Il licenziamento indiretto nell'ordinamento complesso

Roberto Cosio
13 Gennaio 2023

In base all'orientamento di legittimità tradizionale e sulla base del secondo comma dell'art. 1 direttiva 98/59, per assimilare ai licenziamenti altri atti risolutori dei rapporti (dimissioni o risoluzioni consensuali) sono necessari cinque licenziamenti in senso stretto; inoltre, è possibile ricomprendere nei primi cinque licenziamenti anche i c.d. “licenziamenti indiretti” sulla base dell'interpretazione fornita dalla Corte di giustizia nella sentenza Puyante Rivera del primo comma dell'art. 1 della direttiva 98/59; infine, per la definizione del c.d. “licenziamento indiretto” risulta essenziale il ricorso ai principi generali di buona fede e correttezza tramite i quali si può effettuare un corretto bilanciamento dei principi pacta sunt servanda e rebus sic stantibus.
Premessa. Il problema

La direttiva Cee n. 56 del 1992 (1) ha aggiunto un nuovo paragrafo al testo della direttiva n. 75/129, stabilendo che sono assimilati ai licenziamenti le cessazioni del contratto di lavoro verificatesi per iniziativa del datore di lavoro per una o più ragioni non inerenti alla persona del lavoratore, purché i licenziamenti siano almeno cinque (2).

La nuova disposizione intende accomunare nel novero delle fattispecie estintive prese in considerazione, anche gli altri atti risolutori dei rapporti (dimissioni, o risoluzioni consensuali) derivanti dall'iniziativa del datore di lavoro tenendo conto di esperienze normative di altri paesi (come quello tedesco) che assimilano ai licenziamenti veri e propri le fattispecie di risoluzione incentivate dal datore di lavoro.

La nuova direttiva, però, avverte che, per il computo della soglia minima da prendere in riferimento per la qualificazione del licenziamento come collettivo, le risoluzioni dei rapporti di lavoro devono avvenire nella forma di licenziamenti in senso stretto.

La direttiva è stata trasposta nell'ordinamento italiano nell'art. 1 del d.lgs n. 151/1997 che, modificando la legge n. 223/91, non ha espressamente ricompreso nel numero di cinque licenziamenti alcuna ipotesi diversa di risoluzione del rapporto di lavoro anche se riferibile all'iniziativa del datore di lavoro.

Da questa disposizione nasce uno dei problemi più complessi (sul piano giuslavoristico) degli ultimi anni.

Le questioni, in realtà, sono due.

La prima questione (che trova la sua base normativa nel secondo comma dell'art. 1 della direttiva 98/59) attiene alla possibilità di assimilare ai licenziamenti altri atti risolutori dei rapporti (dimissioni o risoluzioni consensuali).

Per tale assimilazione occorre che i primi cinque atti di estinzione dei rapporti di lavoro siano intimati nella forma di licenziamenti in senso stretto?

La seconda questione (che trova la sua base normativa nel primo comma dell'art. 1 della direttiva 98/59) attiene alla possibilità di ricomprendere nei primi cinque licenziamenti anche i c.d. “licenziamenti indiretti”.

La sovrapposizione delle due questioni (come vedremo) è alla base dei contrasti (dottrinali e giurisprudenziali) degli ultimi anni.

All'esame di questo delicato problema sono dedicate le pagine che seguono.

Le diverse tesi in campo

La prima tesi è che per la possibilità di assimilare ai licenziamenti altri atti risolutori dei rapporti (dimissioni o risoluzioni consensuali) devono essere intimati cinque licenziamenti in senso stretto.

L'orientamento, formatosi all'inizio degli anni 2000 (3), ritiene di poter conteggiare, per la configurazione di un licenziamento collettivo, solamente gli atti di licenziamento in senso tecnico, intesi come manifestazione unilaterale da parte del datore di lavoro di cessare il rapporto, restando irrilevanti altre forme di cessazione (come le dimissioni o i prepensionamenti) (4) pur se connesse (5), sul piano economico, alla medesima riduzione di personale.

La base normativa di questo orientamento è il secondo comma dell'art. 1 della direttiva 98/59.

In questo orientamento non viene esaminata la sentenza Pujanti Rivera della Corte di giustizia (che, peraltro, è stata depositata solo nel novembre del 2015).

La seconda tesi, contenuta nell'ordinanza n. 15401 della Suprema Corte del 20 luglio 2020 (6), ritiene che nei primi cinque licenziamenti possano essere computati anche i c.d. “licenziamenti indiretti”.

Nella specie, la Corte di appello di Milano (7) aveva appurato che nel periodo dei 120 giorni successivi al licenziamento del ricorrente, per soppressione della sua mansione a seguito della esternalizzazione dell'attività alla quale risultava addetto, erano stati effettuati due licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (trasformati in risoluzioni consensuali a seguito di procedura di conciliazione ex art. 7 l. n. 604/1966). In ogni caso, anche a voler considerare queste due risoluzioni consensuali come licenziamenti, il requisito minimo dei 5 licenziamenti non sarebbe stato comunque raggiunto in quanto le altre risoluzioni derivavano da dimissioni o da licenziamenti per diversa causale (disciplinare, mancato superamento di prova, superamento del periodo di comporto) o ancora da risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro con incentivo economico.

La Corte territoriale aveva, peraltro, escluso la rilevanza delle risoluzioni consensuali derivanti dalla mancata accettazione del trasferimento proposto (è questa la questione che ha esaminato la Cassazione) perché la causale giustificativa di cui all'art. 24 l. n. 223/91 è solo quella riconducibile ad una riduzione o trasformazione “di attività o di lavoro” dovendosi, dunque, trattare di licenziamenti in senso stretto e non di risoluzioni ad essi genericamente assimilabili.

La Cassazione, nell'ordinanza del 20 luglio 2020 (8), non condivide queste ultime affermazioni ritenendo che le risoluzioni consensuali dei rapporti di lavoro derivanti dalla mancata accettazione dei trasferimenti erano rilevanti al fine del computo dei lavoratori che determinano la configurabilità di un licenziamento collettivo.

Viene richiamata, a sostegno di tale valutazione, la risposta alla terza questione contenuta nella sentenza Pujante Rivera della Corte di giustizia (9).

Nella motivazione dell'ordinanza, però, non viene chiarito quale sia il rapporto tra le due risposte (al secondo e terzo quesito) contenute nella sentenza Pujante Rivera e, in sostanza, quale sia il rapporto tra il primo e il secondo comma dell'art. 1 della direttiva 98/59 (10). nell'interpretazione fornita dalla Corte di giustizia.

Secondo una terza opinione (11), infine, si ritiene possibile computare nei primi cinque “licenziamenti” altre forme di risoluzione dei rapporti di lavoro in quanto intimati in frode di legge.

Con tutte le conseguenze del caso in termini di allegazione e prova.

Una rilettura della sentenza Pujante Rivera

L'esame della complessa questione richiede un approfondimento della sentenza Pujante Rivera.

Il giudice del rinvio nel secondo quesito della sentenza Pujante Rivera (12) chiedeva alla Corte di giustizia se, al fine di accertare l'esistenza di un “licenziamento collettivo” ai sensi della direttiva, la condizione prevista nel comma 2 dell'art. 1 della Dir. 98/59 che “i licenziamenti siano almeno cinque” debba essere interpretata nel senso che essa riguarda esclusivamente i licenziamenti ovvero ricomprende le cessazioni di contratti di lavoro assimilate ad un licenziamento.

La Corte riteneva corretta la prima tesi (la disposizione riguarda “esclusivamente i licenziamenti in senso stretto”, punto 42) in base ad argomenti esegetici (la disposizione riguarda solamente i “licenziamenti”, punto 43) avvalorati dalla finalità della direttiva quale risulta dal suo preambolo.

Infatti, ai sensi dell'8 considerando della direttiva 98/59, “ai fini del calcolo del numero di licenziamenti previsti nella definizione di licenziamenti collettivi occorre assimilare ai licenziamenti altre forme di cessazione del contratto di lavoro per iniziativa del datore di lavoro, purché i licenziamenti siano almeno cinque. Come rilevato dall'Avvocato generale (…)” sono questi veri licenziamenti che il legislatore dell'unione ha inteso considerare con l'adozione delle disposizioni relative ai licenziamenti collettivi” (punto 45).

Affermazione ribadita nella sentenza della Corte di giustizia del 21 settembre 2017, C-429/16, punto 26 (13).

La risposta al secondo quesito nella sentenza Pujante Rivera conferma l'orientamento della Suprema Corte (dal 2000 al giugno 2020) avente ad oggetto il secondo comma dell'art. 1 della direttiva 98/59.

In sostanza, per assimilare ad un licenziamento altre cessazioni del contratto di lavoro occorre che i licenziamenti (da intendersi in senso stretto) siano almeno cinque.

Con la terza questione nella sentenza Pujante Rivera, il giudice del rinvio chiedeva, sostanzialmente, se la Dir. 98/59 doveva essere interpretata nel senso che il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso rientrava nella nozione di “licenziamento” di cui all'art. 1, par. 1, comma 1, lett. a) della medesima direttiva, oppure costituiva una cessazione del contratto di lavoro assimilabile a un siffatto licenziamento, a norma dell'art. 1, par. 1, comma 2, di detta direttiva.

La Corte di giustizia risponde affermando che la direttiva 98/59 “deve essere interpretata nel senso che il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso rientra nella nozione di licenziamento di cui all'art. 1, paragrafo 1, comma 1, lettera a) della medesima direttiva”.

È questa la risposta sulla base della quale la Cassazione ritiene, nell'ordinanza del 2020, di poter “superare” il precedente orientamento di legittimità.

Questo superamento, in realtà, non trova conforto nella lettura complessiva della sentenza Pujante Rivera.

La necessità di verificare l'esistenza di cinque licenziamenti (in senso stretto) per poter operare l'assimilazione prevista dal secondo comma dell'art. 1 della direttiva 98/59 era ed è necessaria alla luce della seconda risposta contenuta nella sentenza Pujante Rivera.

Quello che risulta innovativo nella sentenza Pujanti Rivera è l'interpretazione del primo comma dell'art. 1 della direttiva 98/59 e, in definitiva, della stessa nozione di “licenziamento collettivo” contenuta nella direttiva.

Il tema richiede un approfondimento.

La direttiva 98/59, com'è noto, non definisce espressamente la nozione di “licenziamento”.

La Corte di giustizia, dopo aver precisato che si tratta di una nozione di diritto dell'Unione che non può essere definita mediante un rinvio alle legislazioni degli Stati membri, ha definito tale nozione nella sentenza Commissione/Portogallo (14).

La nozione, in considerazione dell'obiettivo perseguito dalla direttiva e del contesto in cui si colloca il primo comma dell'art. 1, è stata definita “nel senso che comprende qualsiasi cessazione del contratto di lavoro non voluta dal lavoratore e, quindi, senza il suo consenso”.

La Corte di giustizia, nella sentenza Pujante Rivera (C-422/14), ha “implementato” (15) tale nozione, anche grazie al fatto che la nozione di “licenziamento” non può essere interpretata restrittivamente (16), rimarginando l'ambito applicativo della definizione fino a farvi rientrare i c.d. “licenziamenti indiretti”.

Si tratta di una interpretazione estensiva che rafforza, in modo notevole, la tutela dei lavoratori in caso di licenziamenti collettivi.

In questo contesto (l'interpretazione della nozione di licenziamento nell'ambito del primo comma dell'art. 1 della direttiva 98/59), si pone il problema di cosa si intenda per “licenziamento indiretto”.

Tale nozione, a ben vedere, si può scomporre in diverse parti.

In negativo, occorre che la cessazione del rapporto di lavoro derivi da “ragioni non inerenti alla persona del lavoratore”.

In positivo, che la cessazione del rapporto di lavoro sia disposta: a) “unilateralmente” dal datore di lavoro e b) riguardi la modifica di un “elemento essenziale del contratto di lavoro”.

Ne discende che “il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a sfavore del lavoratore, a una modifica non sostanziale di un elemento essenziale del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona di tale lavoratore o a una modifica sostanziale di un elemento non essenziale di detto contratto per ragioni non inerenti alla persona di tale lavoratore non può essere qualificato come licenziamento ai sensi della direttiva” (punto 26 della sentenza Socha del 21 settembre 2017, C-149/16).

La giurisprudenza della Corte di giustizia offre, in questo contesto, alcune indicazioni specifiche.

Nella sentenza Socha (C-149/16), ad esempio, si ritiene che l'avviso di modifica il quale prevede che ai fini della determinazione della data di esigibilità del premio di anzianità saranno “da lì in poi presi in considerazione soltanto i periodi di lavoro compiuti presso il datore di lavoro” non può essere considerato come comportante una modifica sostanziale del contratto di lavoro.

Nella sentenza Puyante Rivera (C- 422/14), si ritiene che una riduzione pari al 25% della retribuzione fissa integra una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro; mentre nella sentenza Ciupa (C- 429/16) si afferma che la riduzione temporanea del 15% dell'importo della retribuzione può non integrare gli estremi del “licenziamento indiretto”.

Al di là delle indicazioni specifiche, la Corte di giustizia fornisce una preziosa indicazione di carattere generale.

Il richiamo, nella sentenza Puyante Rivera (C-422/14) al principio pacta sunt servanda che, oltre a trovare preciso riscontro nel diritto spagnolo[6], costituisce un principio generale del diritto dell'Unione (17).

Il principio sancisce l'immutabilità e intangibilità del vincolo contrattuale al fine di conferire stabilità e certezza all'assetto di interessi che le parti hanno posto a fondamento del contratto.

Questo principio, però, và bilanciato con un altro principio - rebus sic stantibus - che consente, a determinate condizioni, una revisione o modifica delle clausole contrattuali.

Il conflitto tra il dovere di adempimento e le sopravvenienze in materia contrattuale ha origine antiche.

Nella dotta ricostruzione offerta da OSTI (18) si legge che il principio, sostanzialmente ignorato dal diritto romano classico, si è affermato nella pratica per poi essere accolto dalla dottrina.

Il primo intervento legislativo che avrebbe dato ingresso alla clausola risale al 1915 (il D.L. Lt 27 maggio 1915, n. 739) che fa esplicita menzione, nell'art. 1, all'eccessiva onerosità sopravvenuta.

Istituto disciplinato nel codice civile del 1942 con l'art. 1467 che, come si legge nella relazione al codice civile del 16 marzo 1942, n. 665, ha introdotto nell'ordinamento “in modo espresso ed in via generale il principio della implicita soggezione dei contratti con prestazioni corrispettive alla clausola rebus sic stantibus, sulle tracce del diritto comune e, quindi, in collegamento con una tradizione prettamente italiana”.

Affermazione che pur circoscritta (con riferimento all'art. 1467 c.c.) nel campo di applicazione a particolari contratti e alla presenza di tassative condizioni (19) trova conferma in una serie di disposizioni dirette a tutelare sia interessi di carattere patrimoniale (ad es. l'art. 1664 c.c. in materia di appalto, l'art. 1623 c.c. in materia di affitto e l'art. 1384 c.c. in materia di clausola penale) che di carattere non solo patrimoniale (come ad esempio gli artt. 687 e 803 c.c. in materia, rispettivamente, di revocazione del testamento e della donazione per sopravvenienza di figli) (20).

Altri spunti di riflessione (per la conferma del principio) sono riscontrabili nella legislazione successiva (21) e nelle sentenze dove, nell'assenza di un accordo tra le parti, si è ritenuto sussistente un obbligo di rinegoziazione del contenuto del contratto al determinarsi di una sopravvenienza non prevista al momento della conclusione del contratto (22).

La bussola per orientarsi in questo dedalo normativo è certamente il principio di buona fede espresso negli artt. 1366 e 1375 del cod. civile.

Affermazione che trova riscontro nella relazione tematica n. 56/2020 dell'Ufficio del Massimario della Cassazione che, di recente, si è misurata sul bilanciamento tra il principio di vincolatività del contratto e il principio rebus sic stantibus.

Nella relazione si legge che “(…) ogni qualvolta una sopravvenienza rovesci il terreno fattuale e l'assetto giuridico-economico su cui si è eretta la pattuizione negoziale, la parte danneggiata in executivis deve poter avere la possibilità di rinegoziare il contenuto della prestazione”.

Ed ancora.

“L'obbligo di rinegoziazione impone di intavolare nuove trattative e di condurle correttamente, ma non anche di concludere il contratto modificativo. Pertanto, la parte tenuta alla rinegoziazione è adempiente se, in presenza dei presupposti che richiedono la revisione del contratto, promuove una trattativa o raccoglie positivamente l'invito di rinegoziare rivoltole dalla controparte e se propone soluzioni riequilibrative che possono ritenersi eque e accettabili alla luce dell'economia del contratto (…). Si avrà di contro, inadempimento se la parte tenuta alla rinegoziazione si oppone in maniera assoluta e ingiustificata ad essa o si limita ad intavolare delle trattative di mera facciata, ma senza alcuna effettiva intenzione di rivedere i termini dell'accordo. L'inosservanza dell'obbligo in questione dimora nel rifiuto di intraprendere il confronto oppure nel condurre trattative maliziose (senza, cioè, alcuna seria intenzione di addivenire alla modifica del contratto)”.

Indicazione importante sul piano del metodo che dovrà essere modulata nel contesto della casistica che sarà portata all'attenzione dei giudici.

Conclusione

In sintesi, si possono affermare le seguenti conclusioni:

In primo luogo, risulta confermato, in base all'orientamento di legittimità tradizionale e sulla base del secondo comma dell'art. 1 della direttiva 98/59, che per la possibilità di assimilare ai licenziamenti altri atti risolutori dei rapporti (dimissioni o risoluzioni consensuali) sono necessari cinque licenziamenti in senso stretto.

In secondo luogo, è possibile ricomprendere nei primi cinque licenziamenti anche i c.d. “licenziamenti indiretti” sulla base dell'interpretazione fornita dalla Corte di giustizia nella sentenza Puyante Rivera del primo comma dell'art. 1 della direttiva 98/59.

In terzo luogo, per la definizione del c.d. “licenziamento indiretto” risulta essenziale il ricorso ai principi generali di buona fede e correttezza tramite i quali si può effettuare un corretto bilanciamento dei principi pacta sunt servanda e rebus sic stantibus.

Una vera e propria “bussola” per “navigare” nell'ordinamento complesso.

Note

(*) Di Roberto Cosio.

(1) Sul raccordo tra l'ordinamento italiano e quello comunitario si veda M.G. GAROFALO, Eccedenze di personale e conflitto, Gior. dir. lav.ind., 1990, 237 ss, B. GRANATA, Le direttive comunitarie in materia di licenziamenti collettivi e l'ordinamento italiano, Quad. dir. lav. rel. ind., 1997, n. 19, 159 ss, U. CARABELLI, I licenziamenti per riduzione di personale in Europa, Bari, 2001, 135, E. GRAGNOLI, La riduzione del personale fra licenziamenti individuali e collettivi, Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell'economia (diretto da F. GALGANO) 2006, R. COSIO, F. CURCURUTO e R. FOGLIA, Il licenziamento collettivo in Italia nel quadro del diritto dell'Unione europea, Milano, 2016, M. DE LUCA, I licenziamenti collettivi nel diritto dell'Unione europea e l'ordinamento italiano: da una remota sentenza storica della Corte di giustizia di condanna dell'Italia alla doppia pregiudizialità per il nostro regime sanzionatorio nazionale (note minime), parte prima e parte seconda, rispettivamente in Labor, n. 2, 2020, 149 e n. 3, 2020, 267. Per il diritto comparato si veda R. COSIO, F. CURCURUTO, E. DI CERBO, G. MAMMONE, Collective Dismissal in the European Union. A comparative Analiysis, Kluwer Law International, 2017.

(2) Sul tema veda G. ZANINI, La disciplina dei licenziamenti collettivi nell'ordinamento tedesco, Dir. lav., 1973, 136 e M. WEISS, I licenziamenti collettivi per riduzione del personale in Germania, Giorn. dir. lav. rel. ind., 1992, 157.

(3) Cass. 25 ottobre 2000, n. 14079 (estensore R. Foglia), Mass. Giur. lav., n. 12 dicembre 2000, 1326 ss., con nota di G. GRAMICCIA.

(4) Cfr. Cass. sentenza 24 marzo 2004, n. 5940.

(5) Cfr. Cass. sentenza 29 marzo 2010, n. 7519. Per una ricostruzione della giurisprudenza, sul tema, si veda Cass. 16 luglio 2019, n. 19022.

(6) Cass. Ordinanza 20 luglio 2020, n. 15401, Lav. Giur., n. 2/2021, 163-173, con nota di F. NARDELLI. Per la dottrina si veda F. LIMENA, I licenziamenti collettivi indiretti entrano nella fattispecie dei licenziamenti collettivi: il revirement della Cassazione, Lav. Giur., n. 6/2021, 600-604.

(7) Edita in Labor, 3 agosto 2020.

(8) A ZAMBELLI (Il recesso è licenziamento se si toccano elementi essenziali del contratto, Sole 24 ore del 24 luglio 2020) ritiene la motivazione “irragionevole e contrastante con la giurisprudenza comunitaria che essa stessa cita”. Occorre, peraltro, richiamare la sentenza della Cassazione n. 15118/2021 che, pur richiamando (in modo contraddittorio) l'ordinanza n. 15401, ha escluso dal numero minimo dei cinque licenziamenti (per integrare la fattispecie del licenziamento collettivo) “ipotesi risolutorie del rapporto di lavoro, ancorché riferibili all'iniziativa del datore i lavoro”. Sentenza annotata su Lav. Giur., n. 2/2022, 138-143, da F. LIMENA.

(9) CGUE 11 novembre 2015, C-422/15, punti da 50 a 54. In dottrina si veda A. RIEFOLI, I presupposti di applicabilità della disciplina sui licenziamenti collettivi al vaglio della Corte di giustizia, Riv. it. dir. lav., 2016, III, 699. Per una rilettura critica della sentenza si veda G. GAUDIO, Licenziamenti collettivi: la nozione di licenziamento alla ricerca di una sua identità, Arg. dir. lav., 2016, 2, 401.

(10) Cfr V. A. POSO, Le risoluzioni consensuali del rapporto lavoro che derivano da modifiche unilaterali sostanziali di condizioni essenziali del contratto di lavoro? Tu chiamale se vuoi ….licenziamenti, Labor, 3 agosto 2020 e R. COSIO, La nozione di licenziamento collettivo. Le precisazioni della Corte di giustizia, Lav. Giur. n. 5/2021, 502 ss..

(11) F. LIMENA, I licenziamenti collettivi indiretti entrano nella fattispecie dei licenziamenti collettivi, cit., 603.

(12) CGUE sentenza 11 novembre 2015, C-422/15, Lav. Giur. n.3/2016, con nota di R. COSIO.

(12) CGUE sentenza 21settembre 2017, C-429/16, Lav. Giur., n. 4/2018, con nota di R. COSIO.

(13) CGUE sentenza Commissione/Portogallo, C-55/02, punti da 49 a 51.

(14) Sulla c.d prassi implementativa come questione interpretativa si veda M. BARCELLONA, Norme e prassi giuridiche, Modena, 2022, 33 ss.

(15) Punto 51 della sentenza della CGUE C-422/15.

(16) Art. 1258 del codice civile spagnolo.

(17) CGUE sentenza 16 giugno 1998, C-162/96, punto 49.

(18) G. OSTI, La cosidetta clausola “rebus sic stantibus” nel suo sviluppo storico, Riv. dir. civ., 1912, 1 ss. Studio che viene ripreso, con opportuni aggiornamenti, nella voce Clausola “rebus sic stantibus” del Noviss, Dig. It., III, Torino, 1959, 353 ss.

(19) Cfr. M. BESSONE, Adempimento e rischio contrattuale, Milano, 1969, 48 ss.

(20) Sul tema si veda G. GITTI –G. VILLA (a cura di), Il terzo contratto, Bologna, 2008.

(21) Si pensi alla disciplina di locazione degli immobili ad uso abitativo (l. n. 431 del 1998) o a quella sui tassi di interesse dei mutui (l. n. 136/1999) o al codice degli appalti (d.lgs. n. 163 del 2006).

(22) Sul tema si veda M. LIBERTINI, Autonomia individuale e autonomia d'impresa, in G. GITTI – M. MAUGERI (a cura di), I contratti per l'impresa, I, Bologna, 2012, 65 ss.