Risarcimento del danno biologico terminale e danno morale catastrofale

03 Febbraio 2023

La Cassazione chiarisce se il risarcimento del danno biologico terminale e del danno catastrofale debba essere tenuto distinto e liquidato con criteri diversi oppure se debba essere liquidato unitariamente.
Massima

“In caso di malattia professionale o infortunio sul lavoro con esito mortale, che abbia determinato il decesso non immediato della vittima, al danno biologico terminale, consistente in un danno biologico da inabilità temporanea totale (sempre presente e che si protrae dalla data dell'evento lesivo fino a quella del decesso), può sommarsi una componente di sofferenza psichica (danno catastrofale), sicché, mentre nel primo caso la liquidazione può essere effettuata sulla base delle tabelle relative all'inabilità temporanea, nel secondo, la natura peculiare del pregiudizio comporta la necessità di una liquidazione che si affidi ad un criterio equitativo puro, che tenga conto della enormità del pregiudizio, giacché tale danno, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità”.

Il caso

Nel caso di specie, un uomo, operaio dipendente presso lo stabilimento di una impresa attiva nel settore energetico, decedeva per mesotelioma pleurico riconosciuto dall'INAIL come malattia professionale.

Il Tribunale di primo grado, adito dagli eredi della vittima (coniuge e tre figli), condannava la Società datrice di lavoro al risarcimento della somma di € 634.299,05 per il risarcimento dei danni iure hereditatis.

A seguito dell'impugnazione di tale provvedimento, la Corte d'appello, in parziale riforma di sentenza di prime cure, condannava il datore di lavoro al versamento in favore degli eredi della somma complessiva di € 79.213,44 a titolo di risarcimento del danno iure hereditatis (in luogo della somma di € 634.299,05 liquidata a tale titolo dal Tribunale) e confermava la condanna della Società al pagamento delle somme di € 200.000,00 in favore della vedova e di € 163.990,00 ciascuno in favore dei tre figli a titolo di risarcimento del danno iure proprio.

Avverso tale sentenza, gli eredi del lavoratore deceduto proponevano ricorso per Cassazione.

In particolare, essi denunciavano la violazione del principio di integralità e adeguatezza del risarcimento del danno non patrimoniale, l'errata applicazione delle tabelle di liquidazione del danno non patrimoniale terminale e temporaneo, nonché l'inidoneità del criterio liquidativo adottato. La Società, a sua volta, resisteva con controricorso e proponeva ricorso incidentale censurando la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 2087, 2697 c.c., art. 21 d.P.R. 303/1956, art. 115 c.p.c. (art. 360, n. 3 c.p.c.), violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 c.p.c., artt. 2727, 2729 c.c., artt. 40 e 41 c.p. (art. 360, n. 3 c.p.c.) e, infine, violazione e falsa applicazione degli artt. 2059, 2697, 1223 c.c. (art. 360, n. 3 c.p.c.).

La questione

Il danno biologico terminale e il danno catastrofale devono essere liquidati unitariamente o separatamente e con diversi criteri?

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte chiarisce che il danno subìto dalla vittima, nell'ipotesi in cui la morte sopravvenga dopo un apprezzabile lasso di tempo dall'evento lesivo,è configurabile, e trasmissibile agli eredi, nella duplice componente di danno biologico terminale, cioè di danno biologico da inabilità temporanea assoluta, e di danno morale catastrofale, consistente nella sofferenza patita dal danneggiato a condizione che questi, lucidamente e coscientemente, abbia assistito allo spegnersi della propria vita.

In particolare, i giudici di legittimità, richiamando le proprie precedenti decisioni (cfr. Cass. civ., n. 17577/2019 e Cass. n. 12041/2020), confermano che in caso di decesso non immediato della vittima, al c.d. “danno biologico terminale” - consistente in un danno biologico da inabilità temporanea totale, sempre presente, e che si protrae dalla data dell'evento lesivo fino a quella del decesso - può sommarsi una componente morale data dalla sofferenza psichica (il c.d. “danno morale catastrofale”).

Ciò detto, la Corte precisa ulteriormente che si tratta di danni che vanno tenuti distinti e liquidati con differente criteriologia.

In particolare, il danno biologico da inabilità temporanea totale (qualificabile come danno biologico terminale) è sempre presente e si protrae dalla data dell'evento lesivo fino a quella del decesso, pertanto la liquidazione può ben essere effettuata sulla base delle tabelle relative all'inabilità temporanea e deve essere effettuata in relazione alla menomazione dell'integrità psicofisica patita dal danneggiato sino al suo decesso.

Tale danno dà luogo ad una pretesa risarcitoria trasmissibile iure hereditatis, da commisurare soltanto all'inabilità temporanea, adeguando, tuttavia, la liquidazione alle circostanze del caso concreto, ossia al fatto che, seppur temporaneo, si tratta di un danno massimo nella sua intensità ed entità, tanto che da ledere il diritto alla salute con un'intensità tale da non consentire alcun recupero, esitando nel decesso.

La Corte considera, dunque, corrette le tecniche di liquidazione del danno "terminale" commisurate alle tabelle che stimano l'inabilità temporanea assoluta con opportuni "fattori di personalizzazione", i quali tengono conto dell'entità e dell'intensità delle conseguenze derivanti dalla lesione della salute allorquando ne consegua l'exitus.

A tal proposito, la Cassazione richiama i propri precedenti ai quali intende dare continuità (cfr. Cass. n. 15491/2014, n. 23053/2009, n. 9959/2006, n. 3549/2004).

Il danno morale catastrofale, invece, integrando un danno non patrimoniale di natura del tutto peculiare, consistente nella sofferenza patita dalla vittima che, lucidamente e consapevolmente, assiste allo spegnersi della propria vita, comporta la necessità di una liquidazione autonoma che si affidi ad un criterio equitativo denominato “puro” (ancorché pur sempre correlato alle circostanze del caso concreto), che tenga conto della sofferenza interiore psichica di massimo livello generata dalla consapevolezza dell'approssimarsi della fine della propria vita. La liquidazione di tale posta risarcitoria deve essere effettuata secondo criteri di proporzionalità e di equità adeguati alla sua particolare rilevanza ed entità, nonché all'enormità del pregiudizio sofferto a livello psichico nella determinata circostanza (così, anche, Cass. n. 23183/2014).

La Corte stabilisce, altresì, che la durata di tale consapevolezza non rileva ai fini della sussistenza del danno catastrofale e della sua oggettiva configurabilità, ma soltanto ai fini della quantificazione, secondo i suindicati criteri di proporzionalità e di equità (cfr. Cass. n. 16592/2019; Cass. n. 23153/2019; Cass. n. 21837/2019).

La Suprema Corte, inoltre, per assicurare una certa uniformità di trattamento a livello nazionale di quest'ultima voce di danno, reputa necessario fare riferimento al criterio di liquidazione adottato dal Tribunale di Milano, sia per l'ampia diffusione sul territorio nazionale delle relative tabelle, sia per il riconoscimento attribuito alle stesse dalla stessa giurisprudenza di legittimità, che, in applicazione dell'art. 3 Cost., le ha adottate quale parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico a norma degli artt. 1226 e 2056 c.c., salvo che non sussistano, in concreto, circostanze idonee a giustificarne l'abbandono (Cass. n. 12408/2011; Cass. n. 27562/2017; Cass. n. 9950/2017).

In conclusione, dunque, mentre per la prima tipologia di danno esaminato (danno biologico terminale), la liquidazione può essere effettuata sulla base delle tabelle relative all'inabilità temporanea, per la seconda tipologia (danno morale catastrofale), la natura peculiare del pregiudizio comporta la necessità di una liquidazione che si affidi ad un criterio equitativo puro, che tenga conto della "enormità" del pregiudizio, giacché tale danno, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità e, per uniformità, ben potranno applicarsi le Tabelle milanesi (cfr. Cass. n. 23183/2014; Cass. n. 15491/2014).

La sentenza impugnata, dunque, ad avviso della Corte di legittimità, ha errato nel non tenere conto del criterio di liquidazione individuato nelle tabelle che stimano l'inabilità temporanea assoluta con opportuni "fattori di personalizzazione", quale parametro di conformità della valutazione equitativa del danno alle disposizioni degli artt. 1226 e 2056 c.c., e nel non considerare la duplice componente fenomenologica del danno sottoposto al proprio giudizio, sia con riferimento agli effetti che la lesione del diritto della salute ha comportato nella dimensione fisica e dinamico-relazionale del soggetto danneggiato, sia alle conseguenze subite dallo stesso nella sua sfera interiore, sub specie di sofferenza, di paura, di angoscia, di disperazione, anche in considerazione del prevedibile e consapevole esito letale.

Nella motivazione si legge che la disparità di trattamento in materia risulta tanto più irragionevole, perché destinata a consumarsi nella sfera protetta dal riconoscimento costituzionale del diritto alla salute, quale diritto fondamentale ed inviolabile della persona; proprio dal nucleo irriducibile di tale diritto discende il principio dell'integrale riparazione del pregiudizio quale aspetto essenziale della tutela risarcitoria dei valori non patrimoniali dell'individuo. Nel caso di specie, invece, la Corte d'appello aveva ricondotto a nozione unitaria il pregiudizio del dante causa, identificandolo quale danno biologico terminale e assorbendo in esso sia il danno da lucida agonia (o morale catastrofale) sia quello biologico temporaneo.

In forza di quanto sopra, la sentenza d'appello deve essere cassata, con rinvio al giudice indicato nel dispositivo, che dovrà procedere ad una rinnovata liquidazione del danno non patrimoniale iure hereditatis, uniformandosi ai principi sopra enunciati.

Osservazioni

Come noto, in caso di incidenti stradali, infortuni mortali sul lavoro (come nel caso di specie) o decessi per responsabilità sanitaria, i familiari delle vittime hanno diritto ad ottenere il risarcimento iure successionis per le sofferenze patite dal danneggiato e, iure proprio, per la perdita subìta.

In tali casi, cioè, normalmente, i parenti, oltre a vantare un diritto proprio volto al risarcimento del danno da lesione del vincolo parentale, ereditano il diritto al risarcimento maturato dal defunto per la lesione al diritto alla salute e per la sofferenza psichica patita prima di morire.

In tema di “danni da morte”, qualora intercorra “un apprezzabile lasso di tempo” tra le lesioni e la morte causata dalle stesse, è configurabile, secondo la giurisprudenza, un danno biologico risarcibile, da liquidarsi in relazione alla temporanea menomazione della integrità psicofisica patita dal danneggiato sino al momento del decesso.

Tale danno, in particolare, qualificabile come “danno biologico terminale”, dà luogo ad una pretesa risarcitoria trasmissibile iure hereditatis, da commisurare soltanto all'inabilità temporanea; occorre, tuttavia, adeguare la liquidazione alle circostanze del caso concreto, ossia al fatto che, quantunque temporaneo, tale danno è massimo nella sua intensità ed entità, tanto che la lesione alla salute non è suscettibile di recupero, esitando nella morte (Cass. n. 15491/2014).

Questa voce di danno è configurabile, come detto, solo se, tra la lesione e la morte da essa derivante, intercorra un “apprezzabile lasso temporale”, non potendosi ammettere il danno biologico terminale in caso di morte immediata.
Occorre, in sostanza, una netta separazione tra la lesione e la morte, poiché, in caso di morte immediata, il danno biologico temporaneo non è in grado di entrare a far parte della sfera giuridica del danneggiato e, conseguentemente, non può essere trasmesso iure hereditatis a seguito della sua dipartita.

Il danno biologico terminale va, tuttavia, tenuto distinto dal c.d. “danno catastrofale”(sull'autonomia ontologica dei predetti danni, cfr. Cass. civ., sez. III, 21 marzo 2013, n. 7126; Cass. civ., Sez. III 14 maggio 2014, n. 10524).
Occorre, infatti, ribadire che, in caso di evento che abbia determinato il decesso non immediato della vittima, al danno biologico terminale (consistente, appunto, in un danno biologico da inabilità temporanea totale, che si protrae dalla data dell'evento lesivo fino a quella del decesso e che non necessariamente richiede l'elemento della lucidità e consapevolezza), può sommarsi, se il danneggiato è lucido e consapevole dell'approssimarsi del proprio decesso, una componente di sofferenza psichica, che prende il nome di “danno (morale) catastrofale” (detto anche da lucida agonia).

Il danno catastrofale viene ricondotto, dalla giurisprudenza più recente, al “danno morale soggettivo”, inteso come cosciente e lucida percezione, nonché attesa, dello spegnimento della propria vita, trattandosi di pregiudizio che presenta, all'evidenza, una notevole intensità in termini di sofferenza.

La paura dell'incombenza della morte - provata da chi abbia patito lesioni personali e si renda conto che esse saranno letali - è risarcibile soltanto se la vittima sia stata in grado di comprendere che la propria fine è imminente; sicché, in difetto di tale consapevolezza, non è concepibile l'esistenza del danno in questione, a nulla rilevando che la morte sia stata effettivamente causata da lesioni. Circa i criteri di liquidazione, ci si potrà riferire alle Tabelle elaborate dall'Osservatorio di Milano sul “danno terminale”.

Questi importanti principi sono stata sanciti dalle Sezioni Unite della Cassazione n. 15350, del 22 luglio 2015 (e ribaditi nella pronuncia di San Martino n. 28989/2019), ove già si sottolineava che, nel caso in cui, tra la lesione e la morte, si interponga un apprezzabile lasso di tempo, tale periodo giustifica il riconoscimento in favore del danneggiato del c.d. danno biologico terminale, cioè del danno biologico stricto sensu (ovvero del danno al bene salute); a questo danno, nell'unitarietà del genus danno non patrimoniale, può poi aggiungersi il risarcimento di un danno morale peculiare improntato alla fattispecie (c.d. “danno morale terminale o catastrofale o da lucida agonia”) ovvero il danno da percezione della fine della vita, concretizzabile sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni, sia nella sofferenza psicologica (agonia) derivante dall'avvertita imminenza dell'exitus, a condizione che nel tempo intercorrente tra la lesione ed il decesso, la persona si trovi in una condizione di “lucidità agonica”, cioè in grado di percepire la propria situazione ed, in particolare, l'imminenza della morte, ed essendo, quindi, irrilevante, a fini risarcitori, il lasso di tempo intercorso tra la lesione personale ed il decesso qualora la persona sia rimasta manifestamente lucida.

Ai fini, cioè, della sussistenza del danno catastrofale, la durata di tale consapevolezza non rileva ai fini della sua oggettiva configurabilità, ma unicamente per la sua quantificazione.

Difatti, il danno catastrofale può essere riconosciuto agli eredi della vittima primaria dell'illecito sia in presenza di un apprezzabile lasso di tempo tra l'evento lesivo e il decesso (e, quindi, può essere liquidato in aggiunta al danno biologico terminale), sia nel caso in cui non sussista un lasso di tempo giuridicamente apprezzabile per dar corso al riconoscimento del danno biologico terminale (Cass. civ., Sez. III, 16 novembre 2011, n. 24016; Cass. civ., Sez. III, 20 settembre 2011, n. 19133). Sebbene, infatti, la brevità del periodo di sopravvivenza alle lesioni escluda la apprezzabilità, a fini risarcitori, del deterioramento del diritto alla salute (precludendo la configurabilità di un danno biologico risarcibile), non può escludersi, ma va provato, che la vittima abbia potuto percepire le conseguenze catastrofiche delle lesioni subite e patirne la sofferenza, sicché il diritto al risarcimento risulta già acquisito nel suo patrimonio al momento della morte e, di conseguenza, può essere fatto valere iure hereditatis dagli eredi (Cass. civ., sez. un, 22 luglio 2015, n. 15350). Come afferma la dottrina (cfr. D. SPERA, La lucida agonia del danno tanatologico in attesa delle Sezioni Unite, in Ridare.it.), ad assumere rilievo quale criterio per la configurabilità del danno catastrofale non è, dunque, la sussistenza di un apprezzabile intervallo di tempo tra l'evento lesivo ed il decesso della vittima, ma l'intensità della sofferenza provata (cfr. anche Cass. civ., sez. III, 20 agosto 2015, n. 16993, e Cass. civ., sez. III, 2 aprile 2001 n. 4783), in quanto le lesioni mortali producono, secondo l'esperienza medico-legale e psichiatrica, un danno “catastrofico” per intensità a carico del moriturus, che attende lucidamente l'estinzione della propria vita.

La sofferenza e la disperazione, infatti, possono essere apprezzate dalla vittima, ovviamente se cosciente, pur nel breve intervallo delle residue speranze di vita.