Lavoro notturno: fra maggiorazioni contrattuali e limiti di intervento della Corte di giustizia

25 Gennaio 2023

La disciplina della retribuzione del lavoro notturno stabilita dalla contrattazione collettiva non dà attuazione al diritto dell'UE e dunque non è oggetto di scrutinio da parte della Corte di giustizia.
Massime

Una disposizione di un contratto collettivo che preveda una maggiorazione retributiva per il lavoro notturno svolto in modo occasionale più elevata rispetto a quella fissata per il lavoro notturno svolto in modo regolare non dà attuazione alla direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, ai sensi dell'articolo 51, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.

Le questioni vertenti sul diritto dell'Unione godono di una presunzione di rilevanza. Il diniego della Corte di statuire su una questione pregiudiziale posta da un giudice nazionale è possibile solo quando appaia in modo manifesto che l'interpretazione del diritto dell'Unione richiesta non ha alcuna relazione con l'effettività o con l'oggetto del procedimento principale, qualora il problema sia di natura ipotetica oppure, ancora, qualora la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto necessari per fornire una risposta utile alle questioni che le vengono sottoposte.

Il caso

La questione decisa dalla Corte di Giustizia riguarda le maggiorazioni per il lavoro notturno previste dal contratto collettivo del settore “Alimentazione, degustazione, esercizi di ristorazione” in vigore nella regione di Berlino.

Un'azienda di bevande tedesca (nella specie, la Coca-Cola European Partners Deutschland GmbH) ha stipulato un contratto collettivo aziendale con cui si è vincolata all'applicazione del contratto collettivo generale di settore (in motivazione è indicato con l'acronimo “MTV”). Per quanto qui interessa, questo contratto prevede una maggiorazione del 20% per il lavoro notturno svolto in modo regolare e una maggiorazione del 50% per il lavoro notturno svolto in via occasionale (art. 7, riportato in motivazione).

I due lavoratori ricorrenti nelle cause C-257/21 e C-258/21, poi riunite, avevano prestato lavoro notturno in modo regolare per circa sei mesi, fra il 2018 e il 2019, ricevendo la minore maggiorazione prevista dal MTV.

Si sono rivolti al competente Tribunale di lavoro (“Arbeitsgericht”) chiedendo il riconoscimento del diritto al pagamento della maggiorazione del 50% prevista per il lavoro notturno occasionale, in luogo di quella più bassa ricevuta, e la condanna dell'azienda al versamento delle relative differenze retributive. Ritenevano, infatti, che la differenza di trattamento fra lavoro notturno occasionale e lavoro notturno regolare fosse contraria al principio della parità di trattamento sancito dall'art. 3 della Costituzione della Repubblica federale di Germania. Sostenevano, inoltre, che chi lavora regolarmente di notte è esposto a rischi per la salute e disagi nella vita personale maggiori rispetto a chi vi è addetto solo in via occasionale.

L'azienda (in motivazione “C.C.”) si è difesa richiamando la ratio delle previsioni del contratto collettivo. Da una parte evidenziando che il lavoro notturno regolare, seppure compensato con una maggiorazione più bassa, dà diritto a vantaggi supplementari (ad esempio in termini di ferie); dall'altra osservando che la più alta maggiorazione per il lavoro notturno occasionale serve sia a dissuadere il datore di lavoro dal farvi ricorso, sia a compensare il carattere di lavoro supplementare dello stesso (poiché in genere il notturno occasionale è prestato oltre il normale orario).

Il Tribunale ha respinto i ricorsi, mentre il Giudice di appello li ha accolti per una parte dei periodi richiesti. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione alla Corte federale del lavoro, che ha chiesto alla Corte di Giustizia di valutare se la previsione contrattuale delle due diverse maggiorazioni per il lavoro notturno regolare e occasionale dia attuazione alla direttiva 2003/88/CE, ai sensi dell'art. 51 par. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE, e, in caso affermativo, se essa sia compatibile con l'art. 20 della Carta stessa (“Tutte le persone sono uguali davanti alla legge”).

Ritenute ricevibili le questioni pregiudiziali, la CGUE ha dato risposta negativa.

La Corte ricorda che le disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell'UE si applicano agli Stati membri “esclusivamente nell'attuazione del diritto dell'Unione” (Carta, art. 51 par. 1); pertanto è necessario esaminare quale sia la relazione fra la norma nazionale e il diritto dell'Unione. Richiamando i propri precedenti, la Corte afferma che non può trattarsi di una semplice “affinità tra le materie prese in considerazione o dell'influenza indirettamente esercitata da una materia sull'altra” (punto 40). E' invece necessario che le disposizioni del diritto dell'Unione disciplinino un aspetto della materia comune e impongano un obbligo specifico agli Stati membri in relazione a una determinata situazione; in mancanza, non si può ritenere che la norma nazionale costituisca attuazione del diritto dell'UE.

L'applicazione di questi principi al caso concreto, porta a dare risposta negativa al quesito posto dal Giudice tedesco.

La ragione è nella circostanza che la direttiva 2003/88 disciplina alcuni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, anche in riferimento al lavoro notturno, al dichiarato fine di garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori, ma in alcun punto si occupa della retribuzione (salvo la previsione delle ferie annuali retribuite).

Neanche se ne occupa l'art. 153 del Trattato (ex art. 137 del TCE), che costituisce la base giuridica della direttiva in esame e che al punto 5 prevede espressamente la sua non applicabilità “alle retribuzioni, al diritto di associazione, al diritto di sciopero né al diritto di serrata”.

I precedenti richiamati dalla Corte confermano che l'esclusione è legittima, poiché “la fissazione del livello delle retribuzioni rientra nell'autonomia contrattuale delle parti sociali su scala nazionale nonché nella competenza degli Stati membri in materia” (sentenza, punto 47).

Spostando l'attenzione sul diritto internazionale, la Corte osserva che è vero che la convenzione dell'OIL n. 171 del 1990 prevede che ai prestatori di lavoro notturno debbano essere riconosciute compensazioni in materia di orario di lavoro, di salario o di simili vantaggi che devono riconoscere la natura del lavoro notturno (art. 3, par. 1, e art. 8), ma l'Unione non ha ratificato tale convenzione e quindi non è vincolante nel suo ordinamento giuridico, nonostante il richiamo contenuto nel considerando 6 della direttiva 2003/88.

Osservazioni

La pronuncia della Corte è conforme ai precedenti citati in motivazione e ribadisce un principio consolidato nel tempo e in genere ripetuto nelle rispettive motivazioni, anche se in relazione a fattispecie sempre diverse: nel caso in cui le disposizioni del diritto dell'Unione “non impongano alcun obbligo specifico agli Stati membri in relazione a una determinata situazione, la disposizione di un contratto collettivo concluso tra le parti sociali in merito a tale aspetto esula dall'ambito di applicazione della Carta e la situazione di cui trattasi non può essere valutata alla luce delle disposizioni di quest'ultima” (sentenza, punto 42).

La direttiva Ue 2003/88 riguarda taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro al fine di migliorare la sicurezza, l'igiene e la salute dei lavoratori; di conseguenza si occupa dei periodi minimi di riposo giornaliero e settimanale, delle ferie annuali, del lavoro notturno, del lavoro a turni e del ritmo di lavoro.

La principale caratteristica del lavoro notturno è la sua gravosità, in quanto si pone in immediato contrasto con il naturale succedersi dei tempi di veglia e riposo del lavoratore, come di qualsiasi soggetto; incide anche sul tempo libero e sulla possibilità di svolgere regolarmente le altre attività della vita comune, così come il lavoro a turni e il lavoro straordinario. E' quindi naturale che la direttiva 2003/88 se ne occupi, in quanto finalizzata a tutelare la salute e la sicurezza del lavoratore.

Dispone che gli Stati membri prendano le misure necessarie a garantire i fini indicati mediante disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, oppure mediante contratti collettivi o accordi conclusi tra le parti sociali.

La rilevanza riconosciuta alla contrattazione collettiva emerge con ancora maggiore evidenza laddove (art. 18 “Deroghe mediante contratto collettivo”) la si autorizza a derogare a determinate previsioni della direttiva stessa, con la condizione che “ai lavoratori interessati siano accordati periodi equivalenti di riposo compensativo o, in casi eccezionali ..., che ai lavoratori interessati sia accordata una protezione appropriata” (comma 3).

Questa previsione costituisce applicazione dell'art. 153 (ex art. 137) del Trattato, che al suo comma 3 prevede la possibilità dello Stato membro di affidare alle parti sociali, a loro richiesta congiunta, il compito di mettere in atto le direttive, ferma la responsabilità dello Stato medesimo di adottare le misure necessarie che gli permettano di garantire i risultanti imposti dalla normativa comunitaria.

Fra gli obblighi disciplinati dalla direttiva 2003/88 non ve ne sono di carattere economico, se non il divieto di sostituire con un'indennità finanziaria il periodo di minimo di ferie annuali (art. 7, comma 2), salvo il caso di fine del rapporto di lavoro. La previsione è coerente con l'art. 153 TFUE richiamato, che esclude la sua applicazione, fra l'altro, “alle retribuzioni” (comma 3).

E' pertanto chiaro il principio enunciato dalla Corte, secondo cui le previsioni del contratto collettivo sulle maggiorazioni del compenso per il lavoro notturno non danno attuazione alla direttiva, che nulla dispone sul punto. Dunque la Corte non può esaminarle poiché si sottraggono alla sua sfera di competenza.

Per le stesse ragioni, in altra occasione, la Corte aveva rigettato la richiesta di esame delle disposizioni del diritto polacco sulla retribuzione dei lavoratori per i periodi di guardia o di reperibilità, poiché non ricadenti nell'ambito delle direttiva 2003/88, ma del diritto nazionale (sentenza C-344/19).

La questione ha presentato aspetti di notevole interesse, poiché la disciplina del servizio di guardia e di reperibilità ha una stretta attinenza con quella dell'orario di lavoro e del rispetto delle pause, oggetto della direttiva in esame, in quanto si tratta di valutare se il tempo che il lavoratore pone a disposizione dell'azienda (reperibilità) vada qualificato o meno come orario di lavoro.

Sul punto la Corte ha affermato che “se il lavoratore è, in media, frequentemente chiamato a fornire prestazioni nel corso dei suoi periodi di prontezza, prestazioni che, di norma, non sono di breve durata, la totalità di questi periodi costituisce, in via di principio, «orario di lavoro», ai sensi della direttiva 2003/88” (punto 53).

Sul punto la Corte è intervenuta anche con la sentenza C-580/19 (anch'essa citata motivazione della 257/21), con la quale ha ritenuto che la modalità di retribuzione di un periodo di guardia, pur dovendo essere considerato come orario di lavoro ai sensi della direttiva, rientra nell'ambito delle disposizioni di diritto nazionale, anche di contrattazione collettiva.

Nei precedenti richiamati, in conclusione, la CGUE aveva esaminato le questioni proposte poiché aventi a oggetto la definizione della nozione di “orario di lavoro”, oggetto di disciplina da parte della direttiva 2003/88, ma si era astenuta dal giudicare la disciplina nazionale relativa alla retribuzione.

In generale, sulla nozione di “orario di lavoro” con riferimento ai servizi di guardia e di reperibilità, si rinvia al contributo di Ilaria Dal Lago “Il servizio di guardia in regime di reperibilità torna al vaglio della corte di giustizia UE, tra orario di lavoro e periodo di riposo” del 16 settembre 2022 in questo portale.

In altre fattispecie, invece, la Corte ha esaminato le norme del legislatore nazionale impugnate, ritenendo che esse avessero dato attuazione al diritto dell'Unione.

E' il caso, ad esempio, della sentenza della Grande Sezione C-609/17 e C-610/17, anch'essa citata in motivazione della pronuncia in commento, con la quale è stata ritenuta legittima la norma di diritto finlandese che prevede che il godimento dei giorni di ferie già assegnati, ma non potuti usufruire per intervenuta malattia, possa essere differito ad altro periodo solo in relazione al periodo minimo di ferie previsto dalla legge (conforme al periodo minimo imposto dalla direttiva Ue 2003/88), e non anche a quello più lungo previsto dalla contrattazione collettiva come condizione migliorativa.

Nella fattispecie la Corte ha ritenuto legittime le disposizioni di diritto finlandese, precisando che le disposizioni nazionali più favorevoli ai lavoratori (nella specie, periodo annuale di ferie più lungo di quello previsto dalla direttiva Ue) non possono servire a compensare un'eventuale violazione della tutela minima garantita dal diritto dell'Unione, come quella derivante da una riduzione della retribuzione dovuta a titolo di ferie annuali retribuite minime. In altre parole, la maggiore estensione del periodo di ferie annuali non potrebbe andare a compensare l'eventuale minore retribuzione dello stesso periodo di assenza, garantita dall'art. 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88.

Ancora è stata ritenuta in contrasto con lo stesso art. 7 la disposizione di un contratto collettivo in base alla quale, per determinare se sia stata raggiunta la soglia di ore lavorate che dà diritto a un aumento per gli straordinari, prevede che non siano prese in considerazione come ore di lavoro prestate quelle corrispondenti al periodo di ferie annuali retribuite godute dal lavoratore (sent. C-514/20). Tale previsione, secondo la Corte, potrebbe indurre il lavoratore a rinviare il godimento delle ferie, poiché altrimenti non potrebbe svolgere quel lavoro straordinario utile alla maturazione del diritto previsto dalla norma in esame. Pertanto questa norma, pur non avendo un contenuto strettamente retributivo e pur non riguardando direttamente la tutela del periodo minimo di ferie riconosciuta dalla direttiva, potrebbe comunque avere l'effetto di dissuadere il lavoratore dal chiederne l'effettivo godimento.

Con specifico riferimento al lavoro notturno, ricordiamo anche la sentenza C-262/20, con la quale la CGUE ha chiarito che la direttiva non impone che la durata del lavoro notturno per alcuni lavoratori del settore pubblico, come il personale di polizia e vigili del fuoco, debba essere necessariamente inferiore a quella del lavoro diurno, purché i lavoratori interessati beneficino di altre misure di protezione (salario, indennità o simili vantaggi) che consentano di compensare la particolare gravosità del lavoro notturno effettuato. Sul punto la Corte ha evidenziato che “in considerazione della maggiore gravosità del lavoro notturno rispetto a quella del lavoro diurno, la riduzione della durata normale del lavoro notturno rispetto a quella del lavoro diurno può costituire una soluzione appropriata per garantire la protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori interessati, pur non essendo l'unica soluzione possibile. A seconda della natura dell'attività in questione, anche la concessione di periodi di riposo aggiuntivi o di periodi di tempo libero potrebbe, ad esempio, contribuire alla protezione della salute e della sicurezza di tali lavoratori” (C-262/20, punto 53).

Sul piano del diritto interno, la disciplina del lavoro notturno è contenuta nel D.lgs. 66/2003, artt. 11-15, come nel tempo modificata (da ultimo con il D.lgs. 80/2015).

Sull'interpretazione del comma 2 dell'art. 13 (“E' affidata alla contrattazione collettiva l'eventuale definizione delle riduzioni dell'orario di lavoro o dei trattamenti economici indennitari nei confronti dei lavoratori notturni”) in dottrina si registrano opinioni divergenti. Alcuni autori sostengono che il lavoro notturno non dia diritto di per sé a benefici compensativi, che pertanto vanno considerati come eventuali (cfr Ichino-Valente, L'orario di lavoro e i riposi. Artt. 2107-2109, in Rescigno (fondato da), Busnelli (diretto da), Il codice civile. Commentario, Milano 2012, 305). Altri, in applicazione del disposto dell'art. 36 Cost., ritengono che il lavoro notturno vada necessariamente retribuito con una maggiorazione rispetto a quello diurno, in quanto caratterizzato da maggiore gravosità; pertanto la contrattazione collettiva potrà decidere se compensare la particolare modalità della prestazione solamente con una riduzione di orario o con un'indennità o con entrambi i benefici (cfr, fra gli altri, Taverniti, Commento al d.lgs. 66/2003, in De Luca Tamajo-Mazzotta (a cura di), Commentario breve alle leggi sul lavoro, Padova 2017, 2005). Ancora in dottrina si ritiene che il rinvio alla contrattazione collettiva operato dall'art. 13, c. 2, del D.lgs. 66/2003 rappresenti un'abrogazione implicita dell'art. 2018 (cfr Del Punta, La riforma dell'orario di lavoro, Dir. prat. lav., 2003, XXI).

Con riferimento alla contrattazione collettiva si segnala che alcuni contratti prevedono una sola maggiorazione per il lavoro notturno (es. ccnl Turismo pubblici esercizi 2018, art. 124), mentre altri distinguono diverse maggiorazioni a seconda che il lavoro notturno sia prestato o meno in turni avvicendati (es. ccnl Multiservizi 2021, art. 38, maggiorazioni rispettivamente del 20% e del 30%), ritenendo maggiormente gravoso il secondo tipo di prestazione, a causa del più grave impatto sulla sfera personale e sociale del lavoratore, in pregiudizio della possibilità di organizzare il proprio tempo e i propri impegni.

Sulle questioni pregiudiziali - Sulla ricevibilità.

Meritano attenzione anche le osservazioni sulla ricevibilità del ricorso. La Corte ricorda che la valutazione sulla necessità della pronuncia pregiudiziale che le viene richiesta è rimessa dall'art. 267 TFUE al giudice nazionale, che ne ha l'esclusiva responsabilità. Non compete alla Corte l'esame della rilevanza della pronuncia richiesta nel giudizio pendente innanzi al giudice nazionale; essa, pertanto, “in via di principio, è tenuta a statuire” (sentenza, punto 34), poiché “le questioni vertenti sul diritto dell'Unione godono di una presunzione di rilevanza” (punto 35). La ricevibilità può essere negata solo nei casi in cui appaia manifesto che l'interpretazione del diritto dell'Unione non abbia alcuna relazione con l'effettività o con l'oggetto del procedimento principale, oppure quando il problema sia di natura ipotetica, oppure quando la Corte non disponga degli elementi in fatto e in diritto per decidere, come sancito dai numerosi precedenti conformi.

Francesco Saverio Ivella, Avvocato

Riferimenti normativi e giurisprudenziali

Riferimenti normativi

- Trattato sul funzionamento dell'Unione europea 25 marzo 1957, art. 153 (ex 137);

- Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, 12 dicembre 2007, artt. 51 e 54;

- Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 4 novembre 2003, n. 2003/88/CE;

- Convenzione OIL n. 171/1990, artt. 3, paragrafo 1, e 8;

- D.lgs. 8 aprile 2003, n. 66, artt. da 11 a 15.

Riferimenti giurisprudenziali

Giurisprudenza della CGUE:

  1. sulla nozione di orario di lavoro e la retribuzione del servizio di guardia o di reperibilità, 9 marzo 2021, C-344/19 e C-580/19;
  2. sul diritto all'effettivo godimento delle ferie, 19 novembre 2019, C-609/17 e C-610/17, 13 gennaio 2022, C-514/20;
  3. sulla durata del lavoro notturno, 24 febbraio 2022, C-262/20;
  4. sulla ricevibilità della questione posta dal giudice nazionale, 23 novembre 2021, C-564/19, 24 novembre 2020, C-510/19, 4 dicembre 2018, C-378/17.