Non potendo qui ripercorrere (per ragioni di spazio e di interesse) ogni singolo motivo di gravame (rispettivamente sette e otto nei due reclami), è possibile tuttavia enucleare almeno quattro questioni di rilievo, che non sono frequentemente rinvenibili in un unico caso. Esse vertono in sostanza:
- nella qualificazione di un comportamento processuale del proponente che, revocando il proprio legale rappresentante e i propri difensori, ritiene di poter contestare i presupposti di fatto (i.e. lo stato di crisi) su cui si fondava la domanda di accesso al concordato e, comunque, “preannuncia” di proporre una nuova domanda di concordato, a termini ex art. 162 l.fall. scaduti, basata su un piano diverso dal precedente;
- nella configurazione come agricola di un'attività di raccolta e trasformazione della materia prima agricola, con rivendita del prodotto lavorato sul mercato;
- nella possibilità o meno di riunione delle proposte di concordato e dei relativi procedimenti, in presenza di piani inscindibilmente collegati elaborati da tre società (aventi sedi distinte, ma) costituenti un gruppo unitario di imprese, con conseguenti possibili conflitti d'interesse fra curatori fallimentari;
- nella rilevanza della solidarietà ex art. 2560, comma 2, c.c. in ipotesi di conferimento di rami d'azienda, anche ai fini della sussistenza dello stato d'insolvenza, peraltro contestato per via di stime ritenute errate e inattendibili dal nuovo difensore.
Le ulteriori tematiche discusse nel decreto d'inammissibilità e/o nelle sentenze di fallimento, e respinte come eccezioni inammissibili o del tutto infondate (anche grazie alla puntuale confutazione “documentale” offerta dai fallimenti convenuti), attenevano:
i) alla reiterazione di motivi di ricusazione del giudice delegato (per aver notiziato il PM dell'insolvenza e, in precedenza, dato suggerimenti “pratici” e di mero buon senso al debitore),
ii) alla competenza territoriale (v. subito appresso),
iii) alla legittimità di un'istanza di fallimento presentata oralmente dal Pubblico Ministero in udienza ex art. 162 l.fall.,
iv) alla responsabilità del precedente organo gestorio e dei precedenti difensori nell'aver depositato piani e proposte di concordato costruiti su dati intenzionalmente “gonfiati” (secondo la prospettazione del nuovo difensore) e
v) alla richiesta di condanna dei precedenti difensori, del loro studio associato e dei precedenti amministratore delegato e presidente della società proponente, alla luce dell'abusività della domanda concordataria per le dolosamente errate valutazioni delle aziende, con conseguenti perdite patrimoniali (a vantaggio di Conserve Italia) e, così, per responsabilità processuale aggravata ex artt. 96 c.p.c., 22 l.fall. e 2059 c.c. nell'aver causato “l'ingiusto fallimento” di OPOE.
Ci si trova, dunque, al cospetto di una sorta di “antologia” di questioni giuridiche, condensate in un'unica vicenda processuale, che si possono analizzare partitamente.
Sgombrato il campo dalla pregiudiziale ricusatoria (davvero pretestuosa), il decreto di inammissibilità dei concordati così come le sentenze di fallimento hanno ribadito la competenza territoriale ferrarese sia perché già stabilita dal Tribunale capitolino inizialmente adito, sia perché ammessa e argomentata dalle medesime società ricorrenti, avendo le tre società sede solo fittizia a Roma (presso lo studio di un commercialista) ma effettiva in Cento ove era altresì situato l'impianto di trasformazione del pomodoro.
Per le due società controllate da OPOE tutti gli atti successivi alla costituzione erano collocabili a Cento (il centro direttivo degli affari, gli uffici amministrativi e i dipendenti, le stipule degli affitti d'azienda, le delibere ex art. 152 l.fall. del legale rappresentante ivi residente) e, d'altro canto, mancava un qualunque elemento contrastante tale conclusione.
L'unico profilo dubbio avrebbe potuto riguardare la competenza territoriale per la capogruppo OPOE, il cui trasferimento della sede legale da Roma a Ferrara era avvenuto ad aprile 2021, quindi nell'anno anteriore alla domanda di concordato e alla dichiarazione di fallimento, come tale irrilevante ex artt. 9, comma 2, e 161 l.fall.
Ancorché il rilievo fosse astrattamente corretto (cfr. Cass. sez. VI, 16 dicembre 2021, n.40476; Cass. sez. VI, 3 febbraio 2020, nn. 2336 e 2337, per le quali l'art. 9, comma 2, l.fall. stabilisce un criterio di collegamento la cui applicazione prescinde totalmente dall'accertamento del carattere fittizio dello spostamento della sede, presupponendo che, in quanto avvenuto nell'anno anteriore, esso abbia avuto luogo al mero scopo di ritardare la dichiarazione di fallimento o di determinare l'incardinazione del relativo procedimento presso un ufficio giudiziario diverso), tuttavia le curatele fallimentari e i giudici d'appello hanno avuto agio di replicare, citando Cass. sez. VI, 10 giugno 2021, n. 16336 e altre conformi, come la competenza ferrarese per OPOE fosse ormai divenuta definitiva per mancata impugnazione del provvedimento romano che l'affermava (per giunta con adesione della medesima società), mentre per le due controllate – neppure mai trasferite da Roma - l'eccezione di incompetenza fosse stata sollevata ben oltre la prima udienza di concordato e prefallimentare, dunque tardivamente ai sensi dell'art. 38 c.p.c.
Per esse valeva comunque il criterio generale della sede effettiva – oggi ribadito dall'art. 27, commi 2 e 3, CCI, che introduce il concetto di “centro degli interessi principali” di derivazione eurounitaria (il c.d. COMI) - e, nella specie, la presunzione juris tantum della coincidenza con la sede legale era stata superata dalla prova che essa fosse a Ferrara e che quella legale fosse meramente fittizia.
Si aggiunga che Cass. sez. I, 9 novembre 2021, n. 32664, sottolinea come sia onere del debitore che conosce della pendenza dell'istruttoria prefallimentare, anteriormente introdotta, proporre la domanda di concordato preventivo dinanzi al tribunale investito dell'istanza di fallimento, anche quando lo ritenga incompetente, affinché i due procedimenti confluiscano dinanzi al medesimo tribunale, e senza che una siffatta condotta determini acquiescenza ad una eventuale violazione dell'art. 9 l.fall. E qui OPOE aveva in effetti presentato la domanda prenotativa a Roma, prima del trasferimento imposto da quest'ultimo tribunale.
Più interessante appare il motivo di impugnazione incentrato sulla pretesa natura agricola dell'attività svolta dalla capogruppo OPOE, la quale era un consorzio di cooperative agricole e, diversamente da quanto affermato dal Tribunale (che aveva omesso di sentire l'autorità governativa di vigilanza ai sensi dell'art. 195 l.fall.), avrebbe avuto natura di impresa agricola (a mutualità prevalente), iscritta come tale al registro imprese e pertanto non sarebbe stata assoggettabile a fallimento.
La curatela deduceva che OPOE, insistendo sino all'ultimo per il concordato, avesse rinunciato all'eccezione della sua qualifica “agricola”, comunque mai avanzata prima del cambio di difensore, incorrendo nella decadenza sancita con l'udienza ex art. 162 l.fall.
La Corte, anche volendo ritenere tempestiva l'eccezione e non implicitamente rinunciata con la richiesta di nuovo termine per il deposito di un diverso concordato (post udienza di inammissibilità), ha giudicato la questione “palesemente infondata”, per concomitanti ragioni. Nell'inconferenza del richiamo all'art. 195, comma 3, l.fall. in tema di procedimento per l'accertamento dello stato di insolvenza della cooperativa nell'ambito della liquidazione coatta amministrativa – OPOE era formalmente un consorzio con attività esterna -, si è appurato che la reclamante non avesse allegato, a suffragio della propria tesi, alcun elemento concreto; fermo restando che tra i consorziati di OPOE erano presenti imprenditori non agricoli, i giudici bolognesi hanno osservato come essa, prima del conferimento dell'azienda in Cento Food e IFF, ricevesse “dalle consorziate e anche da terzi la materia prima, la lavorava nel proprio impianto e la commercializzava. Successivamente alle operazioni di riorganizzazione aziendale mediante parcellizzazione del complesso aziendale tra le due società di nuova costituzione, l'odierna reclamante, rimasta priva di impianti produttivi, fino a tutta la primavera del 2021 ha acquistato la materia prima (anche e) soprattutto da terzi” (dall'esame dei partitari luglio 2020-giugno 2021, prodotti dal fallimento, si ricava come l'entità degli acquisti di materia prima dai soci fosse pari ad appena il 28% del complessivo) e l'ha venduta alle società partecipate per la lavorazione e commercializzazione.
Ergo, dopo i conferimenti effettuati all'inizio del 2020 e, poi, con gli affitti di azienda del 2021, il consorzio ebbe a cessare ogni attività di carattere latamente “agricolo” riconducibile all'art. 2135 c.c. e al d. lgs. n. 228/2001, proseguendo lo svolgimento di attività commerciale. Non si poteva più considerare imprenditore agricolo, infatti, il consorzio di cooperative che non utilizzasse per lo svolgimento delle attività di cui all'art. 2135, comma 3, c.c., in misura prevalente i) prodotti dei soci, ii) ovvero attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola, ovvero che iii) non fornisse prevalentemente ai soci beni e servizi diretti alla cura e allo sviluppo del ciclo biologico.
E' noto, in proposito, che ai fini dell'esonero dal fallimento delle società cooperative fra imprenditori agricoli e dei consorzi di produttori che commercializzano i prodotti degli associati, occorre procedere alla verifica:
a) della forma sociale e della qualità dei soci, anche attraverso le clausole statutarie e il loro tenore;
b) dello svolgimento di attività agricole in senso proprio o di attività “connesse” alle prime, anche in via esclusiva, da parte della società o del consorzio, ai sensi dell'art. 2135, comma 3, c.c.;
c) dell'apporto prevalente dei soci o della destinazione prevalente a questi ultimi di beni e servizi diretti alla cura ed allo sviluppo del ciclo biologico, ai sensi dell'art. 2, comma 2, d.lgs. n. 228/2001 (Cass. sez. I, 16 gennaio 2018, n. 831; v. anche Cass. sez. VI, 12 maggio 2016, n. 9788).
Va peraltro rimarcato che la qualifica di imprenditore agricolo non può essere ricondotta allo svolgimento delle sole attività connesse a quelle agricole, in assenza di queste ultime (Cass. sez. VI, 10 novembre 2016, n. 22978).
A seguito delle operazioni straordinarie di costituzione delle due società controllate e di conferimento ad esse del ramo d'azienda produttivo, invero, OPOE divenne di fatto la holding del gruppo, con ruolo di direzione e coordinamento di imprese certamente commerciali e di ausilio alle stesse.
Peculiare è risultato, invece, il motivo di reclamo (il terzo per OPOE, il secondo per IFF) con cui si lamentava come il Tribunale avesse oltrepassato la sua funzione di mero controllo della completezza e regolarità della documentazione e della fattibilità giuridica del concordato, dichiarandone l'inammissibilità sulla base di una motivazione apparente. Su ciò la Corte felsinea evidenzia “l'insanabile contrasto non solo logico, ma anche fattuale, tra la nuova posizione assunta dalla società, tramite il suo difensore, e la precedente proposta, sottintendente (per lo meno) lo stato di crisi di OPOE”, dal momento che OPOE, al pari delle altre società, ha solo da ultimo negato di versare in tale stato (anche solo di crisi), assumendo di trovarsi in una situazione alquanto “liquida” e del tutto difforme da quella descritta nella proposta concordataria. Il nuovo difensore ha, infatti, “criticato aspramente il piano e i relativi presupposti, contestando l'esistenza di debiti scaduti verso le banche e spingendosi ad addebitare ai precedenti professionisti l'indicazione di debiti inesistenti, al fine di aumentare il passivo e convincere dell'insolvenza, e lo svilimento dell'attivo allo scopo di assecondare la cessione dell'azienda a un soggetto predeterminato”.
Se, in concreto, siffatta motivazione rappresenta (per chi legge dall'esterno) l'unica spiegazione logica del revirement effettuato dalle proponenti, sotto il profilo processuale un tale ripensamento, oltre a non ritenersi ammissibile – posto che si confutano fatti ormai acquisiti al procedimento e fino allora non contestati a termini dell'art. 115 c.p.c. -, obbliga il giudicante a valutare se permanga la fattibilità giuridica del piano o se, in forza delle sconfessate valutazioni dell'azienda nel suo complesso, dei crediti e delle disponibilità liquide, possa configurarsi “il disegno fraudolento della domanda abusiva” (ché smentisce l'impianto concordatario), come sancito dal primo giudice.
Nella prospettiva della (tardiva) contestazione del proprio stato di crisi, viceversa affermato nella domanda di accesso, giova ricordare che il principio di non contestazione di cui all'art. 115 c.p.c. ha per oggetto fatti storici sottesi a domande ed eccezioni e non riguarda le conclusioni desumibili dalla valutazione di documenti (Cass. sez. III, 5 marzo 2020, n. 6172; Cass. sez. VI, 21 dicembre 2017, n. 30744), sicché, nella specie, il nuovo difensore avrebbe dovuto confutare per tabulas lo stato di crisi e, per converso, dimostrare documentalmente la situazione di non insolvenza delle società.
Il solo annuncio di voler presentare una nuova proposta di concordato, a termini scaduti ai sensi dell'art. 162 l.fall., è stato chiaramente sanzionato da Cass. sez. I, 31 marzo 2016, n. 6277, con la decadenza e la connessa inammissibilità della domanda, attesa la natura perentoria del termine, prorogabile solo in presenza di giustificati motivi che devono essere allegati dal richiedente e valutati dal giudice.
Il presupposto fattuale dell'intero reclamo sarebbe stato addirittura quello dell'“impugnazione incidentale” per nullità delle delibere assembleari 14 aprile 2021 di (ri)trasferimento della sede di OPOE da Roma a Cento e di sostituzione/modifica dei componenti del cda per una presunta mancata convocazione di soci; domanda valutata come inammissibile in sede di reclamo ex art. 18 l.fall., neppure essendo state fatte valere concrete conseguenze sul processo in corso, e comunque (quand'anche considerata come semplice eccezione) carente “di ogni specifica allegazione e tanto meno dimostrazione”. Tutto questo – conclude la Corte d'appello – “appare in effetti radicalmente incompatibile con il permanere della domanda di concordato, mai revocata, e persino con l'intento solo dichiarato di presentare una proposta “migliorativa” per i creditori (…) il cui contenuto non è mai stato prospettato, e che presuppone pur sempre la crisi ex art. 160, comma 1, l.fall.: mancando la quale, manca un fondamentale presupposto giuridico dell'ammissibilità della procedura”.
Di qui l'interruzione della procedura concordataria in limine, stante la conclamata assenza del requisito di fattibilità (se si vuole giuridica, in realtà, ancor prima, logica e di senso comune). Proseguendo la disamina, poi, la Corte apprezza le censure della difesa della curatela in ordine “all'insufficienza e carenza motivazionale dell'attestazione, che si traduce in insufficiente informazione dei creditori e quindi in autonomo motivo di inammissibilità del concordato”, sia in merito alle omissioni sugli “atti integrativi” dei contratti di locazione, che avrebbero determinato ingenti aumenti del canone (rilevanti per i contratti d'affitto d'azienda), sia in tema di risoluzione di diversi contratti di leasing, intervenute durante il concordato e non dichiarate, sia infine quanto all'adeguatezza del fondo rischi per le passività potenziali derivanti dalla revoca dei contributi regionali.
In ultimo, le sentenze affrontano il tema centrale della responsabilità solidale da conferimento di ramo d'azienda, contestata dalle reclamanti vuoi sotto l'aspetto della riunione delle tre domande di concordato in unico procedimento, “esulandosi dal concetto di continenza di cause e dall'ipotesi di procedimento prefallimentare e di concordato riguardanti unico soggetto”, vuoi per la trattazione unitaria di “situazioni confliggenti per soggetti diversi, e solo per applicare in modo illegittimo l'art. 2560 c.c.”.
Il coordinamento fra le tre procedure di concordato, oggettivamente ed evidentemente connesse per le questioni sottese, pur dovendo lasciare separate le relative masse attive e passive (solo di fatto “concordato di gruppo”), era “auspicabile ed è stato materialmente operato nella forma, non obbligata né vietata, della riunione, in sé effettivamente discrezionale e insindacabile” (p. 24 sent. OPOE). Il procedimento è poi sfociato in un unico decreto di inammissibilità, ma le sentenze dichiarative di fallimento, come le conseguenti procedure, sono rimaste distinte, con separazione delle masse e dei curatori. Quanto infine alla nomina di tre curatori diversi per i tre fallimenti, essi secondo le reclamanti, appartenendo al medesimo studio, opererebbero “in conflitto di interessi”, ma i giudici di secondo grado rilevano che il conflitto deve ricorrere in concreto, per circostanze specifiche non ravvisabili a priori ove siano nominate persone fisiche diverse, ancorché presso lo stesso studio; e che se anche fosse stato nominato un unico curatore-persona fisica, sarebbe ben possibile la nomina di curatore speciale ex art. 78 c.p.c. ove detto conflitto si configuri (ad es. nella verifica del passivo), e anche solo con riguardo a determinati e specifici affari o questioni.
Per quanto concerne la perdurante insolvenza delle tre debitrici è la sentenza n. 1303/2022 (relativa a IFF) ad illustrare con dovizia di argomenti l'erroneità del gravame, in cui la si nega asserendo che le singole masse passive debbono rimanere separate, con conseguente depurazione di gran parte dei debiti rivenienti dai conferimenti dei rami d'azienda.
Il Collegio decidente, oltre a rammentare come lo stesso reclamo avesse descritto l'origine delle difficoltà finanziarie del gruppo (risalente al 2019 per il rifiuto delle banche di rilasciare le fideiussioni necessarie a garantire gli acquisti della materia prima), enuncia i principi generali in tema di trasferimento d'azienda, pacificamente applicabili al sottotipo “conferimento” in altra società alla luce dell'inesistenza di deroghe al criterio civilistico dettato dall'art. 2560 c.c. Né quegli specifici atti di conferimento avevano previsto eccezioni o discipline particolari derogatorie. Anzi, è proprio l'atto di conferimento da CF a IFF (entrambe neocostituite) ad individuare nella perizia allegata ingenti debiti verso fornitori evidentemente rivenienti dal conferimento della capogruppo OPOE. Del pari, i debiti bancari, sorti tutti in capo alla holding, risultano trasferiti “a cascata” secondo le quantità corrispondenti ai rami conferiti siccome inerenti agli stessi. Le rispettive quote di debiti generali sono rilevate dalle perizie valutative allegate alle proposte di concordato e asseverate dall'attestatore.
E' piuttosto la “non inerenza” di essi ad un ramo a dover essere dimostrata dal debitore – prova nella specie mancata -, considerando che i rami non preesistevano al conferimento e l'azienda era unitariamente gestita dalla capogruppo. In ordine ai debiti tributari è il contribuente a dover provare, tramite esibizione dei libri contabili nonché del certificato di cui all'art. 14 D.lgs. 472/1997, che quelli dei quali viene richiesto il pagamento non ineriscano al ramo trasferito (così Cass. sez. trib., 11 aprile 2022, n. 11678).
Non si può obliterare inoltre che, per Cass. sez. un., 28 febbraio 2017, n. 5054, deve sussistere un'effettiva alterità soggettiva delle parti titolari dell'azienda affinché operi la separazione di responsabilità con riferimento ai debiti inerenti all'esercizio dell'azienda ceduta anteriori al trasferimento che risultino dai libri contabili obbligatori; altrimenti il principio solidaristico fissato dall'art. 2560, comma 2, deve essere applicato tenendo conto della "finalità di protezione" della disposizione ogniqualvolta venga riscontrato, da una parte, un utilizzo della norma volto a perseguire fini diversi da quelli per i quali essa è stata introdotta, e, dall'altra, un quadro probatorio che, ricondotto alle regole generali fondate anche sul valore delle presunzioni, consenta di fornire una tutela effettiva al creditore che deve essere salvaguardato (Cass., sez. III, 10 dicembre 2019, n. 32134).
Nel caso di una newco avente la conferente nella compagine sociale, come nella fattispecie in commento, “è certa la continuità e non alterità soggettiva e oggettiva all'atto dei conferimenti (…) che congiunta all'unitarietà del compendio aziendale fa in effetti ritenere gli atti volti all'esigenza di frazionare soprattutto il passivo in modo da proseguire l'attività nonostante la crisi in atto, come la successiva giuridica riunificazione (eseguita o prospettata) induce pure a concludere” (così sent. IFF, p. 21).
Ne consegue che la mole di debiti derivanti dalla capogruppo e accollati ex lege alle conferitarie per le ragioni dette ha determinato uno squilibrio tra attivo e passivo di tutte e tre le società che non poteva in alcun modo essere colmato dai soli flussi previsti in entrata. Di talché la manifesta infattibilità del concordato (giuridica o economica non cambia) emergeva anche per questa via.