La pronuncia in commento aggiunge un altro capitolo alla nutrita serie delle decisioni con cui i giudici di Strasburgo hanno analizzato – da diversi punti di vista – la tematica del riconoscimento dei legami familiari derivanti da accordi di maternità surrogata: da un lato (tra le altre, Mennesson c. Francia, Labassee c. Francia, D. e altri c. Belgio) affermando che il diritto del minore al rispetto della vita privata esige che il diritto interno preveda la possibilità di riconoscere il rapporto giuridico tra un minore nato a seguito di un contratto di maternità surrogata concluso all'estero e il padre intenzionale, qualora egli sia il padre biologico; dall'altro (parere consultivo del 10.04.2019) ribadendo che il diritto del minore al rispetto della sua vita privata esige anche che la legislazione interna preveda la possibilità di riconoscere il rapporto giuridico di filiazione con la madre intenzionale quando egli sia stato concepito utilizzando gli ovuli di una donatrice terza, e la madre intenzionale sia designata quale madre legale nel certificato di nascita stabilito all'estero.
In particolare, per quanto attiene all'adozione quale mezzo di riconoscimento del legame di cui sopra, la Corte si è espressa tanto nel caso in cui la richiesta di adozione era stata successivamente ritirata (Valdís Fjölnisdóttir e altri c. Islanda) quanto nel caso in cui alla stessa non aveva acconsentito il padre biologico (A.M. c. Norvegia) ma non aveva ancora analizzato un caso di ricorso del minore a fronte del rifiuto opposto dalle autorità nazionali alla sua adozione da parte del genitore intenzionale (nella nota sentenza Paradiso e Campanelli c. Italia la fattispecie era simile ma il minore non era ricorrente).
Nel caso in commento dunque i giudici hanno ritenuto che l'impossibilità assoluta di essere adottati dal genitore intenzionale costituisce violazione del diritto al rispetto della vita privata dei minori, alla luce del superiore interesse di costoro e del fatto che esso va considerato “preminente” rispetto agli altri interessi in gioco, specialmente quello generale a non consentire la mercificazione del corpo femminile ed il commercio di esseri umani. Ancora una volta, dunque, hanno ribadito che gli Stati – ferma restando la discrezionalità nel quomodo – non hanno margini di apprezzamento nell'an e devono assicurare al minore un quadro legale entro cui incardinare il legame parentale.
Va tuttavia osservato che la decisione della Corte europea è stata adottata con la maggioranza più risicata (4 voti a 3) e che nell'opinione dissenziente la minoranza ha opposto argomentazioni dalle quali può evincersi la particolare difficoltà di trovare il giusto compromesso tra opposti interessi; a fronte di ciò la maggioranza ha deciso di dare prevalenza a quello del minore, sulla base di una interpretazione del concetto che è stata criticata a partire dal dato letterale. I giudici Kjølbro, Koskelo e Yüksel hanno invece attirato l'attenzione sul fatto che tanto nell'art.3(1) della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo quanto nell'art.24(2) della Carta dei diritti fondamentali dell'UE si afferma che all'interesse del minore va data una considerazione di primaria importanza (shall be a primary consideration) e non che esso è preminente (paramount): diversamente ragionando, qualunque altro diritto – anche fondamentale ed assoluto – sarebbe recessivo rispetto a quello del minore.
È anche vero, tuttavia, che la stessa Convenzione ONU all'art. 21 specificamente dettato in tema di adozione definisce a chiare lettere tale interesse come “di fondamentale considerazione” ma il termine andrebbe contestualizzato, per riportarlo piuttosto nel quadro di un auspicio a che l'adozione sia disposta con le dovute garanzie e controlli a tutela di interessi tanto generali quanto particolari.
Sullo sfondo di tali osservazioni resta un tema che ha a che fare con la latitudine del campo di indagine della Corte, che pare estendersi e comprimere sempre più il margine di apprezzamento che pure agli Stati essa riconosce. Non vi è dubbio che, a fronte della precisa scelta politica di uno Stato di contrastare con ogni mezzo una pratica medica giudicata intollerabile, stabilire per via giudiziaria che esso deve comunque offrire un quadro legale di riconoscimento dei legami da quella pratica derivanti (seppure lasciando ad esso la scelta dello strumento più appropriato) equivale a fare in modo che quello Stato debba sempre riconoscere, in un modo o nell'altro, detti legami e – come pure riconoscono i giudici dissenzienti – corrisponde in fin dei conti ad ammettere l'esistenza di un “diritto ad avere un figlio attraverso una pratica di surrogazione commerciale”.
Ciò anche laddove le autorità nazionali – come nel caso danese – abbiano constatato che la situazione familiare dei minori era adeguatamente rassicurante (famiglia riunita, riconoscimento della nazionalità ai minori e loro custodia congiunta da parte di entrambi i genitori) e la stessa Corte di Strasburgo abbia, per gli stessi motivi, rigettato il motivo di ricorso relativo alla violazione del diritto al rispetto della vita familiare di tutti i ricorrenti.