I rapporti tra giudice nazionale ed europeo e l'ipotesi dell'omesso rinvio pregiudiziale nell'ordinanza Bufarini

Giovanni Caputi
16 Febbraio 2023

Il recente orientamento della Corte di giustizia in tema di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE ribadisce l'obbligo di rimando nei casi controversi ovvero, in regime di autoresponsabilità, l'accertamento dell'assenza di ogni ragionevole dubbio esegetico, che tuttavia non va necessariamente dimostrato in modo circostanziato.
Premessa

La leale collaborazione tra giudici nazionali e Corte dell'Unione Europea è un principio fondamentale del diritto UE, essa è espressione del generale obbligo di leale cooperazione tra gli Stati membri sancito dall'art. 4 del TUE e ne rappresenta un corollario indispensabile.

In tale quadro, l'articolo 267 TFUE sancisce che i giudici nazionali abbiano la facoltà, e se di ultima istanza l'obbligo, di richiedere alla Corte quale sia la corretta interpretazione del diritto UE, e la relativa validità, qualora ne sorga questione nell'ambito della controversia da decidere.

Alcune delle principali criticità applicative di tale previsione attengono ai presupposti per ritenere operativo l'obbligo di rinvio gravante sui giudici di ultima istanza. Al riguardo, in particolare negli ultimi anni, il dialogo tra il Consiglio di Stato e la Corte è stato piuttosto intenso.

Da un lato è stata sottolineata l'inadeguatezza della c.d. dottrina Cilfit basata sull'acte claire, dall'altro lato si è evidenziato come la valutazione in merito alla sussistenza o meno dell'obbligo di rinvio non può essere convertita in una ordinaria questione di diritto, emergendo comunque una speciale responsabilità gravante sul giudice di ultima istanza che debba risolvere una questione di interpretazione del diritto dell'Unione.

Non meno importante è la (parzialmente connessa) tematica del risarcimento del danno per mancata applicazione del diritto europeo (anche) da parte del giudice nazionale (su cui i.a. sentenze della Corte UE, 19 novembre 1991, Francovich e a., C-6/90, C-9/90; 5 marzo 1996, Brasserie du pêcheur e Factortame, C-46/93 e C-48/93; 26 marzo 1996, British Telecommunications, C-392/93; 23 maggio 1996, Hedley Lomas, C-5/94; 8 ottobre 1996, Dillenkofer, C-178/94, C-179/94 e da C-188/94 a C-190/94; 2 aprile 1998, Norbrook Laboratories, C-127/95; 4 luglio 2000, Haim, C-424/97; 30 settembre 2003, Köbler, C-224/01; 9 settembre 2015, Ferreira da Silva e Brito e a., C-160/14; 23 gennaio 2019, Fallimento Traghetti del Mediterraneo, C-387/17; 28 giugno 2022, Commissione europea contro Regno di Spagna, C-278/20). Ma i relativi profili critici, in parte senz'altro ancora sussistenti, appaiono forse al momento attuale meno concettualmente divisivi.

Nel presente contributo verrà affrontato in via preponderante e preliminare, pur se necessariamente in estrema sintesi, il tema dell'obbligo di rinvio pregiudiziale, dal momento che esso appare incidere significativamente sull'intera problematica del rapporto tra giudice nazionale e giudice europeo, che può essere meglio scrutinata a seguito dell'esame del primo istituto.

L'obbligo di rinvio pregiudiziale da Cilfit a Bufarini

Il principio dell'obbligo di consultazione della Corte nel caso si debba risolvere in ultima istanza una questione attinente all'applicazione del diritto europeo trova la sua fonte normativa nell'art. 267 TFUE, in precedenza art. 177 del Trattato di Roma, poi art. 234 del Trattato di Maastricht.

La giurisprudenza ha avuto modo di esaminare la portata del predetto obbligo in numerose pronunzie, il cui punto di partenza è sempre il principio per cui occorre rivolgersi alla Corte qualora detto giudice si imbatta in una questione d'interpretazione del diritto dell'Unione (in tal senso, i.a., tra le più risalenti, sentenze 27 marzo 1963, Da Costa, 28-30/62; 6 ottobre 1982, Cilfit e a., 283/81, punto 21).

La regola generale non solleva dubbi teorici, ma la sua applicazione troppo rigorosa implicherebbe il rinvio pregiudiziale in una serie vastissima di casi, con la conseguenza dello snaturamento del rimedio e la violazione dei principi di proporzionalità e di sussidiarietà che permeano l'ordinamento europeo al pari di quello di leale collaborazione.

Conseguentemente sono state elaborate delle eccezioni al suddetto principio.

Infatti, un giudice nazionale di ultima istanza può astenersi dal sottoporre alla Corte una questione di interpretazione del diritto dell'Unione e risolverla sotto la propria responsabilità nel caso la stessa sia irrilevante perché assorbita da una questione preliminare (che non sia essa stessa di rilievo UE), ovvero qualora sussistano precedenti pertinenti, ovvero ancora qualora l'interpretazione corretta del diritto dell'Unione s'imponga con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi (sentenze sopra citate, nonché, i.a., del 9 settembre 2015, Ferreira da Silva e Brito e a., C-160/14, punto 38; 6 ottobre 2021, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi, C561/19, punto 39 e giurisprudenza ivi citata).

L'assunzione di autoresponsabilità da parte del giudice nazionale di ultima istanza appare però concettualmente problematica, giacché, prima di concludere nel senso dell'esistenza dei relativi presupposti, occorre maturare il convincimento che la stessa conclusione evidente si imporrebbe altresì agli altri giudici di ultima istanza degli Stati membri ed alla Corte (per tutte, cfr. Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi, cit., punto 40 e giurisprudenza ivi citata).

Tuttavia, al riguardo, nell'ordinanza Bufarini citata in epigrafe è stato di recente chiarito che:

- non è previsto un obbligo di “dimostrazione circostanziata” della sussistenza di una evidente chiarezza della norma che si imponga anche ai giudici degli altri Stati membri e alla Corte (cfr. punto 46 e ss.);

- i giudici nazionali di ultima istanza sono tenuti a valutare, sotto la propria responsabilità, in maniera indipendente e con tutta la dovuta attenzione, se si trovino nell'ipotesi di assenza di ragionevole dubbio dandone evidenza nella motivazione della decisione con cui si procede autonomamente (cfr. punti 35 e 48 e ss.);

- il (parzialmente diverso) criterio dell'assenza di un “minimo dubbio” su interpretazione o corretta applicazione del diritto UE, invece, si impone solo qualora venga ipotizzato, nell'ambito del procedimento principale, di avvalersi della facoltà eccezionale, in capo ai giudici nazionali, di decidere di mantenere taluni effetti di un atto nazionale incompatibile con il diritto dell'Unione (cfr. Bufarini punto 50, le ulteriori condizioni di tale ipotesi sono enunciate nella sentenza del 28 febbraio 2012, Inter-Environnement Wallonie e Terre wallonne, C41/11);

- soltanto rispetto a tale caso eccezionale l'assenza di ragionevole dubbio necessita di una dimostrazione circostanziata, mentre qualora detta situazione eccezionale sia fuori discussione nel procedimento principale la motivazione può seguire il principio di proporzionalità (cfr. Bufarini punto 51 e ss. nonché punto 52 sentenza Association France Nature Environnement, cit.).

Nella menzionata decisione Bufarini, invece, la Corte non si è espressa in relazione alla questione inerente alla incidenza sull'art. 267 TFUE, in senso mitigativo dell'obbligo di rinvio, dei principi dell'indipendenza del giudice e della ragionevole durata del processo, ritenendo la stessa priva di alcuna relazione con l'oggetto del procedimento principale e pertanto irricevibile. Tuttavia, sul punto, la Corte si era già pronunziata in modo esplicito e negativamente nel caso Köbler (cit., punti 41 e ss.).

Il dibattito dottrinario, giurisdizionale ed in seno alla Corte

L'orientamento giurisprudenziale sopra ricordato, in particolare antecedentemente alla sentenza Bufarini, è stato non di rado criticato in dottrina e considerato insoddisfacente da alcuni giudici nazionali.

Nello specifico, si è sottolineato il possibile abuso del rimedio, di cui le parti del giudizio possono strumentalmente richiedere l'applicazione al fine di prostergare la decisione della controversia, snaturando la funzione dell'istituto.

In tale ottica, alcuni autori hanno evidenziato che lo strumento previsto dall'ultimo comma dell'art. 267 TFUE può divenire anche il mezzo per sovvertire l'ordine interno delle competenze e delle funzioni giurisdizionali interne.

L'indipendenza del giudice e la celerità del giudizio potrebbero inoltre essere poste in discussione.

Anche in seno alla Corte sono state mosse severe critiche alla dottrina Cilfit.

In particolare, riprendendo diversi contributi dottrinari e giurisdizionali, l'Avvocato generale Bobek (nelle sue conclusioni presentate nella menzionata causa C-561/19, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi) ha sostenuto che la Corte dovrebbe riesaminare la propria giurisprudenza sull'obbligo dei giudici nazionali di ultima istanza di richiedere una pronuncia pregiudiziale e dichiarare invece che l'esistenza di tale obbligo dipende da tre condizioni cumulative, ossia quando: (i) viene in rilevo una questione generale di interpretazione del diritto dell'Unione, (ii) sulla quale esistono oggettivamente più interpretazioni ragionevolmente possibili e (iii) per la quale la risposta non può essere dedotta dalla giurisprudenza esistente della Corte.

Le ragioni della inattualità della giurisprudenza Cilfit sarebbero da individuare nel fatto che della stessa né i giudici nazionali né la Corte stessa avrebbero mai applicato i criteri in modo coerente.

In particolare, l'obbligo di rinvio pregiudiziale finalizzato all'interpretazione uniforme del diritto dell'Unione da parte di tutti i giudici all'interno di un qualsiasi Stato membro e in tutta l'Unione verrebbe snaturato dal fatto che un obbligo stabilito per garantire un obiettivo generale non dovrebbe dipendere da dubbi soggettivi quanto all'esito di una singola controversia.

L'uniformità giuridica voluta dal Trattato non riguarderebbe il risultato di ciascun caso specifico ma le norme giuridiche da applicare, per cui, in linea di principio, accanto a un ragionevole grado di uniformità delle norme giuridiche (interpretazione), può esistere una diversità di risultati specifici (applicazione).

Di rilievo, sempre secondo l'orientamento in parola, sarebbe anche la difficoltà, abbracciando il tradizionale orientamento Cilfit, di trovare una controversia in cui l'ausilio interpretativo della Corte non sia necessario, visto l'aumento notevole delle competenze dell'Unione, con risultati in contrasto con i limiti derivanti dalla non illimitatezza della risorsa giustizia sia a livello domestico che in sede UE.

La pronuncia Bufarini e le sue ricadute

Come accennato, la Corte ha di recente confermato il paradigma della dottrina Cilfit, ritenendo che l'articolo 267 TFUE debba essere interpretato nel senso che un giudice nazionale di ultima istanza possa astenersi dal sottoporre alla Corte una questione di interpretazione del diritto dell'Unione, e risolverla sotto la propria responsabilità, laddove la corretta interpretazione del diritto dell'Unione si imponga con un'evidenza tale da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio, senza però necessità di dimostrazione circostanziata della ricorrenza di tale condizione (salvo casi eccezionali) risultando di norma sufficiente una motivazione proporzionale alla rilevanza della questione.

Pur non potendosi dire con certezza se detta recente pronuncia rappresenti il suggello finale in favore dell'orientamento tradizionale, sembra possa osservarsi che il principio del necessario dialogo tra giudice nazionale anche non di ultima istanza e Corte risulta rafforzato.

Infatti, se per un verso non può richiedersi l'applicazione del criterio dell'oltre ogni ragionevole dubbio anche in casi diversi da quelli enunziati dalla Corte, altrimenti snaturandosi la previsione di cui all'art. 267 TFUE terzo comma, per altro verso l'obbligo di motivazione specifica alla luce del diritto UE, ma senza necessità stringente di seguire il diverso criterio dell'assenza di ogni minimo dubbio e della dimostrazione circostanziata (che viene in considerazione solo in casi eccezionali), sembra potenzialmente applicabile in tutte le ipotesi in cui nella controversia concreta si dibatta dell'applicazione di norme UE.

Il rigore di tale principio, qualora la controversia non sia di fronte ai giudici di ultima istanza, può ritenersi temperato ma non pare possa essere obliterato risolvendo la questione unionale nei termini ordinari.

Infatti, appare chiaro che viene in rilievo la responsabilità risarcitoria dello Stato membro per una eventuale infrazione del diritto UE. Tale responsabilità, come noto, può derivare anche da attività dei giudici nazionali, o può essere loro estesa, e potrebbe configurarsi, seppure in casi estremi, anche nel contesto di un giudizio non definitivo, considerando che non sempre in sede di ultima istanza si può reintegrare il bene giuridico eventualmente negato nei precedenti stadi del procedimento.

Si pensi soltanto alla eventualità della reiezione, erronea alla stregua del diritto UE, di un ricorso avverso il respingimento di un immigrato richiedente asilo che, riportato o ritornato nel paese di origine, subisca un evento esiziale.

Inoltre, sotto diverso profilo, la sistematica obliterazione in prime (o seconde ma non ultime) cure di un diritto garantito dall'ordinamento UE, seppure corretto in sede di ultima istanza, potrebbe dar luogo ad una procedura di infrazione da parte della Commissione UE, con l'attivazione successiva dei rimedi interni volti tra l'altro a verificare i presupposti per sanzionare il giudicante che non abbia riposto la dovuta diligenza nella valutazione dei casi alla sua attenzione.

Più in generale, l'obbligo di motivazione specifico (seppure senza dimostrazione circostanziata) appare lo strumento essenziale della leale collaborazione tra giudici nazionali di qualsiasi grado e giudici sovranazionali, alla stregua dei principi di sussidiarietà e proporzionalità.

Deve infatti considerarsi che soltanto con l'applicazione motivata del diritto unionale è possibile comprendere se sussistano diversi orientamenti interni o esterni ed in tal modo offrire cooperazione anche al giudice di ultima istanza ai fini delle scelte di sua prerogativa.

In conclusione

Occorre evidenziare che la giurisprudenza della Corte si caratterizza per l'affermazione di numerosi criteri e variegate condizioni mentre difetta di soluzioni automatiche e certe.

Infatti, da un lato vengono enfatizzati gli obblighi di diligenza gravanti sul giudice (in particolare di ultima istanza), evocandosi il ricorso a tutti i criteri di interpretazione del diritto UE per escludere il rinvio alla Corte qualora emerga un contenuto estremamente chiaro della norma, condivisibile anche dalle Corti di ultima istanza degli altri paesi membri e dalla Corte, con proporzionale motivazione. Dall'altro lato si precisa che, di per sé, la sussistenza di diversi orientamenti giurisprudenziali non conduce necessariamente al rinvio (in tal senso, cfr. Ferreira da Silva e Brito e a., punto 41), che il principio dispositivo non sempre può essere decisivo (secondo quanto sembra doversi desumere dalla sentenza 21 dicembre 2021, Randstad, C-497/20, mentre in senso diverso almeno in ambito risarcitorio pare orientarsi la sentenza 30 aprile 2019 della Corte EDU Repcevirág Szövetkezet v. Hungary) e che non occorre, salvo casi eccezionali, dimostrazione circostanziata della sussistenza dei presupposti per l'assunzione dell'autoresponsabilità da parte del giudice nazionale (cfr. Bufarini, cit.).

Sembra rimasta isolata la pur affascinante posizione espressa dall'Avvocato Generale Bobek che, come visto, fermo l'obbligo di motivazione, ha proposto, in essenza, di introdurre una ulteriore condizione escludente l'obbligo di rinvio, relativa alla non emersione di una “questione generale di interpretazione del diritto dell'Unione”, oltre all'allentamento del criterio del ragionevole dubbio (da valutarsi in senso schiettamente oggettivo), e la precisazione della possibilità di dedurre dalla giurisprudenza esistente della Corte la soluzione del caso concreto (punto comunque già fermo nella giurisprudenza UE).

La ragione dell'attuale mancato sviluppo dell'orientamento innovativo appena menzionato appaiono connesse: (i) all'argomento testuale desumibile dalla formulazione dell'art. 267 TFUE, che sembra imporre come regola il rinvio e come eccezione l'autoresponsabilità; (ii) alla necessità di garantire l'uniforme applicazione del diritto UE, che potrebbe essere messo in discussione da comportamenti non sufficientemente ponderati dei giudici di ultima istanza, che peraltro potrebbero non avere sufficienti criteri per stabilire quali questioni abbiano “portata generale”; (iii) ed all'esigenza di non concentrare eccessivamente sul rimedio risarcitorio la tutela dei diritti garantiti dall'ordinamento europeo.

Al riguardo, anche se può comprendersi la prudenza della Corte e la necessità di tenere conto delle diverse regole sostanziali e procedurali dei paesi membri, va riconosciuta la particolare criticità della posizione assegnata ai giudici nazionali di ultima istanza, che vengono chiamati a risolvere non solo il rebus del caso concreto ma anche l'enigma della coerenza della soluzione data con il diritto UE e degli altri Stati membri, con lo spettro della responsabilità sugli stessi gravante, seppure con le precisazioni effettuate dalla Corte in Kobler (punti 41 e ss.).

Sul punto pare comunque utile tenere in considerazione alcuni elementi.

In primo luogo, non può negarsi che il criterio dell'oltre ogni ragionevole dubbio faccia parte delle tradizioni comuni dei paesi UE e possa configurarsi alla stregua di un importante principio guida nella soluzione della maggior parte dei casi. I giudici civili e amministrativi operano normalmente in base al criterio del più probabile che non, per cui si comprende che la Corte richiede un quid pluris di diligenza nell'esame delle questioni pregiudiziali qualora si decida di non procedere al rinvio alla Corte.

Se la differenza tra maggiore attendibilità probabilistica ed assenza di ragionevoli dubbi è idonea a discernere una controversia di natura penale non pare possa ritenersi che la stessa sia strutturalmente insufficiente a guidare le decisioni in tema di rinvio pregiudiziale del giudice di ultima istanza, almeno nei casi ordinari.

In secondo luogo, non sembra che la problematica della valutazione oggettiva o soggettiva del ragionevole dubbio possa considerarsi di impervia soluzione. Infatti, le eccezioni elaborate dalla Corte all'obbligo di rinvio consentono di propendere per il carattere oggettivo dell'interrogativo che deve attanagliare il giudice di ultima istanza, visto che nemmeno la sussistenza di un diverso orientamento giurisprudenziale domestico o esterno è di per sé idoneo a restringere definitivamente le relative opzioni decisorie (cfr. Ferreira da Silva e Brito e a., punto 41).

Detto dei casi ordinari, va infine notato che, qualora si sia in presenza di una fattispecie peculiare, ed eventualmente anche nei casi soltanto di maggiore difficoltà, i giudici di ultima istanza appaiono disporre di strumenti idonei a svolgere ogni opportuno approfondimento.

Ad esempio la possibilità di rimettere la questione alle sezioni unite della Cassazione (ove la controversia ivi verta) oppure all'adunanza plenaria del Consiglio di Stato (un esperimento in questo senso può forse rinvenirsi nelle ordinanze che hanno dato luogo alle sentenze A.P. da 18 a 22 del 2022, in cui a rigore il quesito posto all'attenzione della Plenaria verteva in modo immediato e diretto sull'interpretazione del diritto UE; mutatis mutandis, pur se in maniera meno evidente, è simile il rinvio che ha condotto alla sentenza del Cons. Stato, Ad. plen. 25 giugno 2018, n. 9). Può altresì immaginarsi la richiesta di pareri all'Ufficio studi o all'Ufficio del massimario ed ancora la facoltà di chiedere un'opinione specifica al giudice di primo grado o comunque delle precedenti cure che abbia ritenuto di applicare il diritto UE considerandolo chiaro in un senso o nell'altro.

Senza trascurare il possibile ricorso a soluzioni più strutturate, come la previsione di apposite udienze eurounitarie ed osservatori permanenti sulla prospettiva comparatistica delle questioni più rilevanti. In questo modo potrebbe forse essere fornito rapidamente un contributo alla soluzione delle questioni più ardue.

Guida all'approfondimento

G.L. BARRECA, Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione europea e l'obbligo di rinvio del giudice nazionale di ultima istanza, in www.giustizia-amministrativa.it.

G. BEBR, The Rambling Ghost of “Cohn-Bendit”: Acte Clair and the Court of Justice, in Comm. Market Law Rev., 1983, p. 439 ss.

N. CATALANO, La pericolosa teoria dell'”atto chiaro”, in Giust. civ., I, 1983, p. 12 ss.

P. DE PASQUALE, La (finta) rivoluzione dell'avvocato generale Bobek: i criteri CILFIT nelle conclusioni alla causa C-561/19, in www.dirittounioneeuropea.eu.

F. FERRARO, Corte di giustizia e obbligo di rinvio pregiudiziale del giudice di ultima istanza: nihil sub sole novum, in www.giustiziainsieme.it.

K. LENAERTS, La modulation de l'obligation de renvoi préjudiciel, in Cahiers de droit européen, 1983, p. 471 ss.

F. LIGUORI, Sulla riformulazione dei criteri CILFIT: le Conclusioni dell'A.G. Bobek nel caso Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi, in www.europeanpapers.eu.

G.L. TOSATO E D. ALIOTTA, Corte di Giustizia e Consiglio di Stato sulla dottrina dell'Acte Clair, in Giornale di diritto amministrativo, n. 3/2022, pagg. 355 e ss.

G. TULUMELLO, Il rinvio pregiudiziale fra mito e realtà (brevi note a primissima lettura della sentenza della Corte di Giustizia dell'U.E., Grande Sezione, 6 ottobre 2021 in causa C-561/19, Consorzio Italian Management - Catania Multiservizi SpA/Rete Ferroviaria Italiana), in Giust. Amm, n. 10/2021.

G. TULUMELLO, Recenti sviluppi del dialogo fra Consiglio di Stato e Corte di Giustizia sull'obbligo “flessibile” di rinvio pregiudiziale da parte dei giudici nazionali di ultima istanza, in www.giustizia-amministrativa.it.

Sommario