La risposta al quesito di diritto prospettato dal ricorrente si rivela in linea con l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'istituto delle pene accessorie, vieppiù di quelle di durata fissa.
La Corte costituzionale, con la sentenza 5 dicembre 2018, n. 222, e le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza 28 febbraio 2019 (dep. 3 luglio 2019), n. 28910, affermata la sostanziale equiparazione delle pene accessorie alle pene principali, in ragione della loro capacità di «incidere in senso fortemente limitativo su una vasta gamma di diritti fondamentali del condannato», hanno implicitamente sottoscritto la tesi, sostenuta in dottrina (cfr. M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, Art. 1-84, Giuffrè 1995, pagg. 200 e 233), della necessità di una lettura tassativizzante, ispirata al principio di legalità delle pene ex art. 25, comma 2, Cost., delle norme che le prevedono.
Le pene accessorie, in particolare quella della interdizione perpetua dai pubblici uffici, sono, infatti, caratterizzate dalla natura afflittiva tipica della sanzione penale e conseguono di diritto alla condanna alla pena principale come effetto automatico di essa, di modo che, anche per superare i dubbi di legittimità costituzionale avanzabili in riferimento al principio della funzione rieducativa della pena di cui all'art. 27, comma 3, Cost., è preclusa la dilatazione in chiave ermeneutica degli effetti derivanti dalla loro applicazione: dunque, anche della privazione del condannato delle provvidenze economiche erogate dallo Stato o da enti pubblici.
La sentenza annotata, laddove ha posto l'accento sulla natura ibrida del reddito di cittadinanza, «quale misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all'esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all'informazione, all'istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all'inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro» (art. 1, comma 1, d.l. n. 4/2019), per escludere, anche sotto questo profilo, la possibilità di equiparazione del reddito di cittadinanza agli stipendi, pensioni ed assegni di cui all'art. 28, comma 2, n. 5 c.p., ha mostrato consapevolezza e rispetto dei dicta della Corte costituzionale in materia, che, con le sentenze 13 gennaio 1966 n. 3 e 19 luglio 1968 n. 113, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 28, comma 2, n. 5 c.p. limitatamente alla parte in cui i diritti in esso previsti traggono titolo da un rapporto di lavoro.
Al riguardo, il giudice delle leggi ha evidenziato che le provvidenze economiche connesse alla prestazione di attività lavorativa sono oggetto di particolare protezione nel nostro sistema costituzionale, posto che, come evincibile dall'art. 36 Cost., il diritto al lavoro e quello al conseguimento di un trattamento retributivo o pensionistico adeguato, è funzionale ad «assicurare al lavoratore e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa»; donde, ha concluso, non può dirsi compatibile con i principi costituzionali «collegare indiscriminatamente (come fa l'art. 28, comma 2, n. 5, c.p., integrato dall'art. 29 c.p.), per il personale degli enti pubblici e i loro aventi causa, la perdita di tale diritto [alle provvidenze economiche di cui alla norma oggetto del giudizio di costituzionalità, ndr.], al fatto che il titolare di esso abbia riportato la condanna a una certa pena detentiva».