Superlavoro e onere della prova del danno derivante dal mancato adempimento dell'obbligo di garanzia datoriale

Domenico Tambasco
19 Gennaio 2023

L'ordinanza in commento, nel cassare con rinvio precedenti sentenze di merito, enuncia una serie di principi generali, in materia di superlavoro, di particolare rilievo.
Il caso

Un dipendente del Ministero di Giustizia ricorreva al Tribunale di Roma lamentando di essere stato esposto, a far data dal 1981, a ritmi di lavoro insostenibili mancando qualsiasi pianificazione e distribuzione dei carichi e dovendo svolgere, in ambiente disagiato, mansioni sia inferiori che superiori. Tali ritmi lavorativi avevano a tal punto superato la soglia della “normale tollerabilità”, da provocare sintomi depressivi nel ricorrente il quale, nel gennaio 2001, pativa addirittura un infarto.

Il lavoratore agiva quindi nei confronti del Ministero per il risarcimento del danno biologico subito per violazione dell'art. 2087 c.c. e delle relative disposizioni del d.lgs. n. 626/1994, oltre ai danni alla professionalità, insistendo in subordine per il riconoscimento dell'ascrivibilità della patologia cardio-vascolare a causa di servizio, con accertamento del diritto al pagamento del c.d. equo indennizzo.

Nel merito tanto il Tribunale di Roma quanto la Corte d'Appello, riconosciuto il diritto all'equo indennizzo, rigettavano la domanda risarcitoria del dipendente verso il Ministero di Giustizia, sulla base del fatto che il ricorrente non avesse dedotto la violazione di una specifica norma “nominata o innominata”, contestando altresì la mancata produzione di un documento attestante il numero dei lavoratori al fine di poter valutare in modo oggettivo l'eventuale sottodimensionamento dell'organico.

La Corte d'Appello di Roma concludeva rilevando la necessità da parte del dipendente di provare l'elemento soggettivo della colpa, non potendosi configurare nella fattispecie dell'art. 2043 c.c. una responsabilità di tipo oggettivo.

L'ordinanza in commento, nel cassare con rinvio la sentenza di merito, enuncia una serie di principi generali, in materia di superlavoro, di particolare rilievo.

I principi: la natura del superlavoro

Si parte dall'errore dei giudici di merito nell'applicazione della fattispecie di responsabilità invocata dal ricorrente il quale, nell'azione svolta in giudizio, aveva in realtà attivato la responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. e non quella aquiliana derivando, conseguentemente, un assetto totalmente diverso degli oneri probatori e di allegazione.

Pur ribadendo il consolidato principio secondo cui “Il lavoratore che agisca ai sensi dell'art. 2087 c.c. ha l'onere di provare l'esistenza del danno subito, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro”(ex multis, Cass. 15 aprile 2014, n. 8804; Cass. 8 maggio 2014, n. 9945), la Corte di Cassazione adotta un criterio “elastico” affermando che “tale assetto va peraltro calibrato rispetto ai casi, come quello di specie riguardante il verificarsi di un c.d. superlavoro ed in cui la nocività addotta consiste nello svolgimento stesso della prestazione”.

Di particolare pregio è l'analisi dei giudici di legittimità sulla natura del “superlavoro”, fattispecie giurisprudenziale introdotta nel diritto vivente dalla nota pronuncia della Cassazione, 1 settembre 1997, n. 8267 (si rimanda a Tambasco, Il danno da superlavoro e da usura psico-fisica nella giurisprudenza, in questa Rivista, 9 giugno 2022).

Come accennato, il fulcro è individuato nella modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, che consente di distinguere:

a) lo svolgimento di attività lavorativa consentita dalla legge, eseguita secondo le modalità ordinarie, che abbia tuttavia prodotto un pregiudizio alla salute coperto in via indennitaria dall'assicurazione pubblica (cd “equo indennizzo”);

b) lo svolgimento di un'attività lavorativa in sé legittima ma “in concreto svolta secondo modalità devianti da quelle ordinariamente proprie di essa”, da cui sia eziologicamente derivato un danno psico-fisico, tutelato dalla responsabilità risarcitoria del datore di lavoro (responsabilità contrattuale).

In modo ancor più pregnante, l'ordinanza specifica come il proprium del “superlavoro” sia l'azione non di fattori “esogeni” aventi fonte nell'ambiente lavorativo, bensì di fattori “endogeni” alla prestazione stessa, consistenti nella violazione da parte del datore di lavoro dell'obbligo di garantire che lo svolgimento della prestazione lavorativa non sia fonte di pregiudizi indebiti, ovvero eccedenti la normale usura psico-fisica connaturata all'esecuzione di quella attività.

Come si articola, concretamente, l'obbligo di garanzia datoriale?

In modo duplice: sia con “componenti positive” (cd. obblighi di fare), dovendo il datore positivamente intervenire con forme di prevenzione o impedimento di situazioni dannose, sia attraverso “componenti lato sensu negative” (cd obblighi di non fare), che si sostanziano nell'obbligo per il datore di evitare la richiesta di prestazioni lavorative con modalità improprie.

Ecco il punto in cui l'elegante elaborazione teorica si salda all'effettività della tutela giurisdizionale: nello specifico ambito del “superlavoro”, significa affermare non solo l'obbligo di astensione dal richiedere lo svolgimento della prestazione lavorativa “oltre la normale tollerabilità”, ma anche il dovere positivo di impedire che il lavoratore –anche spontaneamente- esegua il lavoro con modalità nocive per la propria salute.

Si tratta, in quest'ultimo caso, di un'importante dichiarazione contro il principio volenti non fit iniuria, ovvero rispetto a quell'orientamento giurisprudenziale chetende ad escludere la responsabilità datoriale nel caso in cui il superlavoro dipenda dalla spontanea assunzione, da parte del lavoratore, di ritmi di lavoro eccessivi (cfr. Cass., 2 settembre 2015, n. 17438, caso di dipendente il cui superlavoro era stato frutto della spontanea assunzione di oneri e carichi di competenza altrui, integrando in questo modo l'interruzione del nesso eziologico (1).

Appare pertanto coerente con questa impostazione teorica il filone giurisprudenziale che, ai fini della sussistenza della responsabilità ex art. 2087 c.c., ha considerato irrilevante l'assenza di doglianze mosse dal lavoratore, così come l'ignoranza delle particolari condizioni in cui erano state prestate le mansioni affidate ai dipendenti, che, salvo prova contraria, si devono presumere come conosciute dal datore di lavoro in quanto espressione ed attuazione concreta dell'assetto organizzativo adottato dall'imprenditore (ex multis, Cass., 27 gennaio 2022, n. 2403, cit.; Cass., 8 giugno 2017, n. 14313, cit.; Cass., 8 maggio 2014, n. 9945, cit.).

Conseguentemente anche il fatto che il lavoratore, per la sua posizione apicale, avesse la possibilità di modulare da un punto di vista organizzativo la propria prestazione, anche in relazione ai carichi di lavoro, alle modalità di fruizione delle ferie e dei riposi, non costituisce comunque fattore di esclusione della responsabilità datoriale, residuando pur sempre in capo al datore di lavoro –come abbiamo visto- un obbligo positivo di vigilanza in ordine al rispetto delle misure atipiche di sicurezza ex art. 2087 c.c. (Cass., 27 gennaio 2022, n. 2403, cit., caso relativo al superlavoro di un dirigente, con nota di Capurro, Recenti arresti di giurisprudenza sul dialogo tra libertà e diritti, nel rapporto di lavoro dirigenziale, in Labor Rivista, 4 giugno 2022).

I principi: gli oneri probatori

Le ricadute sul piano probatorio sono evidenti: fornita dal danneggiato la prova dei tre requisiti costituitivi (nocività della prestazione di lavoro, danno subito e nesso causale, ex multis, Cass. 15 aprile 2014, n. 8804; Cass. 8 maggio 2014, n. 9945, cit.; più in generale, Cass., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533), grava sul datore di lavoro l'onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (ex plurimis, Cass. 27 gennaio 2022, n. 2403; Cass. 5 febbraio 2000, n. 1307).

In particolare, se da un lato il lavoratore non dovrà dimostrare la colpa del datore di lavoro una volta provato l'inadempimento datoriale ex art. 1218 c.c. (cfr. Cass., 5 febbraio 2000, n. 1307), dall'altro il datore potrà invocare l'esonero di responsabilità solo nel caso in cui provi che il fatto lesivo presenti i caratteri dell'abnormità, dell'inopinabilità e dell'esorbitanza in relazione al procedimento lavorativo e alle direttive impartite, tanto da poter affermare l'interruzione del nesso causale per opera di una condotta del lavoratore talmente imprevedibile da rappresentare essa stessa causa esclusiva dell'evento ovvero la presenza di un rischio elettivo generato da una attività non avente rapporto con lo svolgimento del lavoro o esorbitante dai limiti (ex multis, Cass., 2 gennaio 2002, n. 5; Cass., 7 giugno 2007, n. 13309; Cass. 17 febbraio 2009, n. 3786; Cass. 4 dicembre 2013, n. 27127).

In concreto, pertanto, il lavoratore che lamenti di aver svolto la prestazione lavorativa oltre la normale tollerabilità, per l'eccessiva durata o per l'eccessiva onerosità dei ritmi di lavoro, è tenuto ad allegare rigorosamente l'inesatto adempimento altrui all'obbligo di sicurezza, evidenziando i relativi fattori di rischio (es. modalità qualitative improprie, per ritmi o quantità di produzione insostenibili, o secondo misure temporali eccedenti i limiti previsti dalla normativa o comunque in misura irragionevole) (2), spettando invece al datore di lavoro provare che i ritmi di lavoro erano invece congrui, normali e tollerabili, o che ricorreva un'altra causa che rendeva l'accaduto a sé non imputabile.

Analogamente, in tema di dequalificazione professionale, una volta allegata dal lavoratore la dequalificazione o l'inattività lavorativa, incombe sul datore di lavoro dimostrare il contrario, ovvero di aver esattamente adempiuto l'obbligazione di impegnare il lavoratore-creditore in una prestazione piena, assidua e rispondente alle mansioni contrattuali, in linea con i precetti dell'art. 2103 c.c. o, alternativamente, di provare che il demansionamento è giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali e/o disciplinari, o dall'impossibilità derivante da causa non imputabile (conf. ex multis, Cass., 26 novembre 2020, n. 27078; Cass., 3 luglio 2018, n. 17635; Cass., 19 ottobre 2018, n. 26477; Cass., 18 gennaio 2018, n. 1169; Cass., 3 marzo 2016, n. 4211; Cass., 26 gennaio 2015, n. 1327; Cass., 6 marzo 2006, n. 4766).

Per quanto concerne, poi, la prova del nesso eziologico tra infarto ed attività lavorativa, questa deve considerarsi pacifica ed attestata dal riconoscimento dell'equo indennizzo per causa di servizio. E' infatti evidente che, allorquando il danno derivi dalla denuncia di un "superlavoro", il nesso causale riconosciuto per la causa di servizio non può che essere identico a quello per l'azione di danno, allorché le due pretese riguardino la medesima attività che risulti così svolta (cfr. Cass., civ., sez. lav., 25 luglio 2022, n. 23187).

Il contesto sistematico: lo stress lavoro-correlato

Il contesto sistematico: lo stress lavoro-correlato

C'è da aggiungere che un ulteriore ed importante aspetto della vicenda in esame, vale a dire il fatto che il dipendente nel corso degli anni fosse stato ripetutamente adibito a mansioni sia inferiori che superiori al proprio livello di inquadramento, sembra messo “ai margini” della motivazione, quasi si trattasse di una stonatura rispetto all'evidente contesto di superlavoro delineato dai giudici di legittimità.

L'adozione di una diversa prospettiva di analisi, tuttavia, avrebbe consentito di ricondurre ad unità l'intero quadro della vicenda, inscrivendola in una cornice sistematica più completa e coerente.

Utilizzando infatti il modello prospettato in un recente contributo (Rosiello, Tambasco, Il danno da stress lavorativo: una categoria polifunzionale all'orizzonte?, in questa Rivista, 8 novembre 2022), il caso in oggetto evidenzia in modo manifesto i caratteri dello stress lavoro-correlato, nella forma mista della discrepanza qualitativa e quantitativa (cfr. Trib. Bergamo, sez. lav., 29 novembre 2012, n. 1099; Trib. Firenze, sez. lav., 13 luglio 2022).

Più precisamente, in questo caso viene in rilievo la discrepanza tra l'organizzazione lavorativa e gli aspetti sia quantitativi della prestazione di lavoro (durata, ritmi lavorativi) sia qualitativi (posizione all'interno dell'organizzazione lavorativa, mutamento di mansioni): al centro dell'inadempimento datoriale, dunque, si pone la carenza nell'organizzazione dei fattori produttivi. Organizzazione che, nel diritto vivente, se finora ha trovato la sua fonte di disciplina nell'interpretazione “evolutiva” dell'art. 2087 c.c. e del d.P.R. 1124/1965, oggi anche attraverso l'innovativa interpretazione della giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. lav., 15 novembre 2022, n. 33639), affonda le sue radici nel più solido terreno dell'art. 28 primo comma, d.lgs. n. 81/2008 (e del correlativo Accordo Quadro Europeo dell'8 giugno 2004) (3).

Note

(1) CAPONETTI, Superlavoro e dovere di sicurezza del lavoratore verso se stesso: un caso estremo che vale l'applicazione del brocardo civilistico volenti non fit iniuria, cit., che richiama il necessario contemperamento tra l'obbligo generale di sicurezza ex art. 2087 c.c. gravante sul datore di lavoro e l'altrettanto cogente dovere di collaborazione e di autoresponsabilità del singolo lavoratore ex art. 20 d.lgs. 81/2008.

(2) Non è necessario per il lavoratore individuare la specifica misura di prevenzione violata, bastando l'allegazione della semplice situazione di fatto nociva. Infatti “l'inadempimento, il cui onere di allegazione cade a carico del lavoratore, consiste nella presenza nell'ambiente di lavoro di un fattore morbigeno o di un elemento di pericolo per la integrità fisica del lavoratore, che in sé costituisce violazione dell'obbligo di protezione di cui all'art. 2087 c.c. Tale allegazione ben può risultare, come già evidenziato da Cass., sez. lav., 25 ottobre 2021 n. 29909, dalla esposizione della concreta situazione di fatto nella quale il lavoratore si trova a rendere la prestazione”, cfr. Cass., sez. lav., 25 luglio 2022, n. 23187.

(3) In particolare, l'art. 3 del citato Accordo Quadro europeo definisce lo stress comeuna condizione, accompagnata da sofferenze o disfunzioni fisiche, psichiche, psicologiche o sociali, che scaturisce dalla sensazione individuale di non essere in grado di rispondere alle richieste o di non essere all'altezza delle aspettative”, potendo “portare a cambiamenti nel comportamento e ad una riduzione dell'efficienza nel lavoro” ed essendo causato “da fattori diversi, come ad esempio il contenuto del lavoro, la sua organizzazione, l'ambiente, la scarsa comunicazione, etc.”