I limiti alla circolazione delle azioni

16 Gennaio 2023

Il contributo analizza i limiti convenzionali alla circolazione delle azioni, come introdotti dal legislatore nella norma dell'art. 2355-bis c.c. al fine di bilanciare il principio di libera disponibilità del titolo azionario con l'interesse alla stabilizzazione degli assetti proprietari o di governo delle s.p.a.
I limiti alla circolazione della azioni in generale

L'azione, come bene in senso economico e giuridico, è liberamente trasferibile; sia la legge che l'autonomia privata possono, tuttavia, prevedere delle limitazioni alla sua circolazione.

Ove tali divieti e limiti siano previsti in sede di costituzione della società, sussisterà necessariamente il consenso unanime di tutti i soci.

Durante la vita della società, si riteneva, ante riforma, che l'introduzione di clausole limitative della circolazione delle azioni dovesse avvenire all'unanimità, in quanto incidente su diritti individuali dei soci, indisponibili dalla sola maggioranza dei consensi; la soppressione di tali limitazioni poteva avvenire, di converso, a maggioranza, andando la rimozione a ripristinare la libera trasferibilità del titolo prevista dalla legge.

La questione appare risolta con l'introduzione dell'art. 2437 comma 2 lett. b) c.c. che, espressamente, prevede l'introduzione e la soppressione dei vincoli alla circolazione delle azioni mediante modifica dello statuto ad opera dell'assemblea straordinaria a maggioranza, con il correttivo del recesso per i dissenzienti.

In ossequio alla possibilità offerta dalla legge di prevedere diverse categorie di azioni, la dottrina ritiene legittima la previsione di vincoli alla circolazione delle azioni applicabili, non già a tutte le azioni, ma solo ad alcune di esse. In tal caso, il diverso regime circolatorio darà luogo, nella s.p.a., a diverse categorie di azioni ex art. 2348 c.c.; nella s.r.l., invece, a diritti particolari dei soci ex art. 2468 c.c. (Consiglio Notarile di Milano, Massima n. 92 del 18/05/2007).

Il divieto di trasferimento delle azioni

Posto il principio della libera trasferibilità delle azioni, l'art. 2355-bis c.c. consente ai soci di stabilire limiti alla suddetta trasferibilità, nonché l'intrasferibilità stessa per un periodo massimo di cinque anni dalla costituzione della società o dall'introduzione del divieto di trasferimento stresso.

In particolare, occorre ricordare come il divieto di trasferibilità nel quinquennio di cui al primo comma dell'art. 2355-bis c.c. costituisca una novità della riforma, essendo, prima di tale momento, ritenute nulle, nelle società per azioni, le clausole d'intrasferibilità delle partecipazioni.

Al contrario delle società a responsabilità limitata, in cui sono ammissibili clausole d'intrasferibilità assoluta della partecipazione senza alcun limite temporale e con il solo correttivo del diritto di recesso del socio ex art. 2469 comma 2 c.c., nelle s.p.a. il socio non potrà recedere per tutto il periodo di vigenza del divieto di trasferimento delle azioni, essendogli ciò consentito solo in fase di introduzione a maggioranza del divieto stesso.

L'intrasferibilità dell'azione potrà riguardare ogni tipo di trasferimento: inter vivos, mortis causa, a titolo oneroso o gratuito.

Nella prassi applicativa si riconducono a tale fattispecie, e, quindi, sono ritenute ammissibili, ove contenute nel limite temporale del quinquennio, tutte quelle clausole limitative del trasferimento della partecipazione non comportanti intrasferibilità assoluta e da considerarsi, quindi, un minus rispetto al divieto assoluto di alienazione previsto dalla norma, le quali, ove introdotte nello statuto a maggioranza, consentiranno ai soci che non hanno concorso all'approvazione della relativa deliberazione di recedere ex art. 2437, comma 2, lett. b). Al di là di tale diritto di recesso “a monte”, tali clausole, ove non riconducibili a quelle di cui al co. 2 della norma in commento, non richiederanno, per la loro efficacia, della previsione di alcun correttivo, essendo i correttivi previsti dal comma 2 dell'art. 2355-bis c.c. applicabili alla sola ipotesi del mero gradimento.

Il limite temporale decorre, come specificato, dalla costituzione della società o dalla modifica statutaria in caso di divieto introdotto “durante societate”. L'imperatività del termine quinquennale impone, secondo un'interpretazione, di ritenere nulle tutte quelle clausole contemplanti un termine maggiore ovvero, secondo altra impostazione, l'automatica riduzione del divieto di trasferimento al temine quinquennale previsto dalla legge (art. 1419 comma 2 c.c.).

Sarebbero, pertanto, illegittime tutte quelle clausole statutarie vietanti ai soci la cessione delle azioni per un periodo superiore ai cinque anni o per un periodo indeterminato, a meno che non attribuiscano al socio la possibilità di liquidare la sua partecipazione (ad esempio, mediante l'acquisto da parte di altri soci o di un terzo indicato dalla società) ricavandone un valore pari almeno a quello previsto per la liquidazione delle azioni in caso di recesso (Consiglio Notarile di Firenze, Orientamento n. 13/2010, Clausole limitative della circolazione delle azioni).

Si discute circa la rinnovabilità del termine di cinque anni. Ove il rinnovo sia contenuto nel limite del quinquennio, esso dovrà ritenersi ammissibile; in caso di rinnovo per un periodo superiore, la dottrina lo ritiene ammissibile solo consentendo al socio il diritto al disinvestimento con le modalità alternative previste dall'art. 2355-bis comma 2 c.c., non essendo a tal fine sufficiente il diritto di recesso previsto in favore del socio in sede d'introduzione del rinnovo stesso (art. 2437 comma 2 lett. b).

Le clausole di mero gradimento

Del pari ammissibili sono quelle clausole statutarie che subordinano il trasferimento delle azioni al mero gradimento degli organi sociali o di altri soci – non di terzi, come invece consentito nelle s.r.l. – con il correttivo, ai fini della loro efficacia, del trasferimento a carico della società o degli altri soci ovvero del recesso del socio titolare dell'azione gravata. In tal caso, il recesso spetterà al socio sia in astratto che in concreto, ossia, sia in sede di introduzione a maggioranza della clausola (art. 2437 comma 2 lett. b), che in caso di diniego in concreto del gradimento richiesto per il trasferimento della partecipazione. Il recesso contemplato dall'art. 2355-bis comma 2 c.c. potrà, quindi, essere esercitato dal socio, non solo in sede d'introduzione della clausola di gradimento, ma anche in caso di negazione del placet richiesto.

Per evitare che il socio resti “prigioniero del suo titolo” (Relazione 4.3.6), la norma prevede, come detto, tre correttivi, consistenti nel trasferimento in favore della società o degli altri soci ovvero del recesso del socio, i quali potranno, secondo la dottrina, essere previsti anche cumulativamente nello statuto sociale.

Tanto il riacquisto che il recesso andranno effettuati con le modalità previste dall' art. 2437-ter c.c., che fissa i criteri di determinazione del valore delle azioni.

La clausola di mero gradimento dovrà considerarsi inefficace ove preveda - in luogo del recesso - l'obbligo del riacquisto a carico della società, nel caso in cui la società non possa più acquistare azioni proprie per superamento dei limiti di cui all' art. 2357 c.c. Ugualmente inefficace sarà la clausola in ipotesi di riacquisto non adempiuto, con il conseguente gradimento implicito dell'onorato.

I correttivi citati dal secondo comma della norma concernono le sole clausole di mero gradimento, che consentono al soggetto onorato di negare, a sua assoluta discrezione, la trasferibilità del titolo, senza fornire motivazione alcuna e senza che vi sia un obbligo di indicare un acquirente "gradito". Ne consegue che, in caso di previsione statutaria dell'intrasferibilità assoluta dell'azione nel quinquennio, non potrà ritenersi applicabile il correttivo del recesso, se non “a monte”, ossia nel momento dell'induzione a maggioranza della clausola in parola (art. 2437 comma 2 lett. b), in quanto una clausola che prevede l'intrasferibilità assoluta delle azioni risulta diversa da quella che ne subordina il trasferimento al mero gradimento della società o dei soci.

Diverse dalle clausole di mero gradimento sono quelle clausole che sottopongono il gradimento della società o dei soci a determinati limiti o condizioni, nelle quali una motivazione al diniego appare necessaria e per le quali, dalla norma, non è previsto alcun correttivo, nemmeno sotto forma di diritto di recesso del socio “paralizzato” dall'uscita dalla società. Pertanto, in caso di clausola di gradimento “non mero”, ossia di gradimento sottoposto a determinati limiti o condizioni, il mancato “placet” non comporterà la nascita di un diritto di recesso, attribuito al socio solo in sede di introduzione a maggioranza della clausola in parola.

Si ci chiede se, al di là delle ipotesi espressamente previste dalla norma, possano rinvenirsi altre ipotesi non contemplate di recesso.

Come accennato, all'interno del limite temporale dei cinque anni dalla costituzione della società o dell'introduzione della clausola, potranno ritenersi valide ed efficaci tutte le clausole limitative del trasferimento, in quanto riconducibili all'alveo di ammissibilità del co. 1 dell'art. 2355-bis c.c., senza necessità di previsione di alcun correttivo. Nel limite del quinquennio dovrà, quindi, ritenersi legittima qualsiasi forma di limitazione alla circolazione delle azioni, senza previsione in favore del socio della possibilità di liquidare la propria quota o di farlo ad un valore inferiore a quello risultante dall'applicazione dei criteri di cui all'art. 2437 ter c.c. (Consiglio Notarile di Firenze 13/2010).

Oltre tale limite temporale, parte della dottrina ritiene legittime clausole limitative o d'intrasferibilità della partecipazione che assicurino al socio la possibilità di realizzare per esse un valore pari a quello derivante dall'applicazione dei criteri di cui all'art. 2437-ter in tema di recesso. Saranno, pertanto, da considerarsi illegittime quelle clausole che vietano ai soci la cessione delle azioni per un periodo superiore ai cinque anni o per un periodo indeterminato, a meno che non attribuiscano al socio stesso la possibilità di liquidare la sua partecipazione (ad esempio, mediante l'acquisto da parte di altri soci o di un terzo indicato dalla società) ricavandone un valore almeno pari a quello previsto per la liquidazione delle azioni in caso di recesso.

Altra dottrina consiglia, invece, di distinguere in base all'effetto concretamente perseguito dalla clausola. Ove esso consista di fatto nell'impedire l'exit del socio dalla società oltre il quinquennio, non essendo possibile inserire i correttivi di cui al secondo comma dell'art. 2355-bis c.c. - ritenuti da alcuni non estensivamente applicabili - la clausola non potrà ritenersi efficace. Ove, invece, la dismissione dell'azione sia solo subordinata a peculiari limiti o condizioni, la clausola dovrà ritenersi efficace, essendo stato consentito al socio di recedere in sede di sua introduzione a maggioranza.

Sul punto, è recentemente intervenuto il Consiglio Notarile di Milano (Massima 5.7.2022, n. 201) in relazione alle clausole statutarie di s.p.a. e s.r.l. che vietano l'alienazione parziale delle azioni o della partecipazione di cui è titolare ciascun socio. Con tali clausole si intendono sia quelle che ammettono l'alienazione contestuale delle azioni o della partecipazione ad una pluralità di acquirenti (al fine di evitare il semplice disinvestimento parziale del socio alienante), sia quelle che richiedono l'integrale alienazione ad un unico soggetto acquirente (all'evidente scopo di evitare un eccessivo frazionamento delle partecipazioni sociali). La Massima n. 201 ritiene legittime le clausole d'intrasferibilità parziale oltre il quinquennio, limitando l'applicazione del limite temporale esclusivamente all'ipotesi di intrasferibilità assoluta. Nell'ipotesi in cui tali clausole vengano introdotte mediante una modifica statutaria deliberata nel corso della vita della società, spetterà il diritto di recesso al socio di s.p.a. che non abbia concorso alla deliberazione ai sensi dell' art. 2437, comma 2, lett. b). Con una massima collegata a quella menzionata, il medesimo Consiglio Notarile di Milano ha ritenuto legittime le clausole statutarie di “tetto minimo” di azioni o quote (Massima 5.7.2022, n. 202) in caso di trasferimento, ponendosi come limite alla circolazione delle azioni o quote (se l'acquirente non consegue il possesso minimo o il venditore lo perde, il trasferimento è inefficace nei confronti della società).

Differenti dalle clausole di mero gradimento sono quelle di prelazione, le quali attribuiscono ai soci il diritto ad essere preferiti, a parità di condizioni, nell'acquisto della partecipazione, e quelle di gradimento alla francese, in cui il diniego, seppur non motivato, deve accompagnarsi all'indicazione di un cessionario gradito alla società e disponibile all'acquisto. Queste ultime clausole conseguono il medesimo risultato pratico del correttivo previsto dal comma 2 dell'art. 2355-bis c.c., con la differenza che con esse non sono la società o i soci ad acquistare la partecipazione, ma viene indicato un soggetto gradito disposto all'acquisto.

I limiti al trasferimento mortis causa dell'azione

Ultima ipotesi normativamente prevista è quella della concreta intrasferibilità mortis causa della partecipazione azionaria.

Non si tratta di un'ipotesi di astratta intrasferibilità a causa di morte che, in quanto tale, ricadrebbe nell'alveo applicativo dell'art. 2355-bis comma 1 c.c., quanto della previsione di limiti e condizioni ostacolanti, in concreto, il trasferimento, per la cui efficacia sarà necessaria l'introduzione dei correttivi previsti dal secondo comma della norma.

I correttivi saranno necessari, pertanto, non solo in caso di mero gradimento, ma per tutte quelle clausole statutarie che subordinano a particolari condizioni il trasferimento mortis causa delle azioni (ad es. clausole di gradimento non mero, di riscatto, di prelazione, di accrescimento).

Poichè, in linea di principio, diversamente dalle partecipazioni di società personali, le azioni e le quote di società a responsabilità limitata, in quanto beni mobili non comportati responsabilità illimitata, si trasferiscono, per causa di morte, in favore degli eredi del socio defunto; la mancata introduzione dei correttivi richiesti dalla norma, comporterà l'inefficacia della clausola limitativa del trasferimento mortis causa, con la conseguenza che all'apertura della successione gli eredi, oltre ad acquistare la titolarità dell'azione, avranno diritto ad essere iscritti nel libro soci e ad esercitare i diritti sociali nei confronti della società.

Se, invece, è correttamente previsto l'obbligo di acquisto, la clausola limitativa sarà efficace e, quindi, alla morte del socio, gli eredi acquisteranno la titolarità della partecipazione, sorgendo in capo alla società o ai soci superstiti un diritto di opzione all'acquisto dell'azione al valore determinato secondo i criteri del recesso.

In caso di condizioni e limiti statutariamente previsti per il trasferimento mortis causa dell'azione, la norma parla “impropriamente” di recesso, in quanto l'erede o il legatario del socio defunto, acquistando, come detto, la sola titolarità della partecipazione, senza divenire socio nei confronti della società, non potrebbe tecnicamente da essa recedere. Si ritiene, pertanto, in dottrina che il richiamo normativo all'istituto del recesso sia finalizzato a richiamare la relativa disciplina in tema di valutazione della quota da liquidarsi ai successori del defunto (art. 2437-ter c.c.).

Il trasferimento in violazione delle limitazioni

Premesso che per l'opponibilità ai terzi dei vincoli e limiti alla circolazione delle azioni non è sufficiente l'iscrizione nel registro delle imprese dello statuto da cui detti limiti risultino, ma occorre anche che tali limitazioni risultino dal titolo, che, ai fini di tale apponibilità, dovrà essere nominativo o non emesso, poiché le azioni al portatore, in ragione della loro struttura, sono ontologicamente dirette al rapido trasferimento della partecipazione.

Occorre a questo punto interrogarsi circa la sorte del trasferimento di azioni in violazione dei limiti alla circolazione statutariamente previsti.

Parte della dottrina ritiene che, in tal caso, il trasferimento, nonostante risulti efficace tra le parti, resti inopponibile alla società (c.d. efficacia reale), con conseguente impossibilità per il cessionario di ottenere la propria legittimazione sociale. La riconosciuta scissione tra trasferimento e legittimazione consente, infatti, di trasferire la sola proprietà del titolo inter partes, senza legittimazione all'esercizio del diritto in esso incorporato nei confronti della società.

Altra dottrina ritiene, invece, che i trasferimenti che non abbiano ricevuto il gradimento degli organi sociali o degli altri soci, siano da considerarsi nulli, in quanto il consenso degli organi sociali designati o degli altri soci, pur avendo natura pattizia, viene dalla legge assurto a condicio iuris per l'operatività giuridica del contratto, non solo di fronte alla società, ma anche di fronte agli stessi contraenti, posta inoltre la circostanza che i limiti alla circolazione devono risultare dai titoli stessi.

Guida all'approfondimento

A. Dentamaro, “Divieto di alienazione e altre preclusioni al trasferimento di azioni ex art. 2355 bis c.c. tra limite quinquennale e recesso”, in Notariato 2/2022;

G. Guizzi, La nuova disciplina dei limiti alla circolazione delle azioni, in Nuovo diritto societario, Milano, 2003;

G. G. Salvati, I limiti statutari alla circolazione delle azioni, Padova, 2011.

Sommario