I termini che il Legislatore mette in campo sono due e si intersecano tra di loro: l'ATP deve durare al massimo 6 mesi. Spirato tale termine, se la CTU non è stata depositata o l'accordo non s'è raggiunto, l'ATP abortisce. A questo punto, le parti, perché siano fatti salvi “gli effetti della domanda”, hanno 90 giorni per introdurre la causa di merito.
Nel decreto del Tribunale di Verona in esame, si legge: “il Ricorso ex art. 702-bis c.p.c. depositato oltre la scadenza del termine suddetto è procedibile, ma produce ex novo i suoi effetti sostanziali e processuali”.
Ma quali sono gli effetti sostanziali che vengono travolti? Di primo acchito, la mente corre alla prescrizione. Questa, però, è fatta salva dall'art. 2943 comma 1 c.c., perché tale disposizione stabilisce che la proposizione della domanda nell'ambito d'un giudizio conservativo – quale è l'ATP (v. Cass. n. 3357/2016) – abbia effetto interruttivo della prescrizione.
Gli altri effetti sostanziali e quelli processuali, dunque, sono la decadenza, la sospensione del termine di prescrizione. Non solo: vi sono pure il radicamento della giurisdizione e della competenza (art. 5 c.p.c.), la litispendenza (art. 39 c.p.c.), la successione nel processo (art. 110 c.p.c.), la perpetuatio legitimationis (art. 111 c.p.c.) e la conservazione dell'efficacia dei provvedimenti cautelari conservativi.
In sostanza, circa gli effetti sostanziali, nel caso di ATP non conclusa in 6 mesi e domanda di merito tardiva, il termine di prescrizione non va considerato come sospeso durante il procedimento. Le ricadute pratiche di ciò possono considerarsi, però, trascurabili, in quanto il vero problema – che è l'interruzione della prescrizione – è superato dall'espressa previsione di legge.
La questione rilevante, quindi, è un altra: è palese che l'intenzione del Legislatore nella previsione di un previo procedimento per ATP fosse quella di sgravare i Tribunali di liti facilmente definibili, una volta che i fatti materiali siano accertati in modo incontrovertibile.
L'ATP con finalità conciliativa, infatti, assolve ad una funzione di istruzione preventiva, ma anche certamente conciliativa: tale strumento, a differenza dell'ATP ordinaria, disciplinato all'art. 696 c.p.c., può essere instaurato al di fuori delle condizioni di urgenza colà previste.
Stante la natura tecnica eminentemente delle questioni mediche, il giudizio di merito si pone potenzialmente come solo eventuale, dovendosi dare in esso ingresso all'ATP quale fonte oggettiva di prova.
La Costituzione, infatti, indica la ragionevole durata dei processi come un valore fondamentale, così come fanno la Convenzione Europea e la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.
L'impianto previsto dal Legislatore, quindi, è chiaro: partendo dall'idea che le controversie in campo medico di basano su questioni tecniche, la CTU è stata concepita come strumento che consente o di conciliare la lite oppure di avere un giudizio di merito più agile, perché agevolato dall'elaborato peritale, che alleggerisce l'istruttoria.
Il procedimento, del resto, va visto nella sua interezza: non si tratta, infatti, di ATP e, poi, di giudizio di merito, ma di un unico procedimento che consta di istruzione preventiva ed eventuale giudizio di cognizione.
Il provvedimento del Tribunale scaligero, pertanto, ha l'evidente pregio di mettere a nudo un vizio dell'impianto legislativo. Esso rivela l'esistenza d'un aspetto capace di frustrare le finalità più specifiche per cui è stato concepito il sistema dell'ATP come condizione di procedibilità in campo medico: la legge, laddove non consente di poter proseguire l'attività peritale oltre il termine perentorio semestrale, manda a monte l'obiettivo deflattivo che la stessa s'era chiaramente posta e lo fa in modo ingiustificato.
È pur vero che autorevole dottrina afferma che non possa ritenersi “sostenibile che lo spirare del termine semestrale impedisca al collegio la prosecuzione della propria attività peritale: quest'ultima dovrebbe poter proseguire almeno fino all'udienza nella quale il giudice del merito potrebbe prorogare il termine delle attività stesse” (D. Longo, La consulenza tecnica preventiva a fini conciliativi in materia di responsabilità medica e sanitaria, in unirc.it).
Secondo il Consolo, infatti, quando il termine semestrale sia spirato, la parte sarà onerata di segnalare il proprio interesse alla prosecuzione, per cui il Giudice dovrà fissare l'udienza in maniera tale da consentire la chiusura del subprocedimento (C. Consolo, Il «tentativo obbligatorio di consulenza-conciliazione» e l'eventuale giudizio di merito: promesse e realtà della elisione della cognizione piena, in Il contenzioso sulla nuova responsabilità sanitaria (prima e durante il processo), coordinato da C. Consolo, Torino 2018, 36 ss e nota 2).
Rimane il fatto che il testo della legge, così come scritto, imponga di dover introdurre il giudizio di merito.
Un sistema così concepito, però, rivela un vizio di fondo di incongruenza, perché, pur muovendo dall'obiettivo di favorire la definizione non contenziosa delle liti, finisce per porsi come generatore di vertenze di merito e per di più “alla cieca”, poiché, nel momento in cui si impone la chiusura dell'ATP, si costringe la parte a introdurre il giudizio di merito senza avere certezze più consolidate sugli aspetti tecnici della controversia.
La ragione per cui il Legislatore ha stabilito il termine massimo di durata dell'ATP in un tempo così breve va ascritta alla necessità di sfuggire alla censura di incostituzionalità, in quanto la giurisdizione condizionata è assoggettata a stringenti limiti secondo la giurisprudenza della Consulta (v. C. Cost. n. 443/2014, n. 406/1993 e n. 98/2014); tuttavia, è altrettanto vero che la descritta disciplina alimenta cause che potrebbero essere evitate.
Se lo scopo dell'ATP è quello di incentivare una deflazione del contenzioso, il fatto che tale procedimento non si concluda nel termine di sei mesi non giustifica la determinazione di impedire che lo stesso possa proseguire, né rende ragione della necessità di introdurre una causa di merito, necessariamente più ampia rispetto al procedimento di istruzione.
La previsione di perentorietà del termine, quindi, pare frustrare proprio l'esplicita finalità di favorire l'accordo tra le parti e, al contrario, si pone come generatrice di ulteriore contenzioso.
Ben venga che si preveda che la parte possa adire il Giudice, una volta che siano passati sei mesi dal ricorso per ATP, però non si giustifica la previsione che impone al Giudice di far cessare il procedimento per A.T.P. laddove questo non si concluda nel termine anzidetto.