Come noto, in caso di incidenti stradali, infortuni mortali sul lavoro (come nel caso di specie) o decessi per responsabilità sanitaria, i familiari delle vittime hanno diritto ad ottenere il risarcimento iure successionis per le sofferenze patite dal danneggiato e, iure proprio, per la perdita subìta.
In tali casi, cioè, normalmente, i parenti, oltre a vantare un diritto proprio volto al risarcimento del danno da lesione del vincolo parentale, ereditano il diritto al risarcimento maturato dal defunto per la lesione al diritto alla salute e per la sofferenza psichica patita prima di morire.
In tema di “danni da morte”, qualora intercorra “un apprezzabile lasso di tempo” tra le lesioni e la morte causata dalle stesse, è configurabile, secondo la giurisprudenza, un danno biologico risarcibile, da liquidarsi in relazione alla temporanea menomazione della integrità psicofisica patita dal danneggiato sino al momento del decesso.
Tale danno, in particolare, qualificabile come “danno biologico terminale”, dà luogo ad una pretesa risarcitoria trasmissibile iure hereditatis, da commisurare soltanto all'inabilità temporanea; occorre, tuttavia, adeguare la liquidazione alle circostanze del caso concreto, ossia al fatto che, quantunque temporaneo, tale danno è massimo nella sua intensità ed entità, tanto che la lesione alla salute non è suscettibile di recupero, esitando nella morte (Cass. n. 15491/2014).
Questa voce di danno è configurabile, come detto, solo se, tra la lesione e la morte da essa derivante, intercorra un “apprezzabile lasso temporale”, non potendosi ammettere il danno biologico terminale in caso di morte immediata.
Occorre, in sostanza, una netta separazione tra la lesione e la morte, poiché, in caso di morte immediata, il danno biologico temporaneo non è in grado di entrare a far parte della sfera giuridica del danneggiato e, conseguentemente, non può essere trasmesso iure hereditatis a seguito della sua dipartita.
Il danno biologico terminale va, tuttavia, tenuto distinto dal c.d. “danno catastrofale”(sull'autonomia ontologica dei predetti danni, cfr. Cass. civ., sez. III, 21 marzo 2013, n. 7126; Cass. civ., Sez. III 14 maggio 2014, n. 10524).
Occorre, infatti, ribadire che, in caso di evento che abbia determinato il decesso non immediato della vittima, al danno biologico terminale (consistente, appunto, in un danno biologico da inabilità temporanea totale, che si protrae dalla data dell'evento lesivo fino a quella del decesso e che non necessariamente richiede l'elemento della lucidità e consapevolezza), può sommarsi, se il danneggiato è lucido e consapevole dell'approssimarsi del proprio decesso, una componente di sofferenza psichica, che prende il nome di “danno (morale) catastrofale” (detto anche da lucida agonia).
Il danno catastrofale viene ricondotto, dalla giurisprudenza più recente, al “danno morale soggettivo”, inteso come cosciente e lucida percezione, nonché attesa, dello spegnimento della propria vita, trattandosi di pregiudizio che presenta, all'evidenza, una notevole intensità in termini di sofferenza.
La paura dell'incombenza della morte - provata da chi abbia patito lesioni personali e si renda conto che esse saranno letali - è risarcibile soltanto se la vittima sia stata in grado di comprendere che la propria fine è imminente; sicché, in difetto di tale consapevolezza, non è concepibile l'esistenza del danno in questione, a nulla rilevando che la morte sia stata effettivamente causata da lesioni. Circa i criteri di liquidazione, ci si potrà riferire alle Tabelle elaborate dall'Osservatorio di Milano sul “danno terminale”.
Questi importanti principi sono stata sanciti dalle Sezioni Unite della Cassazione n. 15350, del 22 luglio 2015 (e ribaditi nella pronuncia di San Martino n. 28989/2019), ove già si sottolineava che, nel caso in cui, tra la lesione e la morte, si interponga un apprezzabile lasso di tempo, tale periodo giustifica il riconoscimento in favore del danneggiato del c.d. danno biologico terminale, cioè del danno biologico stricto sensu (ovvero del danno al bene salute); a questo danno, nell'unitarietà del genus danno non patrimoniale, può poi aggiungersi il risarcimento di un danno morale peculiare improntato alla fattispecie (c.d. “danno morale terminale o catastrofale o da lucida agonia”) ovvero il danno da percezione della fine della vita, concretizzabile sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni, sia nella sofferenza psicologica (agonia) derivante dall'avvertita imminenza dell'exitus, a condizione che nel tempo intercorrente tra la lesione ed il decesso, la persona si trovi in una condizione di “lucidità agonica”, cioè in grado di percepire la propria situazione ed, in particolare, l'imminenza della morte, ed essendo, quindi, irrilevante, a fini risarcitori, il lasso di tempo intercorso tra la lesione personale ed il decesso qualora la persona sia rimasta manifestamente lucida.
Ai fini, cioè, della sussistenza del danno catastrofale, la durata di tale consapevolezza non rileva ai fini della sua oggettiva configurabilità, ma unicamente per la sua quantificazione.
Difatti, il danno catastrofale può essere riconosciuto agli eredi della vittima primaria dell'illecito sia in presenza di un apprezzabile lasso di tempo tra l'evento lesivo e il decesso (e, quindi, può essere liquidato in aggiunta al danno biologico terminale), sia nel caso in cui non sussista un lasso di tempo giuridicamente apprezzabile per dar corso al riconoscimento del danno biologico terminale (Cass. civ., Sez. III, 16 novembre 2011, n. 24016; Cass. civ., Sez. III, 20 settembre 2011, n. 19133). Sebbene, infatti, la brevità del periodo di sopravvivenza alle lesioni escluda la apprezzabilità, a fini risarcitori, del deterioramento del diritto alla salute (precludendo la configurabilità di un danno biologico risarcibile), non può escludersi, ma va provato, che la vittima abbia potuto percepire le conseguenze catastrofiche delle lesioni subite e patirne la sofferenza, sicché il diritto al risarcimento risulta già acquisito nel suo patrimonio al momento della morte e, di conseguenza, può essere fatto valere iure hereditatis dagli eredi (Cass. civ., sez. un, 22 luglio 2015, n. 15350). Come afferma la dottrina (cfr. D. SPERA, La lucida agonia del danno tanatologico in attesa delle Sezioni Unite, in Ridare.it.), ad assumere rilievo quale criterio per la configurabilità del danno catastrofale non è, dunque, la sussistenza di un apprezzabile intervallo di tempo tra l'evento lesivo ed il decesso della vittima, ma l'intensità della sofferenza provata (cfr. anche Cass. civ., sez. III, 20 agosto 2015, n. 16993, e Cass. civ., sez. III, 2 aprile 2001 n. 4783), in quanto le lesioni mortali producono, secondo l'esperienza medico-legale e psichiatrica, un danno “catastrofico” per intensità a carico del moriturus, che attende lucidamente l'estinzione della propria vita.
La sofferenza e la disperazione, infatti, possono essere apprezzate dalla vittima, ovviamente se cosciente, pur nel breve intervallo delle residue speranze di vita.