Il rinvio pregiudiziale ed il danno non patrimoniale

Andrea Penta
13 Febbraio 2023

Posto che la riforma del processo civile ha disciplinato un nuovo strumento “di remissione anticipata alla Corte di cassazione di un quesito di diritto”, occorre valutare quali sono le possibili ricadute nell'ambito della responsabilità di tipo aquiliano.
Introduzione

Il progetto di riforma del processo civile ha disciplinato, al punto g) dell'art. 6-bis (confluito poi senza modificazioni sostanziali nell'art. 362-bis c.p.c.), un nuovo strumento che può definirsi di remissione anticipata alla Corte di cassazione di un quesito di diritto. Con esso, il giudice del merito può rimettere in ogni tempo alla Corte di cassazione la risoluzione di un dubbio giuridico, se la questione è nuova, di particolare importanza e suscettibile di porsi in numerose future controversie.

Si tratta di una novità assoluta per il nostro ordinamento, che avvicina per verti versi il nostro sistema processuale di civil law a quelli anglosassoni di common law.

Dopo aver analizzato se il principio dello stare decisis possa trovare ingresso anche nel panorama giuridico italiano, occorre valutare le potenzialità del nuovo strumento e le possibili ricadute nell'ambito della responsabilità di tipo aquiliano.

Il principio dello stare decisis è presente anche nel nostro sistema?

L'efficacia vincolante della sentenza è, di regola, limitata alla sola ratio decidendi (nel diritto americano è più frequente l'espressione “holding”, utilizzata sempre per indicare la statuizione universale – ruling - che definisce la questione sollevata davanti alla corte), che va estrapolata sulla base di un procedimento logico di tipo induttivo, ossia agli argomenti essenziali addotti dal giudice per giustificare la decisione del caso a lui sottoposto.

Le rimanenti parti della sentenza, ossia le argomentazioni non essenziali per la decisione, costituiscono i cosiddetti obiter dicta, ai quali non è riconosciuta efficacia vincolante, ma solo persuasiva, in ragione della solidità delle argomentazioni su cui sono fondate.

Il principio dello stare decisis non è, di regola, presente nei sistemi di civil law (l'art. 5 del codice civile francese addirittura proibisce l'uso di decisioni come precedenti, tanto che la Cour de Cassation non cita mai nei propri giudizi le decisioni precedenti), anche se alcuni di questi ordinamenti prevedono una sorta di vincolatività dei precedenti desumibili dalle sentenze delle corti supreme, le quali svolgono una "funzione nomofilattica" (E. SCODITTI, Giurisdizione per principi e certezza del diritto, su Questione giustizia n. 4/2018, 24). In queste evenienze, peraltro, al contrario delle norme di common law, non si è in presenza di un obbligo di reiterazione (per un'analisi diffusa delle varie questioni si rinvia a G. GORLA, I Tribunali Supremi degli stati italiani, fra i secoli XVI e XIX, quali fattori della unificazione del diritto nello stato e della sua uniformazione fra stati, in La formazione storica del diritto moderno in Europa, I, Firenze, 1977, e A. PIZZORUSSO, La motivazione delle decisioni della Corte Costituzionale: comandi o consigli?, in Riv. trim. dir. pubbl., 1963; mentre per il primo il valore non vincolante, ma "persuasivo", sempre però giuridicamente rilevante, spetterebbe non al singolo precedente, ma alla "giurisprudenza" della Cassazione - in genere, e non delle sue sole Sezioni Unite - e cioè ad un insieme di decisioni "fra loro conformi e senza dissensi rispetto ad altre", per il secondo, invece, esso sarebbe proprio di ogni singola pronunzia).

Invero, la singola sentenza - oltre a decidere il caso di specie - può qui avere una più o meno incisiva forza persuasiva, in genere promanante dall'autorità del giudice che l'ha emanata e, ancor di più, dalla solidità della linea argomentativa seguita (in senso favorevole al vincolo del precedente si sono espresse Cass. 13 maggio 1983, n. 3275, Cass. 3 dicembre 1983, n. 7248, e Cass. civ., 30 luglio 1986, n. 4895; più di recente merita di essere segnalata Cass., sez. III, 11 gennaio 2007, n. 395, a mente della quale “Deve ritenersi adeguatamente motivata e, per l'effetto, incensurabile in sede di legittimità sotto il profilo di cui all'art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., la sentenza del giudice del merito che rigetti una tesi giuridica prospettata dalla parte qualificandola erronea in applicazione di un principio enunciato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, trascrivendo il principio stesso e richiamando gli estremi delle pronunce invocate”.).

Nel contesto nel nostro sistema giuridico, il primo richiamo di un segnale in tal senso non può che essere operato al primo comma dell'art. 384 c.p.c., in base al quale la Corte di cassazione, «quando decide il ricorso proposto a norma dell'art. 360, comma 1, n. 3, e in ogni altro caso in cui, decidendo su altri motivi del ricorso, risolve una questione di diritto di particolare importanza deve enunciare il principio di diritto».

Il precedente rimane in questo caso, tuttavia, un insieme di fatto e diritto, contenendo altresì la risoluzione di questioni giuridiche ad esso inerenti (sul rapporto tra presupposti di fatto e principio di diritto, cfr. M. MORELLI, L'enunciazione del principio di diritto, in M. Acierno, P. Curzio, A. Giusti, La Cassazione civile. Lezioni dei magistrati della Corte suprema italiana, II ed., Bari, 2015, 425 ss.).

Il principio di diritto, ai sensi dell'art. 363, comma 3, c.p.c., «può essere pronunciato dalla Corte anche d'ufficio, quando il ricorso proposto dalle parti è dichiarato inammissibile, se la Corte ritiene che la questione decisa è di particolare importanza». In tal caso, la pronuncia della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito (quarto comma; sul rapporto tra precedente e principio di diritto cfr. A. PROTO PISANI, Il precedente nella giurisprudenza, in Foro it., 2017, V, 277 ss., specie § 2).

Ancora, ai sensi del primo comma della medesima disposizione, «Quando le parti non abbiano proposto ricorso nei termini di legge o vi abbiano rinunciato, ovvero quando il provvedimento non è ricorribile in Cassazione e non è altrimenti impugnabile, il procuratore generale presso la Corte di cassazione può chiedere che la Corte enunci nell'interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi».

Principi analoghi valgono per la giustizia amministrativa, atteso che il quinto comma dell'art. 99 c.p.a. stabilisce che: «Se ritiene che la questione è di particolare importanza, l'adunanza plenaria può comunque enunciare il principio di diritto nell'interesse della legge anche quando dichiara il ricorso irricevibile, inammissibile o improcedibile, ovvero l'estinzione del giudizio. In tali casi la pronuncia dell'adunanza plenaria non ha effetto sul provvedimento impugnato».

Solo in un caso il giudice è tenuto a conformarsi al precedente (recte, alla pronuncia della Suprema Corte).

Ai sensi del secondo comma dell'articolo 384 c.p.c., la Corte di cassazione, «quando accoglie il ricorso, cassa la sentenza rinviando la causa ad altro giudice, il quale deve uniformarsi al principio di diritto e comunque a quanto statuito dalla Corte». Se il giudice di merito destinatario del rinvio non si uniforma, la sua sentenza potrà essere impugnata in Cassazione. Al di fuori di questa ipotesi, poiché il giudice, in un altro processo, non può essere sanzionato per il fatto di non essersi uniformato ad un precedente e il suo provvedimento non può essere impugnato, e tanto meno annullato, per il fatto in sé che non sia conforme ad un precedente, si è, a ben vedere, in presenza di una pronuncia avente un'efficacia (non vincolante, ma) meramente “dissuasiva” (o di moral suasion), data la particolare autorevolezza dell'organo (funzionalmente preposto alla nomofilachia e collocato al vertice del sistema delle impugnazioni) da cui promana (v. P. CURZIO, Il giudice ed il precedente, in Giustizia civile, n. 4/2018, 37 ss.). Pertanto, nel caso in cui, nel decidere un caso identico o, almeno, simile, intenda discostarsi dal “precedente” (essendo la valutazione cambiata nel tempo o essendo state introdotte o modificate altre disposizioni in qualche modo correlate o, ancora, essendo mutato semplicemente il contesto culturale e/o sociale), dovrà specificare le ragioni della sua scelta (M. TARUFFO, Aspetti del precedente giudiziale, in Criminalia, 2014, 50 ss., afferma che «il giudice è obbligato a giustificare adeguatamente la sua decisione quando sceglie di non uniformarsi al precedente»).

Va altresì ricordato che, in base all'art. 374, comma 3, c.p.c.: “Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”. Da ciò si evince che, in caso di dissenso, la scelta di modificare un orientamento assunto dalla Corte a sezioni unite spetta esclusivamente alle stesse sezioni unite (sul rapporto tra sezioni semplici e sezioni unite, cfr. R. RORDORF, La nomofilachia nella dialettica sezioni semplici-sezioni unite e Cassazione-Corte costituzionale, in M. Acierno, P. Curzio, A. Giusti, La Cassazione civile, cit., 537 ss.). In definitiva, il dissenso delle sezioni semplici deve essere motivato e deve esprimersi non direttamente, ma mediante la richiesta di un nuovo intervento delle sezioni unite. Va altresì ricordato che, in base al secondo comma dell'art. 374 c.p.c., “… il primo presidente può disporre che la Corte pronunci a sezioni unite sui ricorsi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, e su quelle che presentano una questione di massima di particolare importanza”, in tal guisa conferendo al Primo Presidente un penetrante potere di iniziativa motu proprio.

Ancora. Nella motivazione delle decisioni si sollecita il richiamo dei precedenti conformi. Invero, l'art. 118 disp. att. c.p.c., nel fissare le regole della motivazione della sentenza, richiede l'esposizione «dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni della decisione, anche con riferimento ai precedenti conformi». A sua volta, l'art. 348-ter c.p.c., nel disciplinare l'ordinanza di inammissibilità dell'appello che non ha ragionevole probabilità di essere accolto, invita il giudice a fare «riferimento a precedenti conformi».

In ambito lavoristico, l'art. 420-bis c.p.c. prevede la possibilità per il giudice di primo grado, qualora per decidere una controversia si debba interpretare una clausola di un contratto collettivo nazionale, di adottare subito la decisione, emanando una sentenza sulla questione pregiudiziale, impugnabile direttamente con ricorso per Cassazione (sentenza «impugnabile soltanto con ricorso immediato in Cassazione»; cfr. G. IANNIRUBERTO, L'accertamento pregiudiziale sull'interpretazione, validità ed efficacia dei contratti collettivi, in G. Ianniruberto e U. Morcavallo (a cura di), Il nuovo giudizio di cassazione, II ed., Milano, 2010, 111 ss.). La pronuncia della S.C. avrà efficacia vincolante nello specifico processo, perché il giudice del merito al quale ritornerà la causa dovrà decidere conformandosi alla soluzione del problema interpretativo (o di efficacia o invalidità) adottata dalla Cassazione, ma si rifletterà anche su altri processi in cui la questione si riproponga. In base al combinato disposto dell'art. 420-bis c.p.c. e dell'art. 64 del dlgs. n. 165/2001, le sezioni unite hanno, infatti, affermato (Cass., sez. un., 23 dicembre 2010, n. 20075) che «la sentenza della Corte resa sulla questione pregiudiziale reca, per i giudici di merito diversi da quello che ha pronunciato la sentenza impugnata in Cassazione, un vincolo procedurale, nel senso che costoro, ove non intendano uniformarsi alla pronuncia della Corte, devono provvedere, ma con sentenza emessa ai sensi dell'art. 420-bis c.p.c., in modo da consentire alle parti il ricorso immediato e la verifica, da parte del giudice di legittimità, della correttezza della diversa opzione interpretativa seguita».

È stato, inoltre, introdotto l'art. 360-bis c.p.c., intitolato «Inammissibilità del ricorso», il cui punto n. 1 così dispone: Il ricorso è inammissibile «quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l'esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l'orientamento della stessa». Da ciò consegue che, se la soluzione adottata dal giudice di merito è conforme alla giurisprudenza della Cassazione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, salvo l'esito di un secondo passaggio, concernente la valutazione degli elementi offerti dal ricorrente per indurre la Corte a mutare il suo orientamento (cfr., sul punto, Cass., sez. un., 21 marzo 2017, n. 7155). A tal riguardo, merita di essere segnalata la recente Cass., sez. III, 9 settembre 2022, n. 26619, secondo cui “anche un solo precedente, se univoco, chiaro e condivisibile, integra l'orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte di cui all'art. 360-bis, n. 1, c.p.c., con conseguente dichiarazione di inammissibilità del relativo ricorso per cassazione che non ne contenga valide critiche”.

Da ultimo, è opportuno ricordare che il controllo di costituzionalità delle leggi è affidato, nel nostro sistema, ad una Corte Costituzionale, le cui decisioni - che sovente hanno natura meramente interpretativa - sono vincolanti per tutte le altre Corti.

Il rinvio pregiudiziale previsto nel progetto di riforma elaborato dalla Commissione Luiso

Una delle più importanti novità contenute nel progetto di riforma del codice di rito elaborato dalla Commissione ministeriale presieduta dal Prof. Luiso, poi trasfuso nell' art. 363-bis schema d.lgs. approvato in data 22.9.2022 in attuazione della legge delega n. 206/2021, riguarda l'istituzione del cd. rinvio pregiudiziale (art. 9, lett. g), in virtù del quale si potrà ottenere – a fronte di una questione di diritto nuova, sia di diritto sostanziale che processuale (ove, peraltro, il carattere della “novità” non è inteso in senso assoluto, quale conseguenza di uno ius superveniens, come è dato evincere dalla scelta legislativa di dare rilievo pure alla questione che “non sia stata già trattata in precedenza dalla Corte” Suprema), e suscettibile di riproporsi in numerosi altri casi – una immediata pronuncia della Cassazione, evitando così che si debbano attendere anni prima di avere una linea interpretativa definita su tale questione. Si consideri, ad esempio, che – come evidenziato nella stessa relazione di accompagnamento del nuovo testo di legge – per ottenere una prima sentenza della Cassazione sull'individuazione del soggetto onerato di promuovere la mediazione in sede di opposizione a decreto ingiuntivo sono stati necessari quasi sei anni.

Orbene, “scomodare” la Corte per esprimere un principio di diritto limitandone la vincolatività al procedimento nell'ambito del quale è stata rimessa la questione, nonostante quest'ultima sia di particolare rilevanza e, soprattutto, per l'oggetto o per la materia, sia suscettibile di presentarsi o si sia presentata in numerose controversie dinanzi ai giudici di merito, risulterebbe “antieconomico” (il problema si è posto, mutatis mutandis, anche nel processo del lavoro, in tema di procedimento di accertamento pregiudiziale della validità, efficacia ed interpretazione dei contratti ed accordi collettivi nazionali di cui all'art. 420-bis c.p.c.; cfr. Sez. U, Sentenza n. 20075/2010, cit.); ragion per cui, per quanto, come si è visto, non esista nel nostro sistema (a differenza di quello anglosassone) la forza vincolante del ‘precedente', occorrerebbe prevedere che il giudice di merito, chiamato a decidere analoga controversia, possa discostarsi dal principio enunciato solo adeguatamente motivando, sulla falsariga di quanto disposto dall'art. 360-bis, n. 1), c.p.c., in ordine alla sussistenza di elementi idonei a giustificare la difforme decisione. Ciò tenuto conto che, benché non esista nel nostro sistema processuale una norma che imponga la regola dello stare decisis, essa costituisce, tuttavia, un valore o, comunque, una direttiva di tendenza immanente nell'ordinamento, stando alla quale non è consentito discostarsi da un'interpretazione del giudice di legittimità, investito istituzionalmente della funzione della nomofilachia, senza forti ed apprezzabili ragioni giustificative (v. Cass., sez. un., 31 luglio 2012, n. 13620).

Né paiono convincenti i dubbi – espressi da una certa dottrina – circa la compatibilità, addirittura, dello stesso rinvio pregiudiziale in quanto tale con il principio costituzionale della soggezione del giudice (in questo caso, di merito) “soltanto alla legge”. E ciò nel senso che il nuovo strumento, per il solo fatto di “vincolare” il giudice del procedimento (ma i dubbi, in questa prospettiva, aumenterebbero, ove si riconoscesse alla pronuncia della Cassazione una generalizzata efficacia vincolante), introdurrebbe una sorta di “gerarchizzazione” dei rapporti tra giudici di merito e giudice di legittimità. Invero, sembra potersi replicare ad una simile obiezione che la scelta di attribuire all'intervento della Corte una portata che vada anche oltre il procedimento, che pure ha costituito l'occasione per la sua adozione, risponde all'esigenza di meglio garantire la certezza del diritto, e con essa la stessa effettività della tutela giurisdizionale, secondo la previsione di cui all'art. 6, § 1, della Convenzione Edu. Difatti, se è vero che la Corte di Strasburgo (cfr. sent. 22/12/15, Stanković e Trajković c. Serbia) ha escluso esservi violazione della norma suddetta nel caso in cui, sul piano nazionale, vi siano divergenze e soluzioni giurisprudenziali differenti in relazione a casi simili (ma sempre, beninteso, che non vi sia un livello, addirittura, di arbitrarietà nei contrapposti indirizzi), essa, tuttavia, ha riconosciuto delle ipotesi in cui vi “è stata comunque una violazione dell'articolo 6 della Convenzione a causa della profonda e persistente incertezza giudiziaria a cui la Corte Suprema non ha posto rimedio in modo soddisfacente” (Sent. 13/9/11, Živić c. Serbia; in particolare § 46).

Né, d'altra parte, appaiono condivisibili le perplessità – espresse sul piano della compatibilità del nuovo strumento con il testo costituzionale – legate al fatto che la Corte di cassazione assumerebbe improprie “funzioni consultive”, non in linea con la sua posizione di organo investito della funzione di ius dicere (il rilievo è di S. GUIZZI, Osservazioni critiche al progetto di riforma del codice di rito). Sul punto, ammesso che davvero la pronuncia della Corte non possa considerarsi espressione di potestas iudicandi (o, meglio, di esercizio di una giurisdizione di diritto soggettivo), appare agevole replicare che, secondo la giurisprudenza costituzionale ( Corte cost., sentenza n. 119 del 13 maggio 2015) – chiamata a pronunciarsi sulla natura dell'attività svolta dalla Suprema Corte a norma dell'art. 363 c.p.c. –, va “esclusa la necessità che il procedimento innanzi al giudice di legittimità si concluda con una decisione che abbia tutti gli effetti usualmente ricondotti agli atti giurisdizionali”, atteso che la “funzione nomofilattica svolta dalla Corte di cassazione” può essere “espressione di una giurisdizione che è (anche) di diritto oggettivo, in quanto volta a realizzare l'interesse generale dell'ordinamento all'affermazione del principio di legalità, che è alla base dello Stato di diritto”.

La rilevanza del rinvio pregiudiziale in ambito di responsabilità extracontrattuale

Se l'istituto del rinvio pregiudiziale fosse stato introdotto prima, molto probabilmente i giudici di merito se ne sarebbero già avvalsi in numerose occasioni.

Basti pensare, limitatamente alle questioni che sono state risolte nell'ultimo anno, ai danni derivati in conseguenza di sinistro a persona trasportata su veicolo a motore nell'ipotesi in cui non sia coinvolto altro veicolo ed all'esperibilità in siffatta evenienza dell'azione ex art. 141 oppure ex art. 144 c. ass. (questione sulla quale era sorto, all'interno della Terza Sezione della Cassazione, un contrasto e per la quale la medesima sezione aveva sollecitato, con ordinanza interlocutoria n. 40885 del 2021, le Sezioni Unite, con sentenza n. 35318 del 30 novembre 2022, enunciando tre importanti principi di diritto:

1) in tema di azione diretta del terzo trasportato, l'art. 141 c.ass. disciplina un'azione di carattere eccezionale ed insuscettibile di applicazione analogica, con la conseguenza che la stessa non può essere estesa ai danni subiti iure proprio dai congiunti del trasportato deceduto in conseguenza del sinistro, risultando, invece, applicabile nell'ipotesi in cui i congiunti richiedano il risarcimento iure hereditatis del danno cd. terminale subito dallo stesso trasportato a causa del sinistro;

2) la nozione di "caso fortuito", prevista come limite all'applicabilità dell'azione diretta del terzo trasportato ex art. 141 c.ass., riguarda l'incidenza causale di fattori naturali e umani estranei alla circolazione, risultando invece irrilevante la condotta colposa dell'altro conducente, posto che la finalità della norma è quella di impedire che il risarcimento del danno subito dal passeggero venga ritardato dalla necessità di compiere accertamenti sulla responsabilità del sinistro;

3) l'azione diretta prevista dall'art. 141 c.ass. in favore del terzo trasportato è aggiuntiva rispetto alle altre azioni previste dall'ordinamento e mira ad assicurare al danneggiato una tutela rafforzata, consentendogli di agire nei confronti dell'assicuratore del vettore e di ottenere il risarcimento del danno a prescindere dall'accertamento della responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti, fatta salva la sola ipotesi di sinistro causato da caso fortuito; la tutela rafforzata così riconosciuta presuppone che nel sinistro siano rimasti coinvolti almeno due veicoli, pur non essendo necessario che si sia verificato uno scontro materiale fra gli stessi, e si realizza mediante l'anticipazione del risarcimento da parte dell'assicuratore del vettore e la possibilità di successiva rivalsa di quest'ultimo nei confronti dell'impresa assicuratrice del responsabile civile, con la conseguenza che, nel caso in cui nel sinistro sia stato coinvolto un unico veicolo, l'azione diretta che compete al trasportato danneggiato è esclusivamente quella prevista dall'art. 144 c.ass., da esercitarsi nei confronti dell'impresa di assicurazione del responsabile civile).

O, ancora, si pensi ai danni civili derivanti da occupazione abusiva di un immobile, nel qual caso di discuteva sul se fosse configurabile un danno (patrimoniale) in re ipsa (derivante dalla “perdita” della facoltà di godimento diretto del bene) e, quindi, sul se il pregiudizio rappresentasse un'automatica derivazione dall'illecito o necessitasse della prova del danno-conseguenza, nonché sul se fosse risarcibile ai sensi dell'art. 1223 o 2056 c.c. [questioni di massima di particolare importanza sollevate, rispettivamente, dalla Terza Sezione civile con ordinanza interlocutoria n. 1162 del 2022 e dalla Seconda Sezione civile con ordinanza interlocutoria n. 3946 del 2022 e sulle quali le Sezioni Unite si sono pronunciate, con sentenza n. 33645 del 15 novembre 2022, enunciando ben quattro principi di diritto:

1) in caso di occupazione senza titolo di un bene immobile da parte di un terzo, se il danno da perdita subita di cui il proprietario chiede il risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso mediante il parametro del canone locativo di mercato;

2) nel medesimo caso, il fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da mancato guadagno è lo specifico pregiudizio subito, rappresentato dall'impossibilità di concedere il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore al canone locativo di mercato o di venderlo ad un prezzo più conveniente di quello di mercato;

3) il proprietario è tenuto ad allegare, quanto al danno emergente, la concreta possibilità di godimento perduta e, quanto al lucro cessante, lo specifico pregiudizio subito (sotto il profilo della perdita di occasioni di vendere o locare il bene a un prezzo o a un canone superiore a quello di mercato), di cui, a fronte della specifica contestazione del convenuto, è chiamato a fornire la prova anche mediante presunzioni o il richiamo alle nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza; poiché l'onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti, l'onere probatorio sorge comunque per i fatti ignoti al danneggiante, ma il criterio di normalità che generalmente presiede, salvo casi specifici, alle ipotesi di mancato esercizio del diritto di godimento, comporta che l'evenienza di tali fatti sia tendenzialmente più ricorrente nelle ipotesi di mancato guadagno;

4) il fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da perdita subita è la concreta possibilità, andata perduta, di esercizio del diritto di godimento, diretto o indiretto, mediante concessione a terzi dietro corrispettivo, restando, invece, non risarcibile il venir meno della mera facoltà di non uso, quale manifestazione del contenuto del diritto sul piano astratto, suscettibile di reintegrazione attraverso la sola tutela reale.

Non vi è chi non veda che, se tali pronunce fossero arrivate alcuni anni or sono, il contenzioso sulle relative questioni si sarebbe ridotto, se non annullato, provocando di riflesso notevoli benefici dal punto di vista deflattivo sul contenzioso pendente dinanzi ai giudici di merito.

In prospettiva, ed a titolo meramente esemplificativo, notevoli ricadute sul piano pratico avrà la decisione delle Sezioni Unite sulla questione, sollevata dalla Terza Sezione con ordinanza interlocutoria n. 32077 del 31 ottobre 2022, oggetto di contrasto giurisprudenziale, se l'accertamento, compiuto dalla Commissione medico-ospedaliera di cui all'art. 4 della l. n. 210 del 1992, circa la riconducibilità del contagio ad una emotrasfusione, con conseguente attribuzione dell'indennizzo ai sensi di detta legge, implichi, nel giudizio di risarcimento dei danni derivanti da emotrasfusioni promosso contro il Ministero della salute, il riconoscimento, quale fatto indiscutibile e non bisognoso di prova, del nesso causale tra la trasfusione e il contagio oppure se, al contrario, il verbale della citata Commissione formi piena prova esclusivamente in relazione ai fatti avvenuti in sua presenza ovvero dalla stessa compiuti, e non già con riguardo a valutazioni, diagnosi, manifestazioni di scienza o di opinione, costituenti materiale privo del valore di un vero e proprio accertamento e quindi soggetto al libero apprezzamento del giudice.

Osservazioni conclusive

Uno studioso statunitense (SCHAUER, Thinking Like a Lawyer. A New Introduction to Legal Reasoning, Harvard College, 2009, trad. it. Il ragionamento giuridico. Una nuova introduzione, Roma, 2016, 156) ha affermato: «I giudici rimangono figure assai più centrali nel sistema di common law di quanto non siano nei Paesi a diritto codificato […] il diritto di tradizione romanistica è sostanzialmente incentrato sui codici, mentre il common law continua ad essere sostanzialmente incentrato sui giudici».

Per quanto il nostro sistema giuridico, al pari di quelli dei restanti Paesi del civil law, non si concili con la ‘cultura del precedente', è opportuno che le ragioni per il cambiamento siano forti, consapevoli e convincenti per poter prevalere sulle ragioni della stabilità, anche al fine di tutelare l'affidamento (in quest'ottica si richiama Sez. U, Sentenza n. 4135 del 12/02/2019, in Judicium, 25.2.2019, con nota di M. FARINA, Porte chiuse alla rimessione in termini nel caso di “puro e semplice” errore di diritto della parte o, meglio, del suo difensore).

Innegabili sono, infatti, i vantaggi derivanti dall'affidamento fatto sui precedenti: la stabilità e ragionevole prevedibilità (sulla base di una valutazione ex ante) del diritto (recte, della soluzione di un giudizio), nonché l'efficienza dell'amministrazione della giustizia. In quest'ottica, la Corte di cassazione «assicura l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge». Pertanto, anche nelle ipotesi in cui sia possibile più di una soluzione ermeneutica, deve comunque essere garantita l'uniformità dell'interpretazione, potendosi i mutamenti di giurisprudenza allora giustificarsi solo per ragioni gravi.

Senza tralasciare che una conseguenza positiva, sia pure indiretta, della detta prevedibilità è rappresentata dall'effetto deflattivo, atteso che l'esito pressoché certo del processo fondato su precedenti consolidati e diffusamente applicati indurrebbe a non instaurare un giudizio o, almeno, a non proporre impugnativa avverso la pronuncia che si sia uniformata al principio di diritto in precedenza enunciato, oltre che a favorire accordi transattivi.

Ovviamente, affinché i giudici di merito possano essere messi nelle condizioni di conoscere i precedenti, è indefettibile la meritoria attività di selezione e di massimazione posta in essere dai giudici dell'Ufficio del Massimario e del Ruolo presso la cassazione.

Premesso che l'invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore è figura di rilievo meramente teorico, in quanto - postulando che il giudice applichi, non la norma esistente, ma una norma da lui creata - potrebbe ipotizzarsi solo a condizione di poter distinguere un'attività di produzione normativa inammissibilmente esercitata dal giudice, da un'attività interpretativa (la quale in realtà non ha una funzione meramente euristica, ma si sostanzia in un'opera creativa della volontà della legge nel caso concreto), questo approccio non limiterebbe la funzione creativa (o innovativa, che dir si voglia) dei giudici di merito.

Occorrerebbe, infatti, sempre trovare il giusto punto di equilibrio tra l'esigenza di assicurare la certezza e la prevedibilità delle decisioni giudiziarie e quella di garantire una costante evoluzione della giurisprudenza al passo con i mutamenti che sul piano sociale ed etico periodicamente si verificano, oltre che, ovviamente – ed a maggior ragione -, l'eventuale correzione (cd. revirement) di indirizzi rivelatisi ex post non corretti sul piano giuridico.

A ben vedere, la questione intercetta quella, che esonda i confini della presente relazione, della contrapposizione tra la concezione della Cassazione come Corte suprema, dotata dello scopo principale di garantire il diritto oggettivo (Ius Constitutionis), e quella della Cassazione come giudice di impugnazione, cioè come giudice di terza istanza, incaricato precipuamente di garantire i diritti soggettivi assicurando la giustizia nel caso concreto (Ius litigatoris).

Occorrerebbe forse porsi la domanda se la deriva produttivistica che ha connotato l'attività anche della Suprema Corte negli ultimi anni non sia andata, sia pure indirettamente, a detrimento del prestigio e dell'autorevolezza dell'organo apicale della giurisprudenza, in tal guisa rendendo di fatto irrealizzabile l'obiettivo di favorire la formazione di precedenti connaturati nel sistema del diritto vivente e, con essi, la certezza del diritto (impregiudicata, ovviamente, l'evoluzione giurisprudenziale dello stesso).

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