Decreto trasparenza e tecniche di tutela del lavoratore a fronte di contegni ritorsivi

25 Gennaio 2023

Il cd. Decreto Trasparenza (d.lgs. 104/22), attuazione della dir. UE 2019/1152 relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell'Unione europea introduce alcune significative modifiche della disciplina sostanziale di alcuni istituti quali patto di prova, cumulo degli impieghi, prevedibilità minima dell'orario di lavoro, formazione obbligatoria e diritto alla transizione verso forme di lavoro più prevedibili, sicure e stabili. Il focus si occupa in particolare della disciplina della tutela prevista a favore del lavoratore, non tanto per l'ipotesi in cui i diritti di informazione e gli altri sanciti dal decreto siano stati violati, ma soprattutto per il caso in cui, a fronte dell'esercizio da parte del prestatore di lavoro medesimo di tali diritti, il datore di lavoro abbia adottato il provvedimento del licenziamento o “altra misura equivalente al licenziamento”.
Premessa: il cd. Decreto Trasparenza e la tutela a favore del lavoratore

Il decreto legislativo 27 giungo 2022, n. 104 (subito battezzato come decreto trasparenza) ha, com'è noto, introdotto nell'ordinamento una serie di disposizioni dirette ad assicurare il diritto alla conoscenza in capo al lavoratore degli elementi essenziali del rapporto, sul presupposto che solo laddove il prestatore di lavoro sia posto nella effettiva condizione di conoscere l'esistenza e i precisi connotati di tali diritti egli sarà in grado di esercitarli. Il decreto costituisce attuazione – davvero pedissequa in questo caso – della direttiva comunitaria 2019/1152 del 20 giugno 2019 relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell'Unione europea e, sotto il profilo del diritto interno, modifica le disposizioni del decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152 che già disciplinava il diritto all'informazione del lavoratore in ordine agli elementi essenziali del rapporto di lavoro. Il decreto, al pari della direttiva, introduce poi alcune significative modifiche della disciplina sostanziale di alcuni istituti quali il patto di prova, il cumulo degli impieghi, la prevedibilità minima dell'orario di lavoro, la formazione obbligatoria e il diritto alla transizione verso forme di lavoro più prevedibili, sicure e stabili (1).

Ciò di cui mi occuperò in questo breve intervento è, tuttavia, la disciplina della tutela prevista a favore del lavoratore, non tanto per l'ipotesi in cui i diritti di informazione e gli altri sanciti dal decreto siano stati violati (2), ma soprattutto per il caso in cui, a fronte dell'esercizio da parte del prestatore di lavoro medesimo di tali diritti, il datore di lavoro abbia adottato il provvedimento del licenziamento o “altra misura equivalente al licenziamento”. Una tutela non prevista in questa misura dalla direttiva e che, quindi, il legislatore italiano ha introdotto avvalendosi dello spazio di autonomia che in questo senso gli era concesso dalla disposizione comunitaria. La protezione a favore del lavoratore - in una fattispecie nella quale il provvedimento, assunto dal datore in ragione dell'esercizio da parte del lavoratore di un diritto attribuitogli dalla norma, deve qualificarsi oggettivamente come ritorsivo - è stata attuata mediante l'introduzione di un obbligo generalizzato (e non riferito solo a questa fattispecie) di motivare, su richiesta, le ragioni di adozione del provvedimento pregiudizievole, nonché mediante l'introduzione di una agevolazione probatoria, a favore del lavoratore che agisca in giudizio lamentando la connessione del provvedimento pregiudizievole subito con l'esercizio da parte sua dei diritti previsti dal decreto, quale non si riscontra neppure nei procedimenti di repressione delle condotte discriminatorie. Non solo, ma, in conformità alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, la misura di protezione da un lato viene concessa con riferimento non solo al licenziamento ma anche ad altri provvedimenti al medesimo equiparabili, dall'altro nell'ambito di rapporti diversi dal lavoro subordinato, recependo nella sostanza una nozione di lavoratore di matrice comunitaria.

L'individuazione della fattispecie oggetto di tutela (l'art. 14 del d.lgs. 104/2022)

Appare, anzitutto, necessario individuare, sotto il profilo soggettivo, chi siano i destinatari dei divieti e delle protezioni previste dall'art. 14 del d.lgs. 104/2022 (3).

Secondo le previsioni di cui all'art. 1, comma 1, dello stesso d.lgs. n. 104/2002, le sue disposizioni, ivi comprese quelle relative alla protezione concessa, si applicano a tutte le tipologie del rapporto di lavoro subordinato, ai rapporti di collaborazione organizzati dal committente ai sensi dell'art. 2, camma 1 del d.lgs. n. 81 del 2015 e ai rapporti di collaborazione di cui all'art. 409 n. 3, c.p.c. (non rientranti, quindi, in quelli etero organizzati). Il riferimento è, dunque, nella sostanza ad una nozione di lavoratore di matrice comunitaria, laddove il datore di lavoro, fuori dalle ipotesi relative al lavoro subordinato, diviene committente. La stessa direttiva 2019/1152 fa riferimento genericamente alla nozione di lavoratore e la Corte di giustizia ha avuto più volte modo di precisare chi debba essere qualificato tale, “in base a criteri obiettivi che caratterizzano il rapporto di lavoro sotto il profilo dei diritti e degli obblighi delle persone interessate”, ossia come colui che “che svolga attività reali ed effettive, restando escluse quelle attività talmente ridotte da poter essere definite puramente marginali e accessorie” per un certo periodo a favore di un altro soggetto e sotto la direzione di quest'ultimo, dal quale percepisca, in cambio delle prestazioni rese, una retribuzione. Evidenziando, altresì, specificamente, come “il legislatore italiano non può rifiutare la qualifica giuridica di rapporto di lavoro subordinato a rapporti che, oggettivamente, rivestono una siffatta natura” secondo il diritto comunitario perché ciò significherebbe privare la direttiva del suo effetto utile (4).

Dal punto di vista oggettivo – ossia dei provvedimenti pregiudizievoli che vengono in rilievo e rispetto ai quali viene approntata la tutela – la norma fa riferimento alla “estromissione dal rapporto”, al “licenziamento” e a “misure equivalenti al licenziamento”. Si tratta qui di comprendere, anzitutto, se, con riguardo alle misure “equivalenti al licenziamento”, la disposizione abbia inteso far riferimento agli atti di gestione e risoluzione del rapporto posti in essere nell'ambito di rapporti diversi dal lavoro subordinato, o se abbia, invece, inteso riferirsi, sia con riguardo al lavoro subordinato che ai rapporti di collaborazione, sia agli atti risolutivi che a quelli da equiparare alla risoluzione del rapporto.

Ritengo che debba essere preferita senza dubbio, stante la necessità di un'interpretazione conforme al diritto comunitario come interpretato dalla Corte di giustizia, la seconda soluzione, specificamente alla luce di quanto previsto dalla direttiva 2019/1152 di cui il decreto legislativo costituisce attuazione. Laddove, all'art. 18, rubricato Protezione contro licenziamento onere della prova la stessaprevede che le tutele che gli stati membri devono adottare riguardino “il licenziamento o suo equivalente.

Si tratta ora di verificare che cosa debba intendersi per “misura equivalente” al licenziamento, espressione che, per quanto consti, per la prima volta il legislatore italiano utilizza in una fonte primaria, prendendo atto evidentemente, della necessità di attuare la direttiva anche sotto questo profilo. Al riguardo deve ricordarsi come la Corte di giustizia con la decisione dell'11 novembre 2015 nella causa C-422/2014, interpretando l'art. 1 direttiva 98/56, concernente il riavvicinamento della legislazione degli stati membri in materia di licenziamenti collettivi, abbia affermato l'equiparazione fra licenziamento e mutamento sostanziale di un elemento essenziale del rapporto disposto unilateralmente dal datore di lavoro, interpretazione vincolante per il giudice nazionale, al fine di identificare il numero di risoluzioni di rapporti di lavoro necessarie al fine di configurare appunto la fattispecie licenziamento collettivo. Quella decisione, al pari della successiva nella causa C-429/2016 del 21 luglio 2017, ha evidenziato come escludere dalla nozione di “licenziamento” in senso proprio e quindi rilevante ai fini della direttiva, una modificazione sostanziale di un elemento essenziale del rapporto disposto unilateralmente dal datore di lavoro significherebbe privare la direttiva del suo effetto utile; per cui le modifiche sostanziali del rapporto di lavoro poste in essere dal datore di lavoro devono equipararsi sotto ogni profilo ai licenziamenti in senso stretto (5) o, per dirla con la norma in commento, devono ritenersi “equivalenti” al licenziamento. Le stesse argomentazioni possono essere spese con riferimento alla fattispecie in esame, tanto più che, nel caso, è la stessa direttiva (all'art. 18 sopra menzionato) ad imporre l'equiparazione del recesso ad atti che, per la loro incisività nel rapporto di lavoro, devono essere al medesimo equiparati. Escludere dalla tutela prevista rispetto all'esercizio illegittimo da parte del datore di lavoro di un potere quale ritorsione rispetto all'esercizio da parte del prestatore di un diritto previsto dalla direttiva (e dal decreto legislativo di attuazione della stessa) una modificazione sostanziale del rapporto di lavoro (si pensi ad un trasferimento a notevole distanza) significherebbe privare la direttiva medesima del suo effetto utile, ossia consentirne nella sostanza una facile elusione. Per identificare, infine, la nozione di “modificazione sostanziale” del rapporto si dovrà fare riferimento alle norme esistenti nell'ordinamento interno, secondo le stesse indicazioni della Corte di giustizia (6). Così, ad esempio, mi pare che debba certamente considerarsi modificazione sostanziale del rapporto un trasferimento ad oltre 50 chilometri (7), come pure dovranno considerarsi mutazioni rilevanti nell'ambito del rapporto le modifiche delle mansioni di cui ai commi 2 e 6 dell'art. 2103 c.c., proprio in rapporto al contenuto delle norme appena menzionate.


L'obbligo (generalizzato) di motivare il provvedimento pregiudizievole

Il secondo comma dell'art. 14 del d.lgs. n. 104 del 2002 prevede, fatta salva la disciplina di cui all'art. 2 della l. n. 604/66, la possibilità per i lavoratori che abbiano subito la risoluzione del rapporto o altro provvedimento equivalente, di richiedere al datore di lavoro o al committente di esplicitare per iscritto i motivi del provvedimento adottato, con obbligo per il destinatario della richiesta di rispondere entro sette giorni. Anche se la disposizione non prevede un termine entro il quale debba essere formulata l'istanza (8), ritengo che la medesima debba intervenire entro un tempo ragionevole dalla comunicazione del provvedimento, dovendosi in difetto ritenere che non vi sia un reale interesse in capo al lavoratore a conoscere le motivazione dell'atto che lo riguarda e, per altro verso, che non possa lasciarsi il datore di lavoro esposto alla necessità di fornire in un termine estremamente ridotto le motivazioni di un atto posto in essere molto tempo addietro.

Si tratta di una disposizione di grande importanza, la cui portata mi pare debba ritenersi di carattere assolutamente generale (da applicare, quindi, in tutte le situazioni in cui un lavoratore, nel senso ampio sopra indicato, abbia subito la risoluzione del rapporto o altro provvedimento equiparabile; si pensi in questo senso ad un trasferimento ad oltre 50 chilometri o a un rilevante mutamento di mansioni) e non limitata alla fattispecie in cui il lavoratore in questione lamenti una connessione ritorsiva fra il provvedimento lesivo e l'esercizio da parte sua dei diritti previsti dalla direttiva e dal decreto. Tale portata generale ritengo possa, anzitutto, ricavarsi dal tenore letterale della disposizione, la quale, pur inserita nell'ambito di uno degli articoli che disciplina le tutele a favore del lavoratore in presenza di contegni ritorsivi, non contiene alcun riferimento agli stessi. Non solo, ma la richiesta della motivazione è finalizzata a porre il lavoratore nella condizione di poter valutare appieno la fondatezza e la legittimità del provvedimento e di valutare, in relazione alla stessa, se possa o meno ipotizzarsi una finalità ritorsiva nel provvedimento stesso o anche altra ragione di illegittimità. La facoltà di richiedere i motivi del provvedimento si colloca conseguentemente prima ed è prodromica ad una valutazione, che sarà necessariamente successiva, in ordine alla ritorsività o illegittimità del provvedimento adottato, per cui non presuppone una ipotizzata lesione o ritorsività del contegno adottato.

Credo, inoltre ancora, che la portata generale della disposizione in esame emerga anche in relazione alla circostanza per cui i provvedimenti risolutivi del rapporto o che incidono in modo rilevante sullo stesso debbano fondarsi (non solo sulla base della legislazione nazionale ma anche in virtù di disposizioni contenute nei trattati internazionali) su dati oggettivi e verificabili, siano essi relativi all'impresa, o invece alla persona del lavoratore. Il che impone che quei dati, proprio per rivestire il carattere dell'oggettività, debbano essere individuati nell'atto stesso che dispone il mutamento del rapporto, atto che deve essere quindi motivato. Il principio in materia di licenziamento individuale è sancito dall'art. 2 della l. n. 604 del 1966 (disposizione espressamente richiamata e fatta salva dal comma 2 dell'art. 14), per cui potrebbe ritenersi che anche gli atti da considerare equivalenti al licenziamento debbano essere sempre contestualmente motivati (9). La disposizione prevede che la motivazione – che sarà relativa agli atti diversi dal licenziamento, visto che con riguardo al recesso l'ipotesi è già normata - sia fornita solo su richiesta del lavoratore, nel termine di sette giorni dalla richiesta stessa, previsione che, da una lato, risolve ogni questione relativa alla possibile applicazione estensiva del disposto di cui all'art. 2 della l. n. 604 del 1966, dall'altro si configura come certamente sufficiente a rispondere alle esigenza di tutela del destinatario del provvedimento stesso.

Il fatto che l'atto con cui viene risolto il rapporto o vengono introdotte unilateralmente rilevanti modifiche sullo stesso debba essere, seppure a seguito di richiesta del lavoratore, motivato, assume rilievo ai fini della sindacabilità in sede giudiziale dell'atto stesso e alla verifica della sua estraneità a contegni ritorsivi, visto che la motivazione porta con sé l'immutabilità dei motivi addotti. Se la motivazione è necessaria, la stessa diventa il metro attraverso cui giudicare della legittimità dell'atto, per cui il sindacato – al pari di ciò che avviene in materia di licenziamento – potrà avvenire sulla base dei soli motivi addotti a fondamento del provvedimento. In relazione alla stessa motivazione il datore di lavoro dovrà assolvere gli oneri probatori che sul medesimo incombono e dovrà valutarsi anche la sussistenza dell'eventuale intento ritorsivo alla base del provvedimento secondo i parametri definiti dal successivo comma 3 dello stesso art. 14.

Si tratta ora di valutare quali siano le conseguenze che derivano dal mancato assolvimento dell'obbligo di motivazione che grava sul datore di lavoro o sul committente a seguito della richiesta formulata dal lavoratore, visto che la norma nulla dice sul punto. Non essendo previste dall'ordinamento, per gli atti diversi dal licenziamento, tutele differenziate in rapporto al vizio che connota l'atto, il provvedimento stesso ritengo debba ritenersi nullo in quanto adottato in assenza di un requisito formale previsto dalla legge. Rispetto allo stesso il lavoratore subordinato (e anche il collaboratore etero organizzato ex art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015) potrà agire giudizialmente al fine di ottenerne la rimozione o utilizzare, in presenza degli altri presupposti di proporzionalità, l'eccezione di inadempimento al fine di non ottemperare all'ordine ricevuto, mentre il collaboratore potrà far valere il vizio attraverso i rimedi contrattuali – sia ripristinatori che risarcitori - esperibili rispetto all'inadempimento nell'ambito dei contratti di collaborazione.

Certo è, poi, che qualora il lavoratore agisca in giudizio al fine di far accertare il carattere ritorsivo del provvedimento, il datore di lavoro non potrà utilizzare nella sua difesa le ragioni sostanziali che stavano alla base dell'atto impugnato ove quelle ragioni egli, in presenza della richiesta formulata dallo stesso lavoratore, non abbia comunicato nel termine previsto dalla legge.

L'onere di allegazione e prova che gravano sul lavoratore e sul datore di lavoro. Le conseguenze dell'accertata nullità dell'atto pregiudizievole

Il terzo comma dell'art. 14 prevede che, fatta salva la disciplina dell'onere della prova prevista in materia di licenziamento, qualora il lavoratore agisca in giudizio lamentando l'adozione nei suoi confronti di un provvedimento risolutivo del rapporto a altro equivalente conseguente all'esercizio da parte sua dei diritti preisti dal decreto, il datore di lavoro debba provare che il provvedimento adottato è fondato su motivi diversi da quelli allegati dal prestatore di lavoro.

Vi è da chiedersi, alla luce del disposto normativo in esame, quali siano gli oneri di allegazione e prova gravanti sul lavoratore, il cui assolvimento fa scattare l'onere il capo al datore di lavoro di provare non (solo) la sussistenza di altro motivo di recesso o di adozione del provvedimento pregiudizievole, ma la circostanza che tale adozione non costituisca una ritorsione rispetto all'esercizio da parte del prestatore dei diritti previsti dal decreto. Sul punto deve, anzitutto evidenziarsi come la direttiva 2019/1152 preveda, all'art. 18, comma 3, l'obbligo per gli stati membri di adottare misure necessarie “per garantire che, quando i lavoratori di cui al paragrafo 2 presentano, dinanzi a un organo giurisprudenziale o a un'altra autorità od organo competente, fatti in base ai quali si può presumere che vi siano stati tale licenziamento o tali misure equivalenti, incomba al datore di lavoro dimostrare che il licenziamento è stato basato su motivi diversi da quelli di cui al paragrafo 1”, fermo restando che, ai sensi del successivo 4° comma, è consentito agli Stati membri l'adozione di un regime probatorio più favorevole al lavoratore.

E' noto come nell'ambito del licenziamento impugnato come discriminatorio la Corte di cassazione (10) abbia più volte sottolineato come le direttive in materia (il riferimento è alle direttive n. 2000/78, nonché alle direttive n. 2006/54 e 2000/43), così come interpretate dalla Corte di giustizia, nonché i decreti legislativi che le hanno recepite impongano l'adozione di un meccanismo di agevolazione probatoria a favore dell'attore “prevedendo che questi alleghi e dimostri circostanze di fatto dalle quali possa desumersi per inferenza che la discriminazione abbia avuto luogo, per far scattare l'onere per il datore di lavoro di dimostrare l'insussistenza della discriminazione”. Un'agevolazione probatoria che si pone in “un punto del ragionamento presuntivo anteriore rispetto alla sua completa realizzazione secondo i canoni di cui all'art. 2729 c.c.” poiché, diversamente, tale alleggerimento del carico probatorio verrebbe nella sostanza meno e si finirebbe per porre a carico di chi agisce l'onere di una prova del fatto discriminatorio, ancorché raggiunta per via presuntiva. Il lavoratore che agisce asserendo un trattamento discriminatorio subito deve, cioè, provare il fattore di rischio, il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghi e non portatori di quel fattore di rischio, allegando una correlazione significativa fra questi elementi che renda verosimile la discriminazione. Mentre il datore di lavoro, a fronte di ciò, dovrà dedurre e provare circostanze idonee a escludere il carattere discriminatorio del licenziamento, in quanto dalle stesse possa ricavarsi che la scelta sarebbe stata posta in essere con gli stessi criteri nei confronti di qualsivoglia altro lavoratore in posizione analoga che non si trovasse nella situazione di di rischio.

Con l'introduzione del meccanismo di agevolazione probatoria di cui al comma 3 dell'art. 14, il legislatore è andato oltre, prevedendo che il prestatore di lavoro debba solo “lamentare”, ossia semplicemente dedurre l'esistenza di un atto – risolutivo del rapporto o equivalente – che si ponga quale conseguenza ritorsiva dell'esercizio da parte sua dei diritti previsti dal decreto legislativo e dalla direttiva. Allegazione che, peraltro dovrà essere accompagnata quantomeno dalla prova di quello che nel licenziamento discriminatorio si definisce il fattore di rischio e che qui è l'effettivo esercizio da parte del prestatore di lavoro dei diritti previsti dal decreto legislativo. Esercizio che costituisce il presupposto indefettibile affinché lo stesso lavoratore possa fruire della speciale agevolazione probatoria. Sotto questo profilo, il legislatore italiano nel recepire la direttiva e avvalendosi della facoltà dalla stessa concessa, in tema di agevolazioni probatorie a favore di chi lamenta di essere stato oggetto di un trattamento pregiudizievole in ragione dell'esercizio dei diritti sanciti dal decreto, è andato, come anticipato, al di là delle previsioni sul punto della stessa direttiva, che, come sopra indicato, prevedeva la “presentazione” di “fatti in base ai quali si può presumere” che sia stato posto in essere ai suoi danni un atto pregiudizievole, con un meccanismo di tutela del tutto equiparabile a quello in tema di discriminazione. “Presentazione” di fatti significa, evidentemente, non solo allegazione degli stessi ma prova dei medesimi, quando, invece, come detto, in forza del disposto del comma 3 dell'art. 14 basterà al lavoratore meramente affermare l'esistenza di una correlazione significativa fra l'esercizio da parte sua dei diritti di cui al decreto e l'atto pregiudizievole subito, unico elemento quest'ultimo che dovrà essere provato.

A fronte della deduzione e prova da parte del prestatore di lavoro dell'esercizio di alcuni dei diritti previsto dal decreto e della allegazione di una correlazione significativa fra quell'esercizio e il provvedimento pregiudizievole subito, il datore di lavoro dovrà provare che i motivi a fondamento del provvedimento pregiudizievole non sono legati all'esercizio dei diritti da parte del prestatore di lavoro. Egli dovrà, cioè, così come avviene in tema di discriminazione, dedurre e provare “circostanze inequivoche idonee ad escludere per precisione, gravità e concordanza di significato la natura discriminatoria del recesso. Non sarà cioè sufficiente che il datore di lavoro adduca e provi l'esistenza di un motivo che legittimi il provvedimento adottato, poiché in forza della disposizione normativa è irrilevante la presenza anche di un motivo legittimo a fondamento dell'atto, essendo necessaria invece la prova, seppure attraverso procedimento presuntivo, che consenta di escludere che l'atto stesso è stato adottato quale reazione nei confronti del prestatore di lavoro che abbia esercitato un diritto. Anche se, evidentemente, la prova che il provvedimento adottato trova fondamento in un motivo legittimo estraneo ad ogni ritorsione costituisce uno degli elementi sui quali potrà fondarsi ‘argomentazione presuntiva idoena a far ritenere insussistente la lamentata ritorsività dell'atto contestato.

L'accertato, seppure attraverso il meccanismo di agevolazione probatoria di cui si è detto, carattere ritorsivo dell'atto pregiudizievole adottato nei confronti del prestatore di lavoro condurrà alla declaratoria di nullità dell'atto medesimo, con ogni conseguenza prevista dall'ordinamento, in rapporto alla tipologia di atto (licenziamento, trasferimento, mutamento di mansione etc.) e alla tipologia di rapporto che viene in rilievo (collaborazioni etero organizzate e autonome).

Francesco Rossi, Avvocato

Note
(1) Per i primi commenti sul d.lgs n. 104 del 2022 si vedano, fra gli altri, F. Scarpelli, in Giustizia Civile.com “Decreto Trasparenza: disciplinato il diritto del lavoratore (privato) a svolgere altra prestazione lavorativa”; L. Failla e P. Salazar, Guida al Lavoro, n. 40 del 14 ottobre 2022, “Decreto trasparenza, obblighi informativi e trattamento dei dati personali”; M. Marucci, in Labor, 1° settembre 2022, “Sulla moltitudine degli obblighi di informazione ai lavoratori introdotti con l'attuazione della normativa comunitaria relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili”; L. Valente, in lavoce.it, 22 agosto 2022, “Il lavoro in UE: trasperente e prevedibile”.

(2) Il decreto legislativo prevede, in tal caso, come indicato dalla direttiva, un meccanismo di risoluzione rapida delle controversie mediante la possibilità di proporre di un tentativo di conciliazione ai sensi degli artt. 410 e 411 c.p.c. al collegio di conciliazione e arbitrato di cui agli artt. 412 412 ter c.p.c., nonché l'applicazione di una sanzione amministrativa da parte dell'Ispettorato Territoriale del lavoro a carico di coloro che abbiano adottato comportamenti di carattere ritorsivo o che comunque determinino degli effetti sfavorevoli nei confronti di coloro che abbiano presentato reclamo o proposto un ricorso, anche non in sede giudiziale, al fine di garantire il rispetto dei diritti previsti in capo al lavoratore dal decreto.

(3) Per praticità di lettura si riporta il testo della disposizione art. 14 d.lgs. n. 104/2022: “Protezione contro il licenziamento o contro il recesso del committente e onere della prova.

1. Sono vietati il licenziamento e i trattamenti pregiudizievoli del lavoratore conseguenti all'esercizio dei diritti previsti dal presente decreto e dal decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152, come modificato dal presente decreto. 2. Fatta salva la disciplina di cui all'articolo 2 della legge 15luglio 1966, n. 604, i lavoratori estromessi dal rapporto o comunque destinatari di misure equivalenti al licenziamento adottate nei loro

confronti dal datore di lavoro o dal committente possono fare espressa richiesta al medesimo dei motivi delle misure adottate. Il datore di lavoro o il committente fornisce, per iscritto, tali motivi entro sette giorni dall'istanza. 3. Fatto salvo quanto previsto dall'articolo 5della legge 15luglio 1966, n. 604, qualora il lavoratore faccia ricorso all'autorità giudiziaria competente, lamentando la violazione del comma 1, incombe sul datore di lavoro o sul committente l'onere di provare che i motivi addotti a fondamento del licenziamento o degli altri provvedimenti equivalenti adottati a carico del lavoratore non siano riconducibili a quelli di cui al comma 1.”

(4) In questo senso si vedano, fra le altre, le sentenze della Corte di Giustizia 16 luglio 2020, C-658/18 UX (punti 88-94); 20 novembre 2018, C-147/17 Sindicatul Familia (punto 41; 26 marzo 2015, C-316/13 Fenoll (punto 25); 14 ottobre 2010, C-429/09 Union syndacale Solidaries (punto 29), nonché la più recente 7 aprile 2022, C.-236/20, RIDL, 2022, II, 482 con nota di B. De Mozzi.

(5) L'orientamento espresso dalla Corte di Giustizia è stato recepito dalla Corte di Cassazione con la decisione del 20 luglio 2020 n. 15401. Nello stesso senso Trib. Napoli, 4 gennaio 2022, in RIDL, II, 195, con nota di R. Diamanti.

(6) Si vedano le menzionate decisioni dell'11 novembre 2015 nella causa 422/2014 e la successiva del 21 luglio 2017 nella causa C 429/2016.

(7) Sotto tale profilo si consideri come l'INPS, con le circolari n. 142 del 18 dicembre 2012 e 142 del 29 luglio 2015, interpretando le disposizioni di cui al d.lgs. n. 22 del 2015, abbia riconosciuto competere l'indennità NASPI, oltre che al lavoratore licenziato, al prestatore di lavoro che rifiuti un trasferimento ad oltre 50 chilometri di distanza o a una sede non raggiungibile in 80 minuti attraverso l'utilizzo di mezzi pubblici e che, per tale ragione, risolva il rapporto di lavoro. In tal modo equiparando, anche sotto questo profilo, la risoluzione del rapporto ad iniziativa del datore di lavoro a una rilevante modificazione di uno degli elementi essenziali del rapporto stesso quale la sede di lavoro, identificata appunto in un trasferimento ad oltre 50 chilometri.

(8) Com'è noto il testo originario dell'art. 2 della legge n. 6004/1966 non prevedeva la necessità di una contestale motivazione del licenziamento, ma la facoltà del lavoratore di richiedere, entro 15 giorni dal ricevimento della comunicazione di recesso, i motivi del licenziamento, motivi che dovevano essere comunicati nei 7 giorni successivi. Il termine di 15 giorni per la richiesta potrebbe quindi ritenersi come termine ragionevole entro il quale la stessa deve essere inoltrata.

(9) E' noto come in ordine alla necessità o meno della motivazione, con riferimento al trasferimento del lavoratore, si era affermato in giurisprudenza un orientamento che riteneva il datore di lavoro tenuto, a pena di inefficacia del trasferimento stesso, a fornire la motivazione qualora il lavoratore la richiedesse, con un'applicazione analogica del disposto di cui all'art. 2 l. n. 604/1966 allora vigente. In questo senso Cass. 22 agosto 2013 n. 19425 e Trib. Milano 22 aprile 2016.

(10) Il riferimento è, fra l'altro, a Cass. 27 settembre 2018 n. 23338 citata nel testo e a Cass. n. 14206/13 nonché alle decisioni della Corte di Giustizia del 17 luglio 2008, C303/06 Colemann, del 10 luglio 2008 C-54/07 Feryn, del 16 luglio 2015 C-83/14 Chez).