Legge di bilancio 2023: la definizione agevolata delle accise ma non dell’IVA all’importazione

Gabriele Damascelli
16 Gennaio 2023

Con i commi da 186 a 203 dell'art. 1 della legge 197/2022 del 29 dicembre 2022 (Legge di Bilancio per il 2023) è stata prevista la possibilità di accedere alla pace fiscale e di definire le liti in cui è parte, per quel che qui interessa, l'Agenzia delle accise, dogane e monopoli di Stato, pendenti alla data di entrata in vigore della norma, mediante la presentazione di un'apposita domanda da presentare entro il 30 giugno 2023 ed il pagamento di un importo pari al valore della controversia, definita ai sensi dell'art. 12, c. 2, d.Lgs. n. 546/1992.
Definizione agevolata delle controversie tributarie in cui è parte l'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli

Oggetto della definizione agevolata possono essere le controversie attribuite alla giurisdizione tributaria pendenti in ogni stato e grado del giudizio, compreso quello in Cassazione ed anche a seguito di rinvio, in cui il ricorso in primo grado è stato notificato entro la data di entrata in vigore della legge di bilancio, per le quali alla data della domanda il processo non si sia concluso con pronuncia definitiva, ed aventi ad oggetto le accise e le imposte sui giochi, con espressa esclusione (v. il c. 193) di quelle concernenti, anche solo in parte:

a) i dazi doganali (risorse proprie tradizionali - RPT) di cui all'art. 2, par. 1, lett a), della Decisione n. 2020/2053;

b) l'IVA riscossa all'importazione.

Le controversie possono essere così definite:

  • in caso di ricorso pendente iscritto in primo grado all'1.1.2023, con il pagamento del 90% del valore della controversia;
  • in caso di soccombenza dell'Agenzia nell'ultima o unica pronuncia non cautelare depositata all'1.1.2023, con il pagamento del 40% del valore della controversia in caso di soccombenza nella pronuncia di primo grado;
  • in caso di soccombenza dell'Agenzia nell'ultima o unica pronuncia non cautelare depositata all1.1.2023, con il pagamento del 15% del valore della controversia in caso di soccombenza nella pronuncia di secondo grado;
  • in caso di accoglimento parziale del ricorso o di soccombenza ripartita, l'importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni è dovuto per intero relativamente alla parte di atto confermata dalla pronuncia ed in misura ridotta (v. lett. b) e c)), per la parte di atto annullata;
  • in caso di controversie pendenti innanzi la Corte di Cassazione, per le quali la competente Agenzia risulti soccombente in tutti i precedenti gradi di giudizio, mediante il pagamento di un importo pari al 5% del valore della controversia;
  • quelle relative esclusivamente alle sanzioni non collegate al tributo, con il pagamento del 15% del valore della controversia in caso di soccombenza dell'Agenzia nell'ultima o unica pronuncia non cautelare, sul merito o sull'ammissibilità dell'atto introduttivo del giudizio, depositata all'1.1.2023. Con il pagamento del 40% negli altri casi. Quelle relative esclusivamente alle sanzioni collegate a tributi, non è dovuto alcun importo relativo alle sanzioni qualora il rapporto relativo ai tributi sia stato definito anche con modalità diverse dalla definizione agevolata prevista dalla norma in argomento.

La definizione agevolata si perfeziona con la presentazione della domanda e con il pagamento degli importi dovuti entro il 30 giugno 2023, o con il pagamento rateale, per importi superiori ad euro mille, in un massimo di venti rate trimestrali di pari importo, con decorrenza dall'1.4.2023 e da versare, rispettivamente, entro il 30.6.2023, il 30 settembre, il 20 dicembre e il 31 marzo di ciascun anno.

Dagli importi dovuti ai fini della definizione agevolata si scomputano quelli già versati a qualsiasi titolo in pendenza di giudizio.

Le controversie definibili non sono sospese, salvo che il contribuente faccia apposita richiesta al giudice, dichiarando di volersi avvalere della definizione agevolata, ed in tal caso il processo è sospeso fino al 10.7.2023 ed entro la stessa data il contribuente ha l'onere di depositare, presso l'organo giurisdizionale innanzi al quale pende la controversia, copia della domanda di definizione e del versamento degli importi dovuti o della prima rata.

Per le controversie definibili sono sospesi per nove mesi i termini di impugnazione, anche incidentale, delle pronunce giurisdizionali e di riassunzione, nonché per la proposizione del controricorso in Cassazione che scadono tra l'1.1.2023 ed il 31.7.2023.

L'eventuale diniego della definizione deve essere notificato entro il 31.7.2024 ed è impugnabile entro 60 gg. dalla sua notificazione dinanzi all'organo giurisdizionale presso il quale pende la controversia. Nel caso in cui, invece, la definizione della controversia è richiesta in pendenza del termine per impugnare, la pronuncia giurisdizionale può essere impugnata dal contribuente unitamente al diniego della definizione entro sessanta giorni dalla notifica di quest'ultimo ovvero dalla controparte nel medesimo termine.

Con il c. 193 dell'art. 1 della legge di bilancio si è voluto quindi ricomprendere nella definizione fiscale delle liti tributarie anche le imposte riscosse dalla Dogana, con esclusione dei dazi e dell'IVA riscossa all'importazione, in quanto ricompresi tra le risorse proprie dell'UE dalla Dec. UE 2020/2053.

La normativa unionale in materia di risorse proprie

L'origine del sistema di risorse proprie (v. F. Vismara, in L'obbligazione doganale nel diritto dell'Unione europea, Torino, 2020, pag. 7) risale alla Decisione 70/243 del Consiglio nonché al Reg. del Consiglio n. 2/71, con il quale gli Stati membri decisero di riconoscere un'autonomia finanziaria alla CEE, dotandola di risorse proprie quali i prelievi agricoli, i contributi sulla produzione dello zucchero ed i dazi doganali (v. C. Sciancalepore, in Le risorse proprie nella finanza pubblica europea, Bari, 2021, pag. 21), e dotando la CEE di una maggiore autonomia finanziaria.

Con la Decisione 70/243 (a cui seguirono la 85/257, la 88/376, la 94/728, la 2000/597, la 2007/436, la 2014/335 ed infine l'attuale 2020/2053) fu sostituito il precedente sistema di contribuzione da parte degli Stati membri, basato sull'art. 200 del TCEE, con quello fondato sulle risorse proprie unionali che rappresenta la pietra angolare dell'autonomia finanziaria euro (v. I. V. Mocoroa, Studi sull'integrazione europea, in Il futuro del sistema delle risorse proprie dell'UE: una riforma necessaria, Bari, 2015, pag. 456), le cui modalità per la messa a disposizione della Commissione UE sono contenute nel Reg. UE 609/2014.

La Dec. (UE, Euratom) 2020/2053 entrata in vigore dall'1.1.2021, è relativa al sistema delle risorse proprie dell'UE e stabilisce il sistema di finanziamento del bilancio unionale nel periodo 2021-2027.

L'originaria scelta di inserire tra le risorse proprie i dazi era legata all'istituzione di un'unione doganale la quale si fondava sull'applicazione di una tariffa comune applicata da tutti gli Stati membri alle merci introdotte nel territorio doganale europeo.

Ai sensi dell'art. 311 del TFUE, il bilancio dell'UE, fatte salve le altre entrate (principalmente eccedenza delle entrate dell'UE ovvero ciò che resta dei pagamenti effettuati nell'esercizio precedente, multe imposte alle imprese che violano le norme dell'UE sulla concorrenza, restituzioni e imposte sugli stipendi), è finanziato integralmente tramite risorse proprie.

In particolare il Consiglio, deliberando secondo una procedura legislativa speciale, all'unanimità e previa consultazione del Parlamento europeo, adotta una decisione (che entra in vigore solo previa approvazione degli Stati membri) che stabilisce le disposizioni relative al sistema delle risorse proprie dell'UE, potendo, in tale contesto, istituire nuove categorie di risorse proprie o sopprimere una categoria esistente.

Il Consiglio stabilisce inoltre le misure di esecuzione del sistema delle risorse proprie nella misura in cui ciò è previsto nella decisione adottata.

La base giuridica di tale sistema si rinviene negli artt. da 310 a 325 e 352 del TFUE nonché negli artt. 106 bis e 171 del Trattato Euratom, nella Dec. 2020/2053, nella Reg. 2021/768 che stabilisce misure di esecuzione del sistema delle risorse proprie dell'UE, nel Reg. n. 609/2014 concernente le modalità di messa a disposizione delle RPT e delle risorse proprie basate sull'IVA e sull'RNL, nel Reg. 1553/89 concernente il regime di riscossione delle risorse proprie provenienti dall'IVA, ed infine nel Reg. 2021/770 concernente il calcolo della risorsa propria basata sui rifiuti di imballaggio di plastica non riciclati e le modalità di messa a disposizione di tale risorsa.

Ai sensi dell'art. 2, par. 1, della Dec. 2020/2053, costituiscono risorse proprie iscritte nel bilancio dell'Unione le entrate provenienti:

  • dalle risorse proprie tradizionali costituite anche dai dazi della tariffa doganale comune;
  • dall'applicazione di un'aliquota uniforme di prelievo dello 0,30% per tutti gli Stati membri al gettito IVA totale riscosso per tutte le forniture imponibili diviso per l'aliquota IVA media ponderata calcolata per l'anno civile pertinente, come previsto dal Reg. 1553/89. Per ciascuno Stato membro, la base imponibile IVA da prendere in considerazione a tal fine non supera il 50 % dell'RNL;
  • dall'applicazione di un'aliquota uniforme di prelievo sul peso dei rifiuti di imballaggio di plastica non riciclati generati in ciascuno Stato membro. L'aliquota uniforme di prelievo è pari a 0,80 EUR per chilogrammo;
  • dall'applicazione di un'aliquota uniforme di prelievo, da determinare nel quadro della procedura di bilancio, tenuto conto di tutte le altre entrate, alla somma dell'RNL di tutti gli Stati membri.

Tali risorse, ai sensi dell'art. 9, par. 3, della Dec. 2020/2053 e dell'art. 2, par. 2, del Reg. 2021/768, devono essere messe a disposizione della Commissione da parte degli Stati membri ed accreditate su un conto aperto a nome della Commissione presso il Tesoro dello Stato membro o la banca centrale nazionale o un istituto finanziario pubblico scelto da quest'ultima ai sensi dell'art. 9 del Reg. 609/2014.

Per quanto, ad oggi, non vi sia un potere impositivo diretto dell'UE rispetto alla riscossione dei dazi doganali (v. F. Vismara, op. cit, pag. 9), ciononostante è fatto obbligo agli Stati (v. C-358/97, p. 58) non solo di accertare e riscuotere tali risorse da riversare poi in quota parte al bilancio unionale (v. artt. 2, da 9 a 10-ter, 15, del Reg. 609/2014), ma anche di versare all'UE gli interessi di mora sugli importi messi a disposizione tardivamente sul conto (v. l'art. 12 del Reg. citato e, fra i tanti, C-335/12, C-442/08, C-392/02, C-276/97).

Ai sensi dell'art. 15 del reg. 609/2014 è poi previsto che gli Stati membri o le rispettive banche centrali nazionali eseguono gli ordini di pagamento della Commissione conformemente alle sue istruzioni e non oltre il terzo giorno feriale successivo alla ricezione degli ordini, trasmettendo poi alla medesima, per via elettronica e al più tardi il secondo giorno feriale dalla realizzazione di ciascuna operazione, un estratto conto in cui figurano i movimenti connessi.

Emblematiche quindi, al riguardo, le argomentazioni contenute nella causa C-275/07 (Comm. contro Rep. italiana) nella quale la Corte UE (v. p. 66) ha affermato che “…ogni ritardo nelle iscrizioni sul conto … dà luogo al pagamento, da parte dello Stato membro considerato, di un interesse di mora applicabile per tutto il periodo di ritardo. Tali interessi di mora sono esigibili qualunque sia la ragione per cui l'iscrizione di tali risorse sul conto della Commissione è stata effettuata con ritardo” (richiama C‑460/01, Commissione/Paesi Bassi, p. 91).

Da quanto sin qui riferito emerge l'intangibilità delle risorse proprie tradizionali ed il divieto degli Stati membri di ricomprenderle in previsioni di definizioni agevolate, è ciò sulla base del diritto dell'UE alla loro percezione non appena ricorrono le condizioni previste dalla normativa doganale (v. l'art. 77 del Reg. 952/2013) per quanto riguarda la registrazione dell'importo del diritto e la comunicazione del medesimo al soggetto passivo.

L'unica deroga in materia è prevista alle condizioni indicate all'art. 13 del Reg. 609/2014 (titolato “Importi irrecuperabili”), nella misura in cui, nonostante l'obbligo in capo agli Stati membri di prendere tutte le misure necessarie affinché tali importi siano messi a disposizione della Commissione, questi si rivelino irrecuperabili, dispensando tali Stati al ricorrere di:

  1. cause di forza maggiore;
  2. altri motivi che non sono loro imputabili.

I medesimi Stati possono, inoltre, essere dispensati:

  1. se dimostrano che l'errore commesso dopo l'accertamento di tali diritti non ha influito sull'irrecuperabilità dell'importo.
  2. tali diritti risultino irrecuperabili a causa della differita contabilizzazione o differita notifica dell'obbligazione doganale al fine di non pregiudicare indagini penali riguardanti gli interessi finanziari dell'UE.

La riconducibilità dell'IVA tra le risorse proprie dell'UE

I dubbi sono sorti, invece, in materia IVA, a motivo della sua riconducibilità o meno tra le risorse proprie dell'UE e le conseguenti osservazioni all'esclusione dell'imposta (all'importazione così come nelle operazioni interne data la sua natura unitaria) dalle definizioni agevolate che si sono susseguite nel tempo nel nostro ordinamento.

Quanto alla natura dell'imposta, è stata chiarita la sua qualità di tributo interno non evidenziandosi differenze tra iva all'importazione e l'iva interna allo Stato, essendo la prima “intesa, al fine di garantire la neutralità del sistema comune rispetto all'origine dei beni, a porre i prodotti importati nella stessa situazione dei prodotti nazionali analoghi per quanto riguarda gli oneri fiscali gravanti sulle due categorie di merci” (v. C-299/86, Rainer Drexl, p. 9).

L'IVA all'importazione, quindi, non colpisce esclusivamente il prodotto importato in quanto tale, ma s'inserisce in un sistema fiscale uniforme, che colpisce sistematicamente e secondo criteri obiettivi sia le operazioni degli Stati membri, sia quelle all'importazione” “difatti, a norma dell'art. 12, comma 5, della sesta direttiva, l'aliquota applicabile all'importazione di un bene è quella applicata alla fornitura di uno stesso bene effettuata all'interno del paese” (v. C-15/81).

La natura interna del tributo non ne consente l'assimilazione ai dazi, anche se l'IVA all'importazione condivide con questi la caratteristica di trarre origine dal fatto dell'importazione nell'UE e della susseguente introduzione nel circuito economico degli Stati membri, parallelismo confermato dall'art. 71, par. 1, c. 2, della Dir. IVA 112/2006, che autorizza gli Stati membri a collegare il fatto generatore e l'esigibilità dell'IVA all'importazione a quelli dei dazi doganali, pur rimanendo distinti da questi ultimi (v. C-273/12, p. 41, C-343/89, p. 18, nonché C-230/08, p. 90 e 91).

Più complessa sembra essere la sua riconducibilità nell'alveo delle risorse proprie, nonostante l'adozione della Sesta direttiva IVA 77/388 si sia resa necessaria, come correttamente osservato (v. G. Mamberto, in L'iva come risorsa propria delle Comunità europee, in Dir. e prat. trib., 1981, 6, 1510 ss.), proprio per dare attuazione alla prima Decisione sulle risorse proprie (la 70/243) e consentire in tal modo alla Comunità il finanziamento del proprio bilancio.

La risorsa propria basata sull'IVA e prevista nel quadro finanziario pluriennale (QFP - nel periodo 2021-2027) corrisponde ad una percentuale applicata alle basi imponibili IVA degli Stati membri, calcolata conformemente alle norme dell'UE, e rappresenta il 10% circa delle entrate totali da risorse proprie.

In merito al calcolo dell'imposta, la Commissione UE riferisce che tale risorsa è stata semplificata per ridurre gli oneri amministrativi a carico sia dell'UE che delle amministrazioni degli Stati membri.

Nel sistema previgente alla Decisione 2020/2053 l'IVA era calcolata (v. il Parere n. 11/2020 della Corte dei Conti UE) “in funzione di una base imponibile, confrontabile e convenzionalmente armonizzata tra gli Stati membri, e si ottiene dividendo le entrate nette dell'IVA di ciascuno Stato membro per l'aliquota media ponderata corrispondente”.

Tale sistema, riferisce la Corte dei Conti “serve a impedire che le scelte degli Stati membri rispetto alla composizione delle aliquote IVA (entro i limiti fissati dalla direttiva sull'IVA) si ripercuotano sui contributi dovuti. Secondo questo metodo complesso, si parte dall'importo dell'IVA riscossa da ciascuno Stato membro (i suoi introiti) e, al netto delle necessarie correzioni, si divide tale importo per l'AMP. Al netto delle ulteriori compensazioni applicate, la risultante base imponibile IVA convenzionalmente armonizzata viene poi moltiplicata per un'aliquota di prelievo fissa per ottenere il contributo di ciascuno Stato membro”.

La semplificazione prevista dal Reg. 1553/89 comporta:

  • l'eliminazione delle correzioni e delle compensazioni, fatte salve due eccezioni: quelle che riguardano l'ambito d'applicazione territoriale di cui agli artt. 6 e 7 Dir. IVA 2006/112 e quelle derivanti dalle infrazioni di tale direttiva;
  • l'applicazione in ciascuno Stato membro dell'aliquota IVA media ponderata (risultato di un'analisi statistica dell'insieme delle forniture di beni e servizi, e delle aliquote IVA applicate, in tutti gli Stati membri) del 2016 per tutto il periodo 2021-2027 (AMP definitiva ossia “congelata” al valore del 2016).

Le basi IVA di ciascun paese sono quindi livellate al 50% della base del reddito nazionale lordo (RNL) di ciascuno Stato, al fine di limitare gli aspetti regressivi della risorsa basata sull'IVA.

Per il periodo 2021-2027 alla base IVA di ciascuno Stato membro si applica un'aliquota uniforme di prelievo dello 0,3%.

In termini percentuali, però, come si può evincere dall'ultimo bilancio disponibile della Ragioneria generale dello Stato (andamento complessivo dei flussi finanziari tra l'Italia e l'UE nell'anno 2020), si osserva che il flusso finanziario complessivo delle risorse proprie dell'UE è così distribuito (cifre in milioni di euro):

  • totale Risorse Proprie (Dazi, RPT, IVA, RNL) 159.832 di cui 17.894 versati dall'Italia;
  • totale Dazi doganali 18.508 di cui 1.549 versati dall'Italia;
  • totale Risorsa IVA 17.344 di cui 1.967 versati dall'Italia.

Non va dimenticato che, ai sensi del Reg. 2021/768, tutte le risorse proprie unionali (RPT, IVA ed RNL) sono controllate, con la specifica che (v. l'art. 2, par. 4) ove le misure di controllo e di supervisione riguardino la risorsa propria basata sull'IVA di cui all'art. 2, par. 1, lett. b), della Dec. 2020/2053, i controlli della Commissione sono effettuati insieme alle autorità competenti dello Stato membro interessato.

La Commissione si accerta, così, che siano state eseguite correttamente le operazioni di calcolo del totale netto dell'IVA riscossa, verificando altresì che i dati utilizzati siano adeguati e che i calcoli effettuati per determinare tale risorsa siano conformi al Reg. n. 1553/89.

Il controllo di tutte le risorse UE, al fine della loro tutela, si esprime ulteriormente nel potere della Commissione (v. l'art. 3 del Reg. 2021/768) di incaricare alcuni dei propri funzionari o altri agenti (agenti delegati), muniti di mandato, di effettuare i controlli ai quali possono partecipare anche soggetti esperti distaccati dagli Stati membri presso la Commissione come esperti nazionali.

La posizione delle Corte di giustizia UE

In argomento è nota la posizione della Corte UE che ha affermato a più riprese il principio della responsabilità dello Stato membro, dovuto al pagamento della risorsa mancante e degli interessi correlati, anche nel caso di errori riguardanti le risorse proprie non tradizionali, sostenendo che Tali interessi di mora … sono dovuti per ogni ritardo e sono esigibili qualunque sia la ragione per cui l'iscrizione sul conto della Commissione è stata effettuata con ritardo” e “contrariamente a quanto sostiene il governo italiano, ne consegue, da un lato, che non si deve distinguere fra il caso in cui il ritardo è dovuto a un errore materiale e quello in cui esso è dovuto ad un errore giuridico e, dall'altro, che la natura non intenzionale del ritardo nell'accreditamento non può eliminare l'obbligo di versare interessi di mora”. (v. C-363/00, p. 43 e ss. e giur. cit.).

La mancata messa a disposizione delle risorse proprie, di qualsiasi natura, costituisce quindi un inadempimento di un obbligo imposto da una disposizione di diritto europeo (v. C. Sciancalepore, op. cit., pag. 140).

È stato osservato (v. A. Giovannini, Prescrizione dei reati di frode all'IVA, in Dir. e prat. trib. int., 2016, 2, pag. 456) che L'iva è un'imposta europea, ma non è risorsa dell'Unione. … Indubbia, pertanto, la sua origine comunitaria: è un'imposta che si può senz'altro definire di diritto europeo. Gli stati membri, d'altra parte e per questo motivo, hanno margini di manovra limitatissimi sulla sua disciplina. Sbagliata, invece, la riconduzione del tributo in sé fra le risorse dell'Unione. I regolamenti comunitari (e ora dell'Unione), infatti, stabiliscono soltanto che una quota della sua “base imponibile” divenga fonte di finanziamento del bilancio europeo: non è l'iva ad essere risorsa propria dell'Unione, ma tale è solamente una quota percentuale della sua base imponibile complessivamente riferibile al singolo Stato”.

Ed ancora, “…sebbene l'iva non sia tecnicamente qualificabile come risorsa propria, le violazioni relative alla sua applicazione ledono ugualmente l'interesse finanziario dell'Unione”.

La natura ambivalente del tributo (v. C. Sciancalepore, op. cit., pag. 35) genera continui contrasti tra gli Stati membri da un lato, i quali vedono l'imposta come tributo armonizzato, e l'UE dall'altro, sempre attenta a massimizzare la sua riscossione e a stigmatizzare le disposizioni nazionali che potrebbero minare l'esazione del tributo.

Al riguardo, la posizione della Corte UE è finalizzata alla protezione degli interessi finanziari dell'UE, certificata da un approccio di ferma chiusura verso ipotesi condonistiche incontrollate dell'IVA (v. ad es. la L. italiana 289/2002), ma anche da aperture, che si ritengono coerenti a livello sistematico, verso una definibilità “ragionata” dell'IVA in quelle ipotesi nelle quali si può sostenere, a ragione, l'irrecuperabilità (anche solo parziale) dell'imposta.

Così ad esempio in C-132/06 (idem in C-174/07), la Corte UE ha osservato che una procedura di “definizione automatica” che consentiva ai soggetti passivi che non avevano presentato la dichiarazione, di versare un importo corrispondente (o inferiore) al 2% dell'IVA dovuta sulle cessioni di beni e sulle prestazioni di servizi, ed un importo pari al 2% dell'IVA detratta nel medesimo periodo, rappresentava né più né meno che una rinuncia espressa e generale all'accertamento delle operazioni imponibili effettuate nel corso di una serie di periodi di imposta, che viola gli obblighi derivanti dalla direttiva IVA e dal principio generale di leale cooperazione.

Per la Corte UE la direttiva IVA ha lo scopo di fornire alle amministrazioni fiscali nazionali gli strumenti di controllo necessari per assicurare l'esatta riscossione dell'imposta, mediante un'efficace azione di accertamento e di lotta all'evasione, non essendo consentito ad uno Stato membro di sottrarsi unilateralmente all'obbligo di assoggettare ad IVA determinate categorie di operazioni (v. C-382/02, p. 24).

Nel sistema comune dell'IVA gli Stati membri “sono tenuti a garantire il rispetto degli obblighi a carico dei soggetti passivi e beneficiano, a tale riguardo, di una certa libertà in relazione, segnatamente, al modo di utilizzare i mezzi a loro disposizione”, ma non è loro consentito di rendere i contribuenti beneficiari di un condono che li sottrae “definitivamente agli obblighi ad essi incombenti di dichiarare e di pagare l'importo dell'IVA normalmente dovuto” versando una somma forfettaria invece di un importo proporzionale al fatturato realizzato. (C-132/06, p. 38 e 42).

La Corte, condivisibilmente, osservava che (C-132/06, p. 45) la misura italiana si poneva in evidente contrasto con il principio di neutralità fiscale, che tutela la realizzazione di un mercato comune che implica una sana concorrenza, ed il cui funzionamento è pregiudicato dalla norma condonistica, così evidenziando non già un “problema interno” al singolo Stato, bensì un'evidente erosione di norme e principi unionali, contestando altresì all'Italia che quella norma “rimette in discussione la responsabilità che grava su ogni Stato membro di garantire l'esatta riscossione dell'imposta”.

Differenti, invece, le ipotesi affrontate in C-500/10 (caso italiano), in cui si discuteva dell'estinzione automatica delle controversie tributarie ultra decennali pendenti dinanzi al giudice tributario di terzo grado.

Lì la Corte osservava, condivisibilmente, che l'intento della norma era di rimediare alla violazione dell'osservanza del termine di durata ragionevole del processo (art. 6, par. 1, CEDU), e che l'eccessiva durata del processo era a priori idonea a pregiudicare, di per sé, l'osservanza di tale principio nonché l'obbligo di garantire la riscossione efficace delle risorse proprie dell'UE.

Concludeva nel senso che la misura italiana non costituisce una rinuncia generale alla riscossione dell'IVA per un dato periodo, bensì una disposizione eccezionale diretta a far osservare il principio del termine ragionevole, estinguendo le procedure più vecchie” e, soprattutto, ai fini di “sistema”, tale misura “per il suo carattere puntuale e limitatonon crea significative differenze nel modo in cui sono trattati i soggetti d'imposta nel loro insieme e, pertanto, non pregiudica il principio di neutralità fiscale”.

Argomentazioni simili hanno condotto la Corte UE a ritenere compatibile, con la direttiva IVA, la norma interna (anche qui italiana) che, in relazione ad una procedura di esdebitazione, consente al giudice, a certe condizioni, di dichiarare inesigibili i debiti IVA, non liquidati, di una persona fisica in esito alla procedura fallimentare cui tale soggetto è stato sottoposto (C‑493/15).

Richiamando le conclusioni della coeva causa Degano Trasporti in C‑546/14 (in tema di falcidia dell'IVA dovuta da un imprenditore nell'ambito di una procedura di concordato preventivo), la Corte osservava che la procedura di esdebitazione era assoggettata a condizioni di applicazione rigorose che offrivano garanzie riguardo la riscossione dei crediti IVA, non costituiva una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell'IVA e non era contraria all'obbligo degli Stati membri di garantire il prelievo integrale dell'IVA e la riscossione effettiva delle risorse proprie dell'UE.

In conclusione si osserva che, dal quadro normativo e dalle argomentazioni della Corte UE, al di là delle differenze strutturali tra dazi ed IVA, la protezione offerta dai giudici di Lussemburgo a difesa di eventuali approcci condonistici o di definizione agevolata tout court da parte degli Stati membri, è finalizzata alla tutela degli interessi finanziari unionali anche riguardo l'IVA, non potendo concedere che un'imposta, seppur “interna” nei termini sopra esposti, sia sottratta dalla compartecipazione al bilancio unionale e sia piegata, all'occorrenza, alle necessità di cassa del singolo Stato membro.

In tal modo potrebbe ritenersi superato l'equivoco circa la supposta condonabilità di un'imposta solo perché avente natura “interna”.

La normativa interna in tema di definizione agevolata delle liti

Quanto sin qui esposto è il motivo per il quale, all'indomani della condanna dell'Italia da parte della Corte UE per la rinuncia generale ed indiscriminata all'accertamento dell'IVA di cui alla L. 289/2002, per palese violazione degli obblighi derivanti dalla Sesta Dir. IVA 77/388 nonché dell'obbligo di leale cooperazione, si è assistito nel nostro ordinamento a provvedimenti di definizione agevolata che hanno opportunamente evitato di ricomprendere al loro interno le risorse proprie UE (tradizionali o meno), per timore di vedersi addebitata dall'UE una responsabilità finanziaria con conseguente depauperamento delle finanze pubbliche.

In tal modo con l'art. 1, c. 529-bis, L. 228/2012 si escludeva dalla cancellazione dei ruoli sino ad euro 2000 sia le risorse proprie tradizionali (RPT) sia l'iva riscossa all'importazione, con l'art. 6 del D.L. 193/206 si consentiva la rottamazione delle cartelle ma con esclusione, anche qui, delle RPT e dell'IVA in import, l'art. 11 del D.L. 50/2017 escludeva analogamente dalla definizione agevolata le RPT e l'IVA in import, come avvenuto con gli artt. 4 e 6 del D.L. 119/2018 per i debiti sino a mille euro e con l'art. 4 del D.L. n. 41/2021 per quelli sino ad euro 5000.

Non si comprende, però, la scelta di perimetrare l'esclusione della definizione agevolata, prevista dalla legge di bilancio 2023, specificamente all'IVA all'importazione, come se quella interna o relativa agli scambi intra-UE fosse differente e, quindi, definibile tout court, invece che escludere l'IVA in quanto tale, generando in tal modo ulteriori dubbi.

In conclusione

Si ritiene che l'esclusione dell'IVA (all'importazione) dalla previsione agevolativa della Legge di bilancio 2023, risponda ad una coerenza sistematica che ricomprende l'imposta tra le risorse proprie dell'UE, che il sistema unionale, con l'ausilio della Corte di giustizia ed a fronte della mole consistente di evasione d'imposta (l'Italia è al 4° posto), vuole tutelare da istanze nazionali contrarie alla direttiva IVA ed ai principi a questa preposti.

Sommario