Da quanto sinteticamente precede, pare emergere una nitida ricostruzione dei propedeutici doveri datoriali di ricollocazione e che, pur continuando a incontrare dissensi (con un paragrafo rubricato “Prospettive di dissenso”, F. Manfredi, Scatta la reintegrazione anche in caso di violazione dell'obbligo di repêchage, in Guida lav., 2022, L), sembra oggi rappresentare un'ineludibile presa di posizione - ai massimi livelli - da parte della giurisprudenza in tema di repêchage.
Dunque, nell'ottica dell'operatore del diritto, si mostra utile una riassunzione dello “stato dell'arte”, muovendo proprio dalla consapevolezza del suo “lungo cammino”, il quale, in esito, da una genesi, potremmo dire, per “gemmazione” giurisprudenziale, lo ha assurto al rango di elemento costitutivo - e autonomo - della fattispecie ex art. 3 L. n. 604 del 15 luglio 1966 cit.
Nell'intento, deve innanzitutto convenirsi sul fatto che la condotta datoriale “preventiva” al licenziamento, deve oggi essere governata dal principio di massima cautela posto che, fermi i «limiti rappresentati dalla ragionevolezza dell'operazione che non deve comportare rilevanti modifiche organizzative ovvero comportanti ampliamenti di organico o innovazioni strutturali» (ex multis, Cass. 3 dicembre 2019, n. 31521), la complessità dell'esatto adempimento del “ripescaggio”, ancorché “voluto”, risulta tutt'altro che trascurabile.
Si pensi, per esempio, all'ampiezza territoriale “assoluta” che deve condurre la ricerca di posizioni “utili” (anche di recente, su Aziende operanti in appalti multilocalizzati su tutto il territorio nazionale, Cass. 11 novembre 2022 cit.) ovvero sull'incidenza, nella valutazione giudiziale circa la sussistenza delle medesime, di eventuali assunzioni professionalmente “compatibili” procedute post licenziamento (di recente, sulla verifica dei nuovi avviamenti, per un congruo periodo di tempo successivo al recesso, di lavoratori addetti a mansioni equivalenti, per il tipo di professionalità richiesta, a quelle espletate dal dipendente estromesso, Cass. 4 marzo 2021, n. 6085).
O ancora, assodato che il datore di lavoro non può cavarsela, a ogni modo, con una “singola” e unilaterale proposta di reimpiego (sul punto, anche Cass. 18 gennaio 2022, n. 1386), deve altresì rilevarsi l'influenza impressa dalle modifiche alla disciplina delle mansioni, operata dall'art. 3 D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, la quale, superando il concetto di equivalenza “sostanziale”, per approdare a quello di corrispondenza “formale” ossia per rinvio alle declaratorie definite dall'autonomia contrattuale collettiva, ha comportato, con tutta evidenza, un «aggravamento dell'onere della prova in tema di repechage» (Trib. Torino 13 novembre 2019, n. 1676).
Invero, secondo parte della giurisprudenza di merito, per un verso, «il datore di lavoro dovrà allegare e provare di non poter adibire il lavoratore a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte», per altro, la “ricerca” e i conseguenti assolvimenti probatori dovranno forzatamente concernere, senza dunque necessità di consenso del lavoratore, anche le «mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nelle medesima categoria» (Trib. Cosenza 23 luglio 2021, n. 1560).
Una finale riflessione deve in ultima analisi rivolgersi al frastagliato sistema di tutele a protezione dei licenziamenti contra ius e, segnatamente, all'ambito applicativo della reintegrazione, la quale, attualmente, in virtù dell'art. 18, comma 7, l. 20 maggio 1970 cit., sembra essere residualmente circoscritta ai soggetti assunti, ante 7 marzo 2015, da aziende c.d. “over 15”.
Tuttavia, a ben vedere, la stabilità di un siffatto quadro normativo sembra sempre più in discussione, con evidenti potenzialità di un futuro “allargamento” del problema.
Infatti, da una parte, la garanzia assicurata ai dipendenti delle aziende “sotto soglia” di cui all'art. 8 L. n. 604 del 15 luglio 1966 cit., ma anche all'art. 9 D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, appare oggi sempre più precaria, dopo l'esplicito monito di inadeguatezza – mediante lo strumento della “doppia pronuncia” – sancito, di recente, dalla Corte Costituzionale (v. C. Cost. 22 luglio 2022, n. 183); dall'altra, anche per gli assunti con decorrenza 7 marzo 2015 e per i quali, in caso di recesso per GMO, l'art. 3 D.lgs. 4 marzo 2015 cit. dispone un rimedio meramente indennitario, potrebbero invero realizzarsi radicali ribaltamenti di fronte, considerato che, evidenti - almeno a parere dello scrivente - profili d'incostituzionalità della norma, peraltro ben evincibili solo dall'osservare che «qualora sia insussistente il fatto materiale posto alla base del licenziamento, che quest'ultimo sia qualificato arbitrariamente dal datore di lavoro come per motivo soggettivo o oggettivo poco importa: non può esservi, nel nostro ordinamento giuridico, una diversificazione delle tutele sanzionatorie che dipenda esclusivamente dalla volontà datoriale (che “etichetta” un licenziamento per motivo soggettivo o oggettivo a suo piacimento, poiché sempre di “insussistenza” del fatto si parla)», sono già stati formalmente mossi e processualmente incardinati (estratto della formulazione di eccezione d'incostituzionalità sollevata nei ricorsi promossi in Trib. Roma, RG 21803/2022).