Per inquadrare la fattispecie, la Corte sviluppava una risposta muovendo dalla definizione di valuta virtuale elaborata a livello comunitario: «una rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata a una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente (Direttiva 2018/843/UE del 30 maggio 2018)». A proposito di tale definizione, i giudici di legittimità osservavano che la Direttiva tentava di definire in negativo la moneta virtuale, al fine di disegnare i rapporti tra moneta virtuale e moneta corrente e, altresì, cercando di fornire una definizione omnicomprensiva che tenesse conto dell'espansione costante delle modalità d'impiego delle valute virtuali.
Volgendo, invece, lo sguardo al legislatore italiano, la Suprema Corte riprendeva la definizione dell'art. 1, d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231, in cui la moneta virtuale viene descritta come: «la rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un'autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l'acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente», sottolineando come qui, contrariamente alla definizione più vaga del Legislatore sovranazionale, venga fatta espressa menzione della finalità d'investimento.
Ebbene, è proprio sulla finalità d'investimento che i giudici imperniavano la trattazione al fine di sancire l'applicabilità della disciplina vigente in materia di intermediazione finanziaria al caso di specie. La Corte di legittimità richiamava, infatti, la sentenza 17 settembre 2020, n. 26807 della Seconda Sezione della Cassazione Penale, in cui era stato affermatoche, qualora la vendita di bitcoin venga reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento, saranno obbligatoriamente previsti gli adempimenti di cui agli artt. 91 ss. TUF, pena l'integrazione della fattispecie di reato di cui all'art. 166, comma 1, lett. c), TUF.
Nel caso di specie, quindi, la medesima Corte riteneva che, dal momento che i destinatari della proposta di investimento hanno fornito bitcoin, per ottenere monete virtuali che avrebbero consentito la partecipazione alla piattaforma successivamente, con valore variabile a seconda del momento dell'acquisto e con ritorno maggiore in caso di successo della piattaforma stessa, questi avessero assunto un rischio d'investimento corrispondente al capitale investito. Allora, dato che la raccolta di investimenti era finalizzata al finanziamento della piattaforma, la Cassazione giungeva a considerare erronea la valutazione del Tribunale di Brescia, che aveva ritenuto assente il fumus commissi delicti in relazione all'art 166 TUF,che sanziona, giova qui ricordarlo: «chiunque offre fuori sede, ovvero promuove o colloca mediante tecniche di comunicazione a distanza, prodotti finanziari o strumenti finanziari o servizi o attività di investimento». Ne deriva che, secondo la S.C., la valuta virtuale deve essere considerata strumento di investimento perché consiste in un prodotto finanziario, per cui deve essere anche applicata la disciplina vigente in tema di intermediazione finanziaria (art. 94 ss. TUF).