/2022 il giudice di legittimità affronta ancora una volta il tema della cosiddetta sindrome da alienazione parentale, fenomeno che, a parere della madre – ricorrente, sarebbe estato acriticamente posto a fondamento della decisione impugnata senza adeguati approfondimenti.
In particolare, la ricorrente ha lamentato il mancato espletamento di una CTU nell'ambito del procedimento dinanzi al Tribunale per i Minorenni (effettuata invece nel giudizio civile relativo all'affidamento della minore), talché la decisione si sarebbe basta esclusivamente su una errata interpretazione dei comportamenti alla medesima attributi.
La Suprema Corte ha invece evidenziato che sia la decisione della Corte d'appello, sia quella di primo grado, si fondavano sulla valutazione di una lunga serie di fatti ampiamenti dimostrati, poiché accertati in sede penale (la madre infatti era stata condannata per il mancato rispetto dei provvedimenti giudiziari che avevano disposto la graduale ripresa della frequentazione padre-figlia) e, inoltre, neppure contestati dalla stessa ricorrente, che aveva solo spiegato il proprio comportamento come una reazione ad allegate violenze psicologiche del padre (in merito alle quali però non aveva neppure articolato mezzi di prova).
La decisione di collocare il bambino in comunità, pertanto, a parere del giudice delle leggi si è fondata sulla comprovata sussistenza di fatti che dimostravano che per ben sei anni la mamma aveva completamente negato al figlio il diritto alla bigenitorialità, impedendo i contatti con il padre e persino rendendo irreperibile il minore e non su teorie astratte e, per questo motivo, non è censurabile il mancato espletamento di alcuna consulenza tecnica.
La corte ha altresì evidenziato che la decisione di inserire il minore e il padre in una comunità, era stata adottata a seguito del fallimento di tutti i precedenti interventi finalizzati a far riprendere i rapporti padre/ figlio e che la necessità di intervenire con la massima urgenza era stata evidenziata anche dalla corte europea dei diritti dell'uomo con la pronuncia resa a seguito del ricorso del padre.
La Corte Europea aveva infatti rilevato che “le diverse istituzioni intervenute (specie il tribunale per i minori e i servizi sociali) non hanno adottato rapidamente tutte le misure necessarie che si potevano ragionevolmente esigere per far rispettare il diritto dell'interessato di avere dei contatti e stabilire una relazione con suo figlio. Le numerose pronunce favorevoli ottenute dal ricorrente anche in sede penale, peraltro in termini non sufficientemente tempestivi, sono rimaste ineffettive e nessuna iniziativa è stata assunta nei confronti della madre per garantirne l'osservanza”
L'articolo 8 della CEDU, infatti, pur tutelando principalmente l'individuo dalle ingerenze arbitrarie dei poteri pubblici, impone comunque agli Stati anche “obblighi positivi inerenti a un effettivo rispetto della vita privata o familiare” che possono portare ad adottare “strumenti giuridici adeguati e sufficienti ad assicurare i legittimi diritti degli interessati, nonché il rispetto delle decisioni giudiziarie ovvero di misure specifiche appropriate”.
In rima con tale decisione, che ribadisce un principio già espresso dalla giurisprudenza della corte europea (si veda Terna c Italia 2021), la Corte conferma che il diritto alla bigenitorialità può essere limitato solo quando sia dimostrato che il rapporto con uno dei due genitori comporta un concreto e dimostrato pregiudizio per il minore – nel caso di specie provato dai fatti e comportamenti posti in essere dalla madre - ma non può essere rimesso a scelte arbitrarie e unilaterali di un genitore che decida di escludere l'altro dalla vita del figlio.
Con riferimento alla dedotta violazione degli articoli 3 e 8 della convenzione di New York sui diritti del fanciullo e 13 della CEDU, in quanto, a parere della ricorrente l'allontanamento dalla madre avrebbe impedito al minore di conservare la relazione con i propri familiari, esponendolo ad un trattamento disumano senza alcuna preventiva valutazione della capacità genitoriale della donna, la Cassazione ha evidenziato che a parere della corte di territoriale la gravità del il comportamento ostruzionistico della madre era prevalente rispetto alla capacità di accudimento parentale della stessa, talché non vi era necessità di ulteriori approfondimenti.