La sentenza in commento fornisce una riposta negativa alla questione prospettata facendo coerente applicazione di principi giuridici ormai consolidati in tema di valutazione della prova.
In primo luogo, viene richiamato l'insegnamento secondo il quale un atto avente efficacia di pubblica fede assume valore probatorio soltanto
1) in funzione dei fatti da esso attestati come da lui compiuti o avvenuti in sua presenza,
2) quanto alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale che lo ha redatto ed alle dichiarazioni a lui rese.
Alcuna efficacia probatoria privilegiata può invece essere attribuita al contenuto delle dichiarazioni rese al pubblico ufficiale da terzi ovvero in relazione ai fatti che si assumono veri in virtù di presunzioni o di personali considerazioni logiche.
Declinando tali principi al processo verbale di costatazione risulta pertanto evidente che, se, da un lato, devono ritenersi non contestabili (se non con querela di falso) la provenienza del documento da parte degli agenti operanti e tutte le operazioni eseguite dai medesimi (così come il tenore delle dichiarazioni rese dai soggetti intervistati), dall'altro, le conseguenze in termini di imputazione di un maggior reddito a carico del soggetto verificato non hanno alcuna valenza di prova legale o comunque privilegiata.
Quanto sopra, poiché tale imputazione viene effettuata secondo un criterio presuntivo che, previsto specificatamente dalla normativa tributaria, alcuna valenza può avere in un ambito civilistico.
Nel caso in esame, ad esempio, il ricavo imputato al soggetto verificato è stato ottenuto semplicemente maggiorando del 5 % il costo sostenuto per l'acquisto del bene: ciò in assenza di prova circa l'effettivo prezzo di rivendita ma semplicemente ricavando tale dato dalla percentuale di redditività applicata dall'Agenzia delle Entrate sulla base del settore di riferimento, della zona geografica e del volume d'affari delle società verificate.
In maniera del tutto analoga, l'atto di accertamento dell'Agenzia delle Entrate, imputando al danneggiato un reddito calcolato all'esito di un ragionamento di tipo presuntivo - induttivo, a mente dell'art. 39, comma 2 del d.p.r. 600/1973 (pertanto, utilizzando semplici presunzioni anche non dotate dei requisiti di precisione, gravità e concordanza di cui all'art. 2729 c.c.), non può costituire prova né privilegiata né tantomeno legale dei redditi percepiti dal de cuius sul quale grava l'onere di dimostrare l'effettiva esistenza e l'entità del reddito asseritamente perduto secondo le regole civilistiche in materia di onere della prova.
Regole che, nel caso in esame, la Suprema Corte torna a richiamare dando continuità all'insegnamento secondo il quale, se il danno patrimoniale futuro derivante da lesioni personali può essere riconosciuto anche sulla base di presunzioni semplici come conseguenza naturale della riduzione della capacità di lavoro, la sua effettiva quantificazione richiede invece la prova di una reale contrazione dopo il sinistro, da accertarsi in concreto sulla base di una ragionevole e fondata previsione che il danno si produrrà essendo preclusa ogni valutazione automatica ed equitativa.