L'esame della complessa questione richiede un approfondimento della sentenza Pujante Rivera.
Il giudice del rinvio nel secondo quesito della sentenza Pujante Rivera (12) chiedeva alla Corte di giustizia se, al fine di accertare l'esistenza di un “licenziamento collettivo” ai sensi della direttiva, la condizione prevista nel comma 2 dell'art. 1 della Dir. 98/59 che “i licenziamenti siano almeno cinque” debba essere interpretata nel senso che essa riguarda esclusivamente i licenziamenti ovvero ricomprende le cessazioni di contratti di lavoro assimilate ad un licenziamento.
La Corte riteneva corretta la prima tesi (la disposizione riguarda “esclusivamente i licenziamenti in senso stretto”, punto 42) in base ad argomenti esegetici (la disposizione riguarda solamente i “licenziamenti”, punto 43) avvalorati dalla finalità della direttiva quale risulta dal suo preambolo.
Infatti, ai sensi dell'8 considerando della direttiva 98/59, “ai fini del calcolo del numero di licenziamenti previsti nella definizione di licenziamenti collettivi occorre assimilare ai licenziamenti altre forme di cessazione del contratto di lavoro per iniziativa del datore di lavoro, purché i licenziamenti siano almeno cinque. Come rilevato dall'Avvocato generale (…)” sono questi veri licenziamenti che il legislatore dell'unione ha inteso considerare con l'adozione delle disposizioni relative ai licenziamenti collettivi” (punto 45).
Affermazione ribadita nella sentenza della Corte di giustizia del 21 settembre 2017, C-429/16, punto 26 (13).
La risposta al secondo quesito nella sentenza Pujante Rivera conferma l'orientamento della Suprema Corte (dal 2000 al giugno 2020) avente ad oggetto il secondo comma dell'art. 1 della direttiva 98/59.
In sostanza, per assimilare ad un licenziamento altre cessazioni del contratto di lavoro occorre che i licenziamenti (da intendersi in senso stretto) siano almeno cinque.
Con la terza questione nella sentenza Pujante Rivera, il giudice del rinvio chiedeva, sostanzialmente, se la Dir. 98/59 doveva essere interpretata nel senso che il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso rientrava nella nozione di “licenziamento” di cui all'art. 1, par. 1, comma 1, lett. a) della medesima direttiva, oppure costituiva una cessazione del contratto di lavoro assimilabile a un siffatto licenziamento, a norma dell'art. 1, par. 1, comma 2, di detta direttiva.
La Corte di giustizia risponde affermando che la direttiva 98/59 “deve essere interpretata nel senso che il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso rientra nella nozione di licenziamento di cui all'art. 1, paragrafo 1, comma 1, lettera a) della medesima direttiva”.
È questa la risposta sulla base della quale la Cassazione ritiene, nell'ordinanza del 2020, di poter “superare” il precedente orientamento di legittimità.
Questo superamento, in realtà, non trova conforto nella lettura complessiva della sentenza Pujante Rivera.
La necessità di verificare l'esistenza di cinque licenziamenti (in senso stretto) per poter operare l'assimilazione prevista dal secondo comma dell'art. 1 della direttiva 98/59 era ed è necessaria alla luce della seconda risposta contenuta nella sentenza Pujante Rivera.
Quello che risulta innovativo nella sentenza Pujanti Rivera è l'interpretazione del primo comma dell'art. 1 della direttiva 98/59 e, in definitiva, della stessa nozione di “licenziamento collettivo” contenuta nella direttiva.
Il tema richiede un approfondimento.
La direttiva 98/59, com'è noto, non definisce espressamente la nozione di “licenziamento”.
La Corte di giustizia, dopo aver precisato che si tratta di una nozione di diritto dell'Unione che non può essere definita mediante un rinvio alle legislazioni degli Stati membri, ha definito tale nozione nella sentenza Commissione/Portogallo (14).
La nozione, in considerazione dell'obiettivo perseguito dalla direttiva e del contesto in cui si colloca il primo comma dell'art. 1, è stata definita “nel senso che comprende qualsiasi cessazione del contratto di lavoro non voluta dal lavoratore e, quindi, senza il suo consenso”.
La Corte di giustizia, nella sentenza Pujante Rivera (C-422/14), ha “implementato” (15) tale nozione, anche grazie al fatto che la nozione di “licenziamento” non può essere interpretata restrittivamente (16), rimarginando l'ambito applicativo della definizione fino a farvi rientrare i c.d. “licenziamenti indiretti”.
Si tratta di una interpretazione estensiva che rafforza, in modo notevole, la tutela dei lavoratori in caso di licenziamenti collettivi.
In questo contesto (l'interpretazione della nozione di licenziamento nell'ambito del primo comma dell'art. 1 della direttiva 98/59), si pone il problema di cosa si intenda per “licenziamento indiretto”.
Tale nozione, a ben vedere, si può scomporre in diverse parti.
In negativo, occorre che la cessazione del rapporto di lavoro derivi da “ragioni non inerenti alla persona del lavoratore”.
In positivo, che la cessazione del rapporto di lavoro sia disposta: a) “unilateralmente” dal datore di lavoro e b) riguardi la modifica di un “elemento essenziale del contratto di lavoro”.
Ne discende che “il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a sfavore del lavoratore, a una modifica non sostanziale di un elemento essenziale del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona di tale lavoratore o a una modifica sostanziale di un elemento non essenziale di detto contratto per ragioni non inerenti alla persona di tale lavoratore non può essere qualificato come licenziamento ai sensi della direttiva” (punto 26 della sentenza Socha del 21 settembre 2017, C-149/16).
La giurisprudenza della Corte di giustizia offre, in questo contesto, alcune indicazioni specifiche.
Nella sentenza Socha (C-149/16), ad esempio, si ritiene che l'avviso di modifica il quale prevede che ai fini della determinazione della data di esigibilità del premio di anzianità saranno “da lì in poi presi in considerazione soltanto i periodi di lavoro compiuti presso il datore di lavoro” non può essere considerato come comportante una modifica sostanziale del contratto di lavoro.
Nella sentenza Puyante Rivera (C- 422/14), si ritiene che una riduzione pari al 25% della retribuzione fissa integra una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro; mentre nella sentenza Ciupa (C- 429/16) si afferma che la riduzione temporanea del 15% dell'importo della retribuzione può non integrare gli estremi del “licenziamento indiretto”.
Al di là delle indicazioni specifiche, la Corte di giustizia fornisce una preziosa indicazione di carattere generale.
Il richiamo, nella sentenza Puyante Rivera (C-422/14) al principio pacta sunt servanda che, oltre a trovare preciso riscontro nel diritto spagnolo[6], costituisce un principio generale del diritto dell'Unione (17).
Il principio sancisce l'immutabilità e intangibilità del vincolo contrattuale al fine di conferire stabilità e certezza all'assetto di interessi che le parti hanno posto a fondamento del contratto.
Questo principio, però, và bilanciato con un altro principio - rebus sic stantibus - che consente, a determinate condizioni, una revisione o modifica delle clausole contrattuali.
Il conflitto tra il dovere di adempimento e le sopravvenienze in materia contrattuale ha origine antiche.
Nella dotta ricostruzione offerta da OSTI (18) si legge che il principio, sostanzialmente ignorato dal diritto romano classico, si è affermato nella pratica per poi essere accolto dalla dottrina.
Il primo intervento legislativo che avrebbe dato ingresso alla clausola risale al 1915 (il D.L. Lt 27 maggio 1915, n. 739) che fa esplicita menzione, nell'art. 1, all'eccessiva onerosità sopravvenuta.
Istituto disciplinato nel codice civile del 1942 con l'art. 1467 che, come si legge nella relazione al codice civile del 16 marzo 1942, n. 665, ha introdotto nell'ordinamento “in modo espresso ed in via generale il principio della implicita soggezione dei contratti con prestazioni corrispettive alla clausola rebus sic stantibus, sulle tracce del diritto comune e, quindi, in collegamento con una tradizione prettamente italiana”.
Affermazione che pur circoscritta (con riferimento all'art. 1467 c.c.) nel campo di applicazione a particolari contratti e alla presenza di tassative condizioni (19) trova conferma in una serie di disposizioni dirette a tutelare sia interessi di carattere patrimoniale (ad es. l'art. 1664 c.c. in materia di appalto, l'art. 1623 c.c. in materia di affitto e l'art. 1384 c.c. in materia di clausola penale) che di carattere non solo patrimoniale (come ad esempio gli artt. 687 e 803 c.c. in materia, rispettivamente, di revocazione del testamento e della donazione per sopravvenienza di figli) (20).
Altri spunti di riflessione (per la conferma del principio) sono riscontrabili nella legislazione successiva (21) e nelle sentenze dove, nell'assenza di un accordo tra le parti, si è ritenuto sussistente un obbligo di rinegoziazione del contenuto del contratto al determinarsi di una sopravvenienza non prevista al momento della conclusione del contratto (22).
La bussola per orientarsi in questo dedalo normativo è certamente il principio di buona fede espresso negli artt. 1366 e 1375 del cod. civile.
Affermazione che trova riscontro nella relazione tematica n. 56/2020 dell'Ufficio del Massimario della Cassazione che, di recente, si è misurata sul bilanciamento tra il principio di vincolatività del contratto e il principio rebus sic stantibus.
Nella relazione si legge che “(…) ogni qualvolta una sopravvenienza rovesci il terreno fattuale e l'assetto giuridico-economico su cui si è eretta la pattuizione negoziale, la parte danneggiata in executivis deve poter avere la possibilità di rinegoziare il contenuto della prestazione”.
Ed ancora.
“L'obbligo di rinegoziazione impone di intavolare nuove trattative e di condurle correttamente, ma non anche di concludere il contratto modificativo. Pertanto, la parte tenuta alla rinegoziazione è adempiente se, in presenza dei presupposti che richiedono la revisione del contratto, promuove una trattativa o raccoglie positivamente l'invito di rinegoziare rivoltole dalla controparte e se propone soluzioni riequilibrative che possono ritenersi eque e accettabili alla luce dell'economia del contratto (…). Si avrà di contro, inadempimento se la parte tenuta alla rinegoziazione si oppone in maniera assoluta e ingiustificata ad essa o si limita ad intavolare delle trattative di mera facciata, ma senza alcuna effettiva intenzione di rivedere i termini dell'accordo. L'inosservanza dell'obbligo in questione dimora nel rifiuto di intraprendere il confronto oppure nel condurre trattative maliziose (senza, cioè, alcuna seria intenzione di addivenire alla modifica del contratto)”.
Indicazione importante sul piano del metodo che dovrà essere modulata nel contesto della casistica che sarà portata all'attenzione dei giudici.