La soluzione che, nella decisione in commento, la Corte di Cassazione offre alla quaestio iuris in esame, se considerata da un punto di vista di principio, appare ineccepibile. La normativa estradizionale, al pari di quella che regola il procedimento penale, deve contemperare due valori primari contrapposti, quali l'inviolabilità della libertà personale del soggetto nei cui confronti pende la domanda di estradizione, da un lato, e l'interesse generale alla consegna dello stesso allo Stato richiedente nel caso di esito favorevole del procedimento di estradizione, dall'altro. Il bilanciamento tra questi due valori è attuato attraverso la previsione di termini di durata massima delle misure cautelari applicabili durante lo svolgimento del procedimento di estradizione: se, infatti, lo status custodiae potesse perpetuarsi senza limiti di tempo fino all'adozione della sentenza di estradizione, ciò significherebbe attribuire al valore della libertà personale un rango inferiore all'interesse generale ad esso confliggente; si impatterebbe così sull'assetto costituzionale vigente dove invece c'è spazio per soluzioni che contemperino i due valori in gioco e non per amputazioni unilaterali e definitive dell'uno a beneficio dell'altro.
Se questo è lo scenario di fondo, non vi è dubbio che l'emissione, a distanza di tempo, di più provvedimenti restrittivi dello status libertatis nell'ambito dello stesso procedimento di estradizione rappresenta un fenomeno patologico da trattare facendo ricorso a criteri speciali di computo dei termini di durata cautelare. Infatti, se applicassimo meccanicamente le regole generali, all'esecuzione di una nuova ordinanza applicativa della misura corrisponderebbe sempre la decorrenza ex novo del termine di un anno – in ossequio al principio di autonoma decorrenza delle misure consacrato anche nell'art. 714 comma 4 c.p.p. -, con conseguente azzeramento del tempus custodiae fino a quel momento patito in forza del titolo precedente.
In un simile contesto, elevato è il rischio che il soggetto, per effetto della sommatoria dei diversi periodi detentivi sofferti in forza dei consecutivi provvedimenti cautelari emessi a suo carico, si veda privato della libertà personale per un tempo che complessivamente considerato è di gran lunga superiore a quello normativamente previsto. Il rischio de quo ricorre massimamente nell'ipotesi in cui le diverse ordinanze riguardino l'idem factum atteso che la durata del tempus custodiae è dettata dalla legge nell'ambito del singolo procedimento di estradizione che, a sua volta ha nel fatto di reato il proprio elemento identificativo. Tale assunto implica due corollari: se nell'originario procedimento di estradizione confluisce una nuova domanda di consegna per un fatto diverso, il procedimento, formalmente unico non potrà considerarsi tale dal punto di vista sostanziale; per converso, se – come nel caso di cui alla sentenza in commento - a carico dello stesso soggetto si instaura un procedimento di estradizione in relazione ad un fatto che in passato era già stato oggetto di altra domanda estradizionale già precedentemente vagliato dallo Stato italiano, il nuovo procedimento potrà considerarsi diverso dal precedente solo formalmente mentre su un piano sostanziale risulterà esserne soltanto una prosecuzione.
Arrivati a questo punto, dovrebbe allora apparire ormai chiaro che, essendo il procedimento estradizionale retto da regole che, dal punto di vista dei criteri ordinari di computo dei termini di durata delle misure cautelari, sono omologhe a quelle proprie del procedimento penale – alla cui disciplina compatibile l'art. 714 comma 2 c.p.p., peraltro, espressamente rinvia – anche in questa sede si avverte l'insopprimibile esigenza di poter ricorrere ad un meccanismo speciale di determinazione del dies a quo di decorrenza delle misure capace di scongiurare gli inconvenienti legati ad una applicazione rigida della disciplina ordinaria. Ed è proprio questa esigenza che ha indotto i giudici della Sesta Sezione a far ricadere la fattispecie sottoposta al loro scrutinio sotto il governo dell'art. 297 comma 3 c.p.p. la cui operatività nella dimensione estradizionale, se considerata in termini generali, suscita però qualche perplessità dal punto di vista della piena compatibilità normativa. Se infatti in relazione al caso qui considerato, l'osmosi tra retrodatazione dei termini cautelari e procedimento di estradizione non incontra nell'art. 297 comma 3 c.p.p. ostacoli formali che appaiono capaci di resistere alla vis espansiva impressa alla disposizione in esame dal meccanismo di rinvio “esterno” presente nell'art. 714 comma 2 c.p.p., lo stesso non sembra potersi affermare allorquando il fenomeno delle contestazioni a catena si correli all'emissione consecutiva di misure cautelari concernenti non l'idem factum ma fatti di reato tra loro distinti: in questo caso infatti è difficile comprendere come nella dimensione estradizione possa venire gestita la presenza e il ruolo che nell'architettura dell'art. 297 comma 3 c.p.p. assumono l'elemento del rinvio a giudizio e tutte le implicazioni ad esso correlate. Se non altro, dunque, da questo punto di vista, sembrerebbe opportuno un intervento normativo diretto a confezionare un meccanismo di retrodatazione pensato ad hoc per la materia dell'estradizione, così da superare gli inevitabili e non sempre risolvibili problemi che inevitabilmente comporta il rinvio a norme pensate per un contesto alieno. Allo stesso tempo, anche l'altro problema emerso in giurisprudenza concernente la possibilità di applicare l'art. 297 comma 3 c.p.p. per retrodatare l'ordinanza emessa nel procedimento penale alla data di emissione del provvedimento cautelare adottato in una precedente procedura estradizionale concernete il medesimo fatto di reato, non sembra trovare adeguata soluzione allo stato delle attuali coordinate normative. E' vero che l'estraneità dell'esigenza cautelare “estradizionale” dal catalogo dei pericula libertatis di cui all'art. 274 c.p.p. non vale certamente a giustificare ex se l'irrilevanza dello status custodiae così patito dal soggetto ai fini del computo di cui all'art. 303 c.p.p.: una simile impostazione non può essere accolta perché contrasta con l'ovvia considerazione che non basta certo mutare l'esigenza cautelare sottesa alla misura per escludere il vulnus che il fenomeno delle “contestazioni a catena” arreca al valore della libertà personale. Il problema è però un altro. A parte che l'imputabilità dello status custodiae estradizionale al decorso dei termini cautelari è formalmente affermata (art. 722 c.p.p.) soltanto con riferimento alle procedure attive e non anche a quelle passive. Il punto è che, specialmente con riferimento ai casi di plurime e dilazionate contestazioni di fatti diversi, l'estradizione rende sostanzialmente privi di significato quegli elementi strutturali e di disciplina – i.e., unicità formale dei procedimenti; scissione arbitraria degli stessi; desumibilità dei fatti prima del rinvio a giudizio disposto nel procedimento ove era stata emessa la prima misura; desumibilità degli elementi giustificanti la seconda misura all'epoca di emissione della prima - cui invece l'art. 297 comma 3 c.p.p. correla e parametra le sue molteplici possibilità operative. Da qui, ancora una volta emerge la necessità che il legislatore intervenga per implementare ulteriormente la disciplina delle contestazioni a catena al fine di far confluire all'interno dell'art. 297 comma 3 c.p.p. anche quelle forme di artificioso prolungamento dello status custodiae che ben possono innestarsi nelle interazioni tra procedimento di estradizione e procedimento penale.