Gli assegni familiari rientrano nell'ambito delle misure di sicurezza sociale con conseguente divieto di discriminazione

08 Febbraio 2023

L'articolo 4 del regolamento (CE) n. 883/2004 relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, deve essere interpretato nel senso che osta alla normativa di uno Stato membro in forza della quale a un cittadino dell'Unione avente la cittadinanza di un altro Stato membro, che abbia stabilito la residenza abituale nel territorio del primo Stato membro e che sia economicamente inattivo in quanto non vi svolge un'attività lavorativa remunerata, viene negato il beneficio di «prestazioni familiari», durante i primi tre mesi del suo soggiorno nel territorio di tale Stato membro, mentre un cittadino economicamente inattivo del medesimo Stato membro beneficia di tali prestazioni anche durante i primi tre mesi dal suo rientro nel medesimo Stato membro, dopo essersi avvalso, in forza del diritto dell'Unione, del suo diritto di circolare e di soggiornare in un altro Stato membro...
Massima

L'articolo 4 del regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, deve essere interpretato nel senso che osta alla normativa di uno Stato membro in forza della quale a un cittadino dell'Unione avente la cittadinanza di un altro Stato membro, che abbia stabilito la residenza abituale nel territorio del primo Stato membro e che sia economicamente inattivo in quanto non vi svolge un'attività lavorativa remunerata, viene negato il beneficio di «prestazioni familiari», ai sensi dell'articolo 3, paragrafo 1, lettera j), di detto regolamento, letto in combinato disposto con l'articolo 1, lettera z), del medesimo regolamento, durante i primi tre mesi del suo soggiorno nel territorio di tale Stato membro, mentre un cittadino economicamente inattivo del medesimo Stato membro beneficia di tali prestazioni anche durante i primi tre mesi dal suo rientro nel medesimo Stato membro, dopo essersi avvalso, in forza del diritto dell'Unione, del suo diritto di circolare e di soggiornare in un altro Stato membro.

L'articolo 24, paragrafo 2, della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE, deve essere interpretato nel senso che esso non è applicabile a una tale normativa.

Il caso e la questione giuridica

La sig.ra S., cittadina bulgara, madre di tre figli e coniugata, stabilisce dal mese di agosto 2019 la residenza della propria famiglia a Bremerhaven (città tedesca nei pressi di Brema) e a ottobre 2019 presenta alla Cassa per gli assegni familiari domanda di assegni familiari per i tre figli con decorrenza dall' 1.8.2019.

La Cassa respinge la domanda invocando la normativa nazionale (art. 62 par. 1a dell'Einkommensteurgesetz) che nega il beneficio al cittadino dell'Unione europea che si trasferisca in Germania per i primi tre mesi successivi, se non abbia in tale periodo percepito alcun reddito.

Respinto il reclamo presentato alla Cassa, la sig.ra S. adisce il Finanzgericht Bremen (Tribunale tributario di Brema) il quale solleva questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia in ordine alla conformità del diritto tedesco al diritto europeo.

Il Tribunale tributario di Brema sottopone quindi alla Corte di Giustizia la seguente questione pregiudiziale:

«Se l'articolo 24 della direttiva [2004/38] e l'articolo 4 del regolamento [n. 883/2004] debbano essere interpretati nel senso che ostano alla normativa di uno Stato membro ai sensi della quale un cittadino di un altro Stato membro, che abbia stabilito un domicilio o la propria residenza abituale nel territorio del primo Stato e non dimostri di percepire, all'interno di detto Stato, redditi [...], non ha diritto, nei primi tre mesi dalla data in cui ha ivi stabilito il domicilio o la residenza abituale, a prestazioni familiari [...], mentre un cittadino dello Stato membro interessato che si trovi nella stessa situazione ha diritto a prestazioni familiari [...] senza dover dimostrare di percepire, all'interno di detto Stato, redditi [...]».

Le soluzioni giuridiche

rLa Corte affronta la questione sottopostale, partendo dall'esame delle disposizioni che regolano il diritto di circolazione e soggiorno dei cittadini dell'Unione europea e rileva che la direttiva 2004/38 (relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri) afferma all'art. 6 che i cittadini dell'Unione hanno il diritto di soggiornare nel territorio di un altro Stato membro per un periodo non superiore a tre mesi senza alcuna condizione o formalità, salvo il possesso di una carta d'identità o di un passaporto in corso di validità, finché – come precisa l'art. 14 della stessa direttiva – non diventano un onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale dello Stato membro ospitante.

Il soggiorno della sig.ra S. e della sua famiglia in Germania era dunque, nel primo trimestre, conforme al diritto dell'unione europea.

Il ragionamento della Corte prosegue, poi, affrontando il tema della qualificazione della prestazione rivendicata, atteso che la facoltà di limitare il diritto alla prestazione, e dunque di deroga al divieto di discriminazione dei cittadini dell'unione europea in base alla nazionalità, è prevista per i primi tre mesi di soggiorno unicamente con riferimento alle prestazioni di assistenza sociale ai sensi dell'art. 24, par. 2, dir. 2004/38 e non per le prestazioni di sicurezza sociale rientranti nell'ambito di applicazione del regolamento n. 883/2004.

La prestazione rivendicata dalla sig.ra S, qualificata dal diritto tedesco in termini di “assegni familiari”, rientra nella nozione di “prestazioni familiari” come definita dall'art. 1 lett. z) reg. 883/2004 (relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale) e dall'art. 3 par. 1 lett. J), trattandosi di prestazione attribuita automaticamente alle famiglie che rispondono a determinati criteri obiettivi, riguardanti in particolare le loro dimensioni, il loro reddito e le loro risorse di capitale, prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale dei bisogni personali, e destinate a compensare i carichi familiari.

Risolte in tal senso le questioni preliminari, la Corte procede ad esaminare la conformità del diritto tedesco con il diritto europeo confrontandosi, da un lato con l'art. 4 reg. 883/2004 che sancisce la regola della parità di trattamento (“salvo quanto diversamente previsto dal presente regolamento, le persone alle quali si applica il presente regolamento godono delle stesse prestazioni e sono soggette agli stessi obblighi di cui alla legislazione di ciascuno Stato membro, alle stesse condizioni dei cittadini di tale Stato”) in materia di sicurezza sociale e, dall'altro, con l'art. 24 dir. 2004/38 che, nell'affermare la stessa regola di parità di trattamento in materia di circolazione e soggiorno dei cittadini dell'Unione europea per i cittadini di uno Stato membro che risiedano in altro Stato membro in conformità alle disposizioni contenute nella direttiva stessa, prevede, nel secondo paragrafo la deroga per cui lo Stato membro ospitante non è tenuto ad attribuire al cittadino di un altro Stato membro il diritto a prestazioni d'assistenza sociale durante i primi tre mesi di soggiorno (“1. Fatte salve le disposizioni specifiche espressamente previste dal trattato e dal diritto derivato, ogni cittadino dell'Unione che risiede, in base alla presente direttiva, nel territorio dello Stato membro ospitante gode di pari trattamento rispetto ai cittadini di tale Stato nel campo di applicazione del trattato. Il beneficio di tale diritto si estende ai familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente. 2. In deroga al paragrafo 1, lo Stato membro ospitante non è tenuto ad attribuire il diritto a prestazioni d'assistenza sociale durante i primi tre mesi di soggiorno o, se del caso, durante il periodo più lungo previsto all'articolo 14, paragrafo 4, lettera b), [...]”).

Partendo da quest'ultima disposizione, la Corte sottolinea che la deroga è prevista espressamente con riferimento alle “prestazioni d'assistenza sociale”, nozione che rimanda all'insieme dei regimi di assistenza istituiti da autorità pubblica, a cui può ricorrere un soggetto che non disponga delle risorse sufficienti a far fronte ai bisogni elementari propri e a quelli della sua famiglia e che rischia, per questo, di diventare, durante il suo soggiorno un onere per le finanze pubbliche dello Stato membro ospitante che potrebbe produrre conseguenze sul livello globale dell'aiuto che può essere concesso da tale Stato.

Non rientrano in tale nozione le prestazioni familiari in quanto la loro concessione è slegata dallo stato di bisogno individuale del beneficiario e non mirano a garantire i mezzi di sussistenza di quest'ultimo.

L'estensione analogica della deroga in parola agli assegni familiari è preclusa, in quanto le limitazioni al principio di parità di trattamento previsto dall'art. 18, co. 1, TFUE (di cui l'art. 24 par. 1 dir. 2004/38 costituisce solo una specificazione) devono essere interpretate restrittivamente e in conformità con le disposizioni del Trattato, ivi incluse quelle relative alla cittadinanza dell'Unione.

Né l'interpretazione letterale, né quella sistematica consentono peraltro tale estensione. Sotto il primo aspetto, l'art. 24 parla espressamente di “prestazioni d'assistenza sociale”. Sotto il profilo sistematico, poi, l'interpretazione restrittiva appare coerente con quanto indicato dall'art. 14 della direttiva in esame, che ammette deroghe alla libertà di circolazione del cittadino e dei suoi familiari finché non diventano un onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale dello Stato membro ospitante.

Non potendo l'assegno familiare previsto dal diritto tedesco rientrare nella nozione di prestazione d'assistenza sociale, esso ricade sotto la disciplina delle misure di sicurezza sociale e, in particolare, nel divieto di discriminazione in base alla nazionalità previsto dall'art. 4 dir. 2004/38 che, per il primo trimestre di residenza, non ammette alcuna facoltà di deroga da parte degli Stati membri.

La Corte conclude quindi affermando che un cittadino di uno Stato membro può beneficiare degli assegni familiari in Germania anche nel primo trimestre dallo spostamento della residenza in tale Paese, pur se in tale periodo non abbia percepito alcun reddito, dovendosi ritenere il suo soggiorno legittimo in conformità all'art. 6 dir. 2004/38 e non ammettendo il divieto di discriminazione previsto dall'art. 4 reg. 883/2004 in materia di prestazioni di sicurezza sociale deroghe durante tale soggiorno.

Osservazioni: 1. Diritto di soggiorno nei primi tre mesi ai sensi dell'art. 6 dir. 2004/38; 2. Nozione di “prestazioni d'assistenza sociale” e divieto di applicazione analogica della deroga prevista dall'art. 24 par. 2 alle prestazioni familiari; 3. Gli assegni familiari nel diritto tedesco. Richiami al diritto italiano; 4 Il divieto di discriminazione in materia di “sicurezza sociale”

1. Diritto di soggiorno nei primi tre mesi ai sensi dell'art. 6 dir. 2004/38

La Corte di giustizia affronta la prima questione preliminare, rilevando che il principio di non discriminazione del cittadino di uno Stato dell'Unione europea che risieda in un altro Stato membro è previsto in via generale dall'art. 24, par. 1, a condizione che il cittadino di altro Strato membro risieda nell'altro Stato membro “in base alla presente direttiva”, ovvero nel rispetto delle limitazioni ivi previste. (par. 42 della sentenza in commento, che richiama sul punto le sentenze dell'11 novembre 2014, Dano, C-333/13, punto 69, nonché del 25 febbraio 2016, García-Nieto e a., C-299/14, punto 38e giurisprudenza ivi citata).

Sul punto occorre premettere che tra i diritti di cui godono i cittadini europei (art. 20, par. 2 lett. a) TFUE), vi è quello di circolare e soggiornale liberamente nel territorio degli Stati membri, diritto suscettibile di limitazioni e condizioni, secondo quanto previsto dall'art. 21 TFUE, che rimanda alle limitazioni contenute nei trattati e nelle disposizioni adottate in applicazione degli stessi (sentenze del 20 settembre 2001, Grzelczyk, C-184/99, punti 32e 33; del 21 febbraio 2013, N., C-46/12, punto 28, nonché del 15 luglio 2021, C-535/19, punti 40 e 42).

Con precipuo riferimento alla libera circolazione dei lavoratori (art. 45 par. 1 TFUE), il Trattato ammette limitazioni che siano giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica (art. 45 par. 3 TFUE).

La direttiva 2004/38 regola il diritto dei cittadini dell'Unione europea e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, precisando che i cittadini dell'Unione dovrebbero aver il diritto di soggiornare nello Stato membro ospitante per un periodo non superiore a tre mesi senza altra formalità o condizione che il possesso di una carta d'identità o di un passaporto in corso di validità, fatto salvo un trattamento più favorevole applicabile ai richiedenti lavoro, come riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia (considerando n. 9); e che occorre tuttavia evitare che coloro che esercitano il loro diritto di soggiorno diventino un onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale dello Stato membro ospitante durante il periodo iniziale di soggiorno. Pertanto, il diritto di soggiorno dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari per un periodo superiore a tre mesi dovrebbe essere subordinato a condizioni (considerando n. 10).

La direttiva prevede, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, «un sistema graduale per quanto riguarda il diritto di soggiorno nello Stato membro ospitante, il quale, riprendendo sostanzialmente le fasi e le condizioni previste nei diversi strumenti del diritto dell'Unione e nella giurisprudenza anteriori a tale direttiva, sfocia nel diritto di soggiorno permanente». V., segnatamente, sentenza del 21 dicembre 2011, Ziolkowski e Szeja (C-424/10 e C-425/10, EU:C:2011:866, punti 38 e 39).

La sentenza in commento precisa, in replica alle obiezioni mosse dalla Commissione (si v. parr. 44 delle conclusioni dell'avvocato generale Maciej Szupnar presentate il 16.12.2021), che il soggiorno di un cittadino economicamente inattivo di uno Stato membro, in altro Stato membro, deve ritenersi in base al disposto dell'art. 6 della direttiva 2044/38 legittimo nei primi tre mesi senza alcuna condizione o formalità, salvo il possesso di una carta d'identità o di un passaporto in corso di validità (parr. 30, 31 e 32 della sentenza in commento).

Al cittadino che si trovi nelle condizioni di cui all'art. 6 della direttiva 2004/38 va riconosciuto pertanto il diritto di non discriminazione ai sensi dell'art. 24 par. 1 della medesima direttiva.

2. Nozione di “prestazioni d'assistenza sociale” e divieto di applicazione analogica della deroga prevista dall'art. 24 par. 2 alle prestazioni familiari

Come si è detto, l'art. 24 dir. 2004/38, dopo avere affermato il divieto di discriminazione dei cittadini dell'Unione che risiedano in uno Stato membro diverso da quello di provenienza (purché il soggiorno sia conforme alle regole stabilite dalla direttiva stessa), introduce nel secondo paragrafo una deroga, affermando che lo Stato membro ospitante non è tenuto ad attribuire il diritto a prestazioni d'assistenza sociale durante i primi tre mesi di soggiorno o, se del caso, durante il periodo più lungo previsto all'articolo 14, paragrafo 4, lettera b), della direttiva stessa.

Per quanto concerne la nozione di prestazioni d'assistenza sociale richiamata dall'art. 24 par. 2, la sentenza in esame, richiamando quanto già affermato in altro precedente, precisa che tale nozione va interpretata “nel senso che essa rinvia all'insieme dei regimi di assistenza istituiti da autorità pubbliche a livello nazionale, regionale o locale, a cui può ricorrere un soggetto che non disponga delle risorse economiche sufficienti a far fronte ai bisogni elementari propri e a quelli della sua famiglia e che rischia, per questo, di diventare, durante il suo soggiorno, un onere per le finanze pubbliche dello Stato membro ospitante che potrebbe produrre conseguenze sul livello globale dell'aiuto che può essere concesso da tale Stato (v., in tal senso, sentenze Bildar, cit., punto 56; Eind, cit., punto 29, e Förster, cit., punto 48, nonché, per analogia, sentenze del 4 marzo 2010, Chakroun, C-578/08, Racc. pag. I-1839, punto 46, e Kamberaj, cit., punto 91)” (CGUE sentenza del 19 settembre 2013, Brey, C-140/12, punto 61; nello stesso senso CGUE 11 novembre 2014, Dano, C-333/13, , punto 63).

La sentenza CGUE 6 ottobre 2020, Jobcenter Krefeld, C-181/19, punto 57, ha ribadito che le prestazioni di sussistenza, che mirano a conferire ai loro beneficiari il minimo dei mezzi di sussistenza necessari per condurre una vita conforme alla dignità umana, devono essere considerate alla stregua di «prestazioni d'assistenza sociale» ai sensi dell'articolo 24, paragrafo 2, della direttiva 2004/38.

La Corte precisa, poi (par. 50), che in quanto deroga al principio della parità di trattamento previsto dall'articolo 18, primo comma, TFUE, di cui l'articolo 24, paragrafo 1, della direttiva 2004/38 costituisce solamente espressione specifica, il paragrafo 2 di tale articolo 24 deve essere interpretato restrittivamente ed in conformità con le disposizioni del Trattato, ivi incluse quelle relative alla cittadinanza dell'Unione (v., in tal senso, sentenze del 21 febbraio 2013, N., C-46/12, punto 33, e del 6 ottobre 2020, Jobcenter Krefeld, C-181/19, punto 60).

Ne consegue che la deroga prevista dall'art. 24 par. 2 può essere riferita soltanto alle prestazioni di assistenza sociale e non alle misure di sicurezza sociale di cui al reg. n. 883/2004.

3. Gli assegni familiari nel diritto tedesco. Richiami al diritto italiano

La controversia oggetto della pronuncia in commento riguarda la concessione, da parte dello Stato tedesco, di assegni familiari.

L'art. 62, par. 1a, dell'Einkommensteurgesetz tedesco nega il beneficio dell'assegno familiare al cittadino dell'Unione europea che si trasferisca in Germania per i primi tre mesi successivi, se non abbia in tale periodo percepito alcun reddito.

A tal riguardo, la Corte rammenta che si considerano «prestazioni familiari», ai sensi dell'articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento n. 883/2004, letto in combinato disposto con l'articolo 1, lettera z), del medesimo regolamento, le prestazioni attribuite automaticamente alle famiglie che rispondono a determinati criteri obiettivi, riguardanti in particolare le loro dimensioni, il loro reddito e le loro risorse di capitale, prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale dei bisogni personali, e destinate a compensare i carichi familiari (v., in tal senso, sentenze del 14 giugno 2016, Commission/Royaume-Uni, C-308/14, EU:C:2016:436, punto 60, nonché del 21 giugno 2017, Martinez Silva, C-449/16, EU:C:2017:485, punto 22).

Dalla domanda di pronuncia pregiudiziale risulta altresì che è quanto si verifica nel caso degli assegni familiari come disciplinati dal diritto tedesco, dato che questi ultimi sono concessi ai loro beneficiari sulla base di una situazione legalmente definita, “indipendente dai loro bisogni personali”, e che la loro concessione non mira a garantire i loro mezzi di sussistenza, bensì a compensare i carichi familiari.

La riconducibilità dell'analogo istituto italiano alla nozione di misura di sicurezza sociale o di assistenza sociale in base alle disposizioni europee richiamate (art. 4 reg. n. 883/2004 e art. 24 par. 2 dir. 2004/38), appare non del tutto agevole alla luce delle seguenti considerazioni.

Da un lato, parrebbe che anche l'assegno per il nucleo familiare come delineato dall'art. 2 d.l. n. 69/1988, conv. in l . n. 153/1988, possa rientrare nella nozione di misura di sicurezza sociale ai sensi del reg. 883/2004, essendo riconosciuto in misura differenziata in rapporto al numero dei componenti ed al reddito del nucleo familiare, prescindendo, anche in questo caso, da ogni valutazione individuale e discrezionale dei bisogni personali, ed essendo destinata la prestazione a compensare i carichi familiari. A sostegno di tale tesi depone l'opinione dottrinale che, dopo avere rilevato come sia stata a lungo controversa la natura giuridica della prestazione in esame, appare ormai comunemente accettata la natura previdenziale degli assegni (Cinelli, Diritto della Previdenza sociale, 2012, Giappichelli, pag. 613).

Dall'altro lato, occorre evidenziare che la giurisprudenza di legittimità, chiamata a decidere in ordine all'estensione del diritto alla prestazione in parola ai cittadini stranieri soggiornanti di lungo periodo in Italia i cui familiari risiedano all'estero, ha affermato che l'assegno al nucleo familiare rientra nel novero delle prestazioni assistenziali da considerarsi essenziali, e quindi attratte all'ambito della direttiva CE 2003/109, rispetto alle quali, in base all'art.11, paragrafo 4 della stessa, non è possibile da parte degli gli Stati membri limitare la parità di trattamento. Ha poi aggiunto che, comunque, l'Italia non ha espresso di volersi avvalere della deroga consentita dall'art.11 paragrafo 2 della direttiva (da ultimo, Cass. Sez. Lav., ord. 09/11/2022, n. 33016).

Si osserva, tuttavia, che la giurisprudenza di legittimità citata si fonda sulla pronuncia della Corte di Giustizia, quinta sezione, 25 novembre 2020, C-303/19 che, nell'affermare il medesimo principio di diritto, qualifica l'assegno per il nucleo familiare in termini di “prestazione di sicurezza sociale”, e non di assistenza sociale, invero senza motivare sul punto (anche perché rispetto alla normativa comunitaria applicata nel caso di specie, ovvero l'art. 11 dir. CE 2003/109, la distinzione non rileva a differenza di quanto avviene in materia di libertà di circolazione dei cittadini dell'Unione europea). Prende espressa posizione sul punto l'avvocato generale che nelle proprie conclusioni presentate l'11.6.2020 afferma, al par. 45, che “detto assegno rientra nella categoria della sicurezza sociale e non in quella dell'assistenza sociale o della protezione sociale, ai sensi di detta disposizione. Alla luce della sentenza Kamberaj, si tratta di una questione la cui valutazione spetta al giudice del rinvio. Tuttavia, vorrei sottolineare che, come precisato al paragrafo 42 delle mie conclusioni nella causa C‑302/19, siffatto assegno può essere considerato una prestazione di sicurezza sociale compresa tra le prestazioni familiari previste dall'articolo 3 del regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale ai fini dell'articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98”.

Invero, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, si rinvengono diverse pronunce che qualificano l'assegno per il nucleo familiare previsto dal diritto italiano (sulla scorta della stessa prospettazione dei giudici rimettenti, come precisato nella sentenza Kamberaj del 24 aprile 2012, C‑571/10, punti da 78 a 81) in termini di prestazione di sicurezza sociale, anziché di assistenza sociale. Così si è espressa la Corte di Giustizia, Quinta Sezione, 25 novembre 2020, C-302/19 nella causa INPS contro W.S., affermando che “il giudice del rinvio indica esso stesso che l'assegno per il nucleo familiare ha la natura di un trattamento previdenziale cui è applicabile l'articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98. Infatti, si tratta, secondo quanto detto giudice indica, di una prestazione in contanti concessa al di fuori di qualsiasi valutazione individuale e discrezionale delle necessità del richiedente, sulla base di una situazione definita per legge, finalizzata a compensare carichi di famiglia. Una tale prestazione costituisce una prestazione di sicurezza sociale, rientrante nel novero delle prestazioni familiari di cui all'articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento n. 883/2004” (par. 40). Considerazioni analoghe si rinvengono nella sentenza del 21 giugno 2017, Martinez Silva, C‑449/16, punti da 20 a 25.

Con l'ordinanza 9021/2019 di rimessione alla Corte di giustizia della causa (conclusa con la sentenza sopra citata nella causa C-303/19), la Corte di Cassazione ha evidenziato che l'assegno per il nucleo familiare di cui all'art. 2 della l. n. 153 del 1988realizza una compenetrazione tra strumenti previdenziali ed assistenziali e precisamente tra quelli posti a tutela per il carico di famiglia, con quelli apprestati a tutela di malattie, essendosi rivolta particolare attenzione a quei nuclei familiari che presentano aree di accentuata sofferenza in ragione di infermità che hanno colpito qualcuno del propri componenti”.

Sulla duplice natura dell'assegno per il nucleo familiare si è espressa più recentemente la Corte costituzionale con la sentenza n. 67/2022.

Ad avviso di chi scrive deve ritenersi che l'assegno per il nucleo familiare previsto dal diritto italiano, pur presentando una duplica natura (rilevante per il diritto interno) previdenziale ed assistenziale, rientri nella nozione comunitaria di “prestazione di sicurezza sociale” così come definita dalla sentenza in commento, in quanto prestazione attribuita “automaticamente alle famiglie che rispondono a determinati criteri obiettivi, riguardanti in particolare le loro dimensioni, il loro reddito e le loro risorse di capitale, prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale dei bisogni personali, e destinate a compensare i carichi familiari” (sentenza in commento, par. 34).

Da ciò deve desumersi la riferibilità del principio di diritto affermato dalla sentenza in commento ad una ipotetica disposizione normativa interna (inesistente de iure condito) che intendesse escludere il riconoscimento dell'assegno per il nucleo familiare ad un cittadino dell'Unione europea nei primi tre mesi dal trasferimento della residenza in Italia in caso di mancata percezione di redditi, esattamente come l'art. 62 par. 1a) dell'Einkommensteurgesetz tedesco è stato ritenuto contrario all'art. 4 reg. n. 883/2004.

Le considerazioni sopra svolte possono essere riferite anche all'assegno unico universale istituito dal d.lgs. n. 230/2021 che a decorrere dal 1° marzo 2022, ha istituito «l'assegno unico e universale per i figli a carico, che costituisce un beneficio economico attribuito, su base mensile, per il periodo compreso tra marzo di ciascun anno e febbraio dell'anno successivo, ai nuclei familiari sulla base della condizione economica del nucleo».

4. Il divieto di discriminazione in materia di “sicurezza sociale”

L'area di intervento dell'Unione europea in materia di sicurezza sociale è delimitata dagli artt. 151, 153 e 156 TFUE.

L'art. 151 include tra gli obiettivi dell'Unione europea e degli Stati membri “la promozione dell'occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro l'emarginazione”.

L'art. 153 precisa che la competenza dell'Unione europea in materia di sicurezza sociale deve essere esercitata in modo tale da non compromettere la facoltà riconosciuta agli Stati membri di definire i principi fondamentali del loro sistema di sicurezza sociale e non deve incidere sensibilmente sull'equilibrio finanziario dello stesso.

L'art. 156 ribadisce che l'Unione europea interviene in materia di sicurezza sociale incoraggiando la cooperazione tra gli Stati membri e facilitando il coordinamento della loro azione.

L'art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea afferma, nei suoi due primi commi, che “1. L'Unione riconosce e rispetta il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali che assicurano protezione in casi quali la maternità, la malattia, gli infortuni sul lavoro, la dipendenza o la vecchiaia, oltre che in caso di perdita del posto di lavoro, secondo le modalità stabilite dal diritto comunitario e le legislazioni e prassi nazionali.

2. Ogni individuo che risieda o si sposti legalmente all'interno dell'Unione ha diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”.

Il regolamento n. 883/2004 relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale rientra tra gli atti di hard law che mirano a definire un quadro comune di riferimento entro cui poter identificare di volta in volta il singolo regime nazionale applicabile. Esso non organizza un regime comune di sicurezza sociale, ma lascia sussistere regimi nazionali distinti e ha come unico obiettivo quello di assicurare un coordinamento tra questi ultimi al fine di garantire l'esercizio effettivo della libera circolazione delle persone e dei lavoratori (art. 45 TFUE).

È stato tuttavia recentemente ribadito che “sebbene, in mancanza di un'armonizzazione a livello dell'Unione, gli Stati membri conservino la loro competenza a disciplinare i loro sistemi di previdenza sociale e a determinare, segnatamente, in tale contesto, le condizioni cui è subordinato il diritto a prestazioni, tali Stati devono nondimeno rispettare il diritto dell'Unione nell'esercizio di tale competenza e, in particolare, le disposizioni del Trattato FUE relative alla libertà riconosciuta a qualsiasi cittadino dell'Unione di circolare e di soggiornare sul territorio degli Stati membri (v., in tal senso, sentenza del 14 marzo 2019, Vester, C‑134/18, EU:C:2019:212, punti da 29 a 31 e giurisprudenza ivi citata). D'altro lato, se i lavoratori migranti, a seguito dell'esercizio del loro diritto alla libera circolazione, dovessero essere privati dei vantaggi previdenziali garantiti loro dalle leggi di uno Stato membro, una conseguenza del genere potrebbe dissuaderli dall'esercitare il loro diritto alla libera circolazione e costituirebbe, pertanto, un ostacolo a tale libertà (v., in tal senso, sentenza del 14 marzo 2019, Vester, C‑134/18, EU:C:2019:212, punto 33 e giurisprudenza ivi citata).

Ne consegue che l'obiettivo di garantire il rispetto del principio della libera circolazione, come sancito dall'articolo 21 TFUE, prevale altresì nell'ambito dei regolamenti nn. 883/2004 e 987/2009” (CGUE, 7 luglio 2022, C-576/20).

Sulla base di tali principi cardine della materia, la Corte di giustizia, nella sentenza in esame, osserva che un cittadino dell'Unione economicamente inattivo, che abbia trasferito la propria residenza abituale nello Stato membro ospitante, è soggetto, conformemente all'articolo 11, paragrafo 3, lettera e), del regolamento n. 883/2004, alla legislazione di tale Stato membro per quanto riguarda la concessione di prestazioni di sicurezza sociale (par. 56).

Tale disposizione persegue il duplice obiettivo: da un lato, quello di evitare l'applicazione simultanea di diverse normative nazionali a una determinata situazione e le complicazioni che possono derivarne; dall'altro quello di impedire che le persone che ricadono nell'ambito di applicazione di tale regolamento restino senza tutela in materia di sicurezza sociale per mancanza di una normativa che sia loro applicabile (CGUE sentenze del 14 giugno 2016, Commissione/Regno Unito, C-308/14, punto 64, e del 15 luglio 2021, C-535/19, punto 46).

L'articolo 11, paragrafo 3, lettera e), precisa la Corte (par. 58), non ha, pertanto, lo scopo di stabilire le condizioni sostanziali per l'esistenza del diritto alle prestazioni di sicurezza sociale (v., in tal senso, CGUE sentenza del 14 giugno 2016, Commissione/Regno Unito, C-308/14, punti 65 e 67), restando gli Stati membri competenti a stabilire nelle proprie legislazioni le condizioni per la concessione di tali prestazioni. Siffatta competenza deve tuttavia esercitarsi nel rispetto del diritto dell'Unione (v., in tal senso, CGUE sentenza dell'11 aprile 2013, Jeltes e a., C-443/11, punto 59).

L'art. 4 del reg. 883/2004 concretizza il principio di parità di trattamento a favore dei cittadini dell'Unione che si avvalgono, nello Stato membro ospitante, delle prestazioni di sicurezza sociale di cui all'articolo 3, paragrafo 1, del medesimo regolamento (v., in tal senso, CGUE sentenza del 15 luglio 2021, C-535/19, punto 40) e in forza di tale disposizione le persone alle quali si applica il regolamento n. 883/2004 beneficiano delle stesse prestazioni e sono soggette agli stessi obblighi di cui alla legislazione di ciascuno Stato membro, alle stesse condizioni dei cittadini di tale Stato.

Secondo un orientamento consolidato della Corte di giustizia, le legislazioni nazionali possono ancorare la concessione di prestazioni rientranti nell'ambito di applicazione del regolamento n. 883/2004 a cittadini dell'Unione economicamente inattivi al requisito del soggiorno legale ai sensi della direttiva 2004/38 nello Stato membro ospitante (v., in tal senso, CGUE sentenze del 19 settembre 2013, Brey, C-140/12, punto 44; dell'11 novembre 2014, Dano, C-333/13, punto 83, nonché del 14 giugno 2016, Commissione/Regno Unito, C-308/14, punto 68).

Ne consegue che un cittadino dell'Unione beneficia del principio della parità di trattamento, rispetto ai cittadini di detto Stato membro, prevista all'articolo 4 del regolamento n. 883/2004, anche nel caso in cui sia economicamente inattivo durante i primi tre mesi del suo soggiorno nel medesimo Stato membro, dovendo tale soggiorno ritenersi conforme a quanto stabilito dall'articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2004/38, letto in combinato disposto con l'articolo 14, paragrafo 1, della stessa direttiva.

Nicola Tritta