La pronuncia della Corte di Giustizia nella controversia tra Louboutin e Amazon

Carmine Di Sanza
16 Febbraio 2023

La Corte di Giustizia si pronuncia nella causa Louboutin/Amazon: la questione oggetto di lite concerne il tema della contraffazione di marchio da parte del marketplace.
La vicenda

Il 22 dicembre 2022 la Corte di giustizia si è pronunciata, nell'ambito di una procedura di rinvio pregiudiziale, sull'interpretazione dell'art. 9 (2)(a) del Regolamento (UE) 2017/1001 (Regolamento sul marchio dell'Unione europea, infra “RMUE”) e, in particolare, sulla nozione di “uso” ai sensi di tale disposizione (1).

La pronuncia pregiudiziale interviene nella controversia tra il celebre stilista Christian Louboutin e il gigante dell'e-commerce Amazon, pendente innanzi ai giudici nazionali del Belgio e del Lussemburgo. Nello specifico, la decisione della Corte riguarda la possibilità di attribuire ad Amazon la responsabilità per la violazione di un marchio di titolarità di Louboutin, in ragione del fatto che, sulla piattaforma di Amazon, soggetti terzi vendono prodotti contraddistinti da un segno identico al marchio in questione, senza l'autorizzazione dello stesso Louboutin.

Dopo aver richiamato la propria giurisprudenza in tema di “uso” di un marchio e di responsabilità dei gestori di piattaforme online, la Corte di giustizia risponde al quesito posto dai giudici nazionali affermando che l'art. 9(2)(a) RMUE consente di ritenere che, nel caso di specie, Amazon abbia fatto uso, in assenza di autorizzazione, di un segno identico al marchio di Louboutin.

La controversia tra Louboutin e Amazon

Christian Louboutin è uno stilista francese, celebre per la realizzazione di scarpe con il tacco la cui suola è laccata di una particolare tonalità di rosso. La specifica colorazione utilizzata da Louboutin, applicata alla suola di scarpe, è registrata come marchio UE (2).

Amazon, come è noto, gestisce una tra le maggiori piattaforme di commercio online al mondo. Su tale piattaforma sono presenti offerte di vendita provenienti sia da Amazon stessa, sia da terzi che si servono della piattaforma per raggiungere il pubblico dei consumatori.

Secondo Louboutin, alcuni soggetti utilizzerebbero la piattaforma di Amazon per commercializzare, senza la necessaria autorizzazione, delle calzature che presentano sulla suola la stessa sfumatura di rosso oggetto del marchio UE di titolarità di Louboutin. Lo stilista sostiene, inoltre, che l'uso non autorizzato del marchio sarebbe imputabile non soltanto ai terzi che vendono tale merce, ma anche alla stessa Amazon. Difatti, a detta di Louboutin, la responsabilità di Amazon discenderebbe dal fatto che, sulla piattaforma, i beni venduti da Amazon e quelli venduti dai terzi sono presentati in maniera uniforme. Ciò indurrebbe i consumatori a ritenere che tutti i beni presenti sulla piattaforma, inclusi quelli che violano il marchio di Louboutin, sarebbero venduti da Amazon.

Sulla base di tali argomentazioni, nel 2019 Louboutin cita in giudizio diverse società del gruppo Amazon, alcune davanti al Tribunale distrettuale del Lussemburgo (3) e altre davanti al Tribunale francofono delle imprese di Bruxelles (4). In entrambi i procedimenti, Louboutin lamenta la contraffazione del proprio marchio, e chiede l'accertamento dell'illecito e la condanna delle controparti al risarcimento del danno.

Amazon contesta le tesi di Louboutin, affermando che l'uso non autorizzato del marchio in questione sarebbe attribuibile esclusivamente ai terzi che, utilizzando la piattaforma digitale, vendono i prodotti contestati. Amazon richiama, a tale proposito, alcuni precedenti della Corte di giustizia, che in passato hanno negato che il gestore di una piattaforma di vendite online sia responsabile per le violazioni di un diritto di marchio commesse dai venditori che si servono di tale piattaforma per raggiungere il pubblico (5).

Poiché le argomentazioni delle parti dipendono, fondamentalmente, dall'interpretazione della nozione di “uso” ai sensi dell'art. 9(2)(a) RMUE, il giudice belga e quello lussemburghese sospendono i rispettivi procedimenti e trasmettono alla Corte di giustizia due richieste di pronuncia pregiudiziale, formulate in maniera pressoché identica, sottoponendo alla Corte diverse questioni di interpretazione pregiudiziale di tale disposizione (6).

Le questioni pregiudiziali e la decisione della Corte di giustizia

La Corte di giustizia tratta congiuntamente tutte le questioni pregiudiziali formulate dalle due corti nazionali. Difatti, secondo la Corte, le due corti chiedono, essenzialmente, “se l'articolo 9, paragrafo 2, lettera a), del regolamento 2017/1001 debba essere interpretato nel senso che si possa ritenere che il gestore di un sito Internet di vendita online che integra, oltre alle proprie offerte di vendita, un mercato online usi esso stesso un segno identico a un marchio dell'Unione europea altrui per prodotti identici a quelli per i quali tale marchio è stato registrato, quando venditori terzi propongono in vendita su detto mercato, senza il consenso del titolare del citato marchio, siffatti prodotti recanti il suddetto segno” (7).

Nel rispondere a tale quesito, la Corte tiene inoltre conto delle specifiche circostanze di fatto indicate come rilevanti dai giudizi nazionali. Esse sono: a) il fatto che, sulla piattaforma di Amazon, le offerte provenienti dalla stessa Amazon e quelle provenienti da terzi sono presentate in maniera uniforme; b) il fatto che il logo di Amazon (in qualità di distributore) compare su tutti gli annunci di vendita, inclusi quelli provenienti dai terzi; c) il fatto che Amazon offre ai venditori che si avvalgono della piattaforma una serie di servizi complementari, come l'assistenza nella presentazione dei prodotti, lo stoccaggio e la spedizione.

La Corte di giustizia inizia la propria analisi ricordando che, sebbene l'art. 9 RMUE consenta al titolare di un marchio UE di vietare l'uso non autorizzato di tale marchio da parte di terzi, tale disposizione non offre una specifica definizione della nozione di “uso” di un marchio (8). La Corte richiama però a tale proposito alcune proprie decisioni, che hanno chiarito che il concetto di “uso” implica necessariamente un comportamento attivo e il controllo su tale comportamento (9).

La Corte afferma che, perché si possa ritenere che un soggetto abbia utilizzato un segno, è necessario che tale utilizzo sia avvenuto quanto meno nella comunicazione commerciale di tale soggetto. Per questa ragione, è del tutto possibile immaginare situazioni in cui un soggetto crea le condizioni tecniche che consentono a dei terzi di utilizzare un segno identico a un marchio, pur senza fare uso egli stesso di tale segno (10).

Proprio in virtù del principio appena ricordato, la Corte di giustizia rammenta di aver affermato, in alcuni precedenti, “con riguardo al gestore di un mercato online, che l'uso di segni identici o simili a marchi in offerte di vendita che compaiono in detto mercato ha luogo unicamente ad opera dei clienti‑venditori di tale gestore e non ad opera di questo, in quanto esso non utilizza il suddetto segno nell'ambito della propria comunicazione commerciale” (11).

Venendo al tema dei servizi aggiuntivi offerti da Amazon ai venditori che si servono della piattaforma, e in particolare in relazione al servizio di stoccaggio, la Corte afferma che “quando il gestore di un mercato online offre servizi di stoccaggio ai venditori terzi attivi su tale mercato, in modo da conservare per conto di tali venditori terzi prodotti che violano un diritto di marchio, senza tuttavia essere a conoscenza della natura contraffatta dei prodotti in questione e senza avere l'obiettivo di offrire esso stesso i prodotti che ha stoccato o di immetterli in commercio, i segni apposti sui prodotti stoccati non sono utilizzati dal gestore, bensì unicamente da tali venditori” (12).

Sino a questo punto, la decisione della Corte sembra volgere del tutto a favore di Amazon. Difatti, le statuizioni appena richiamate sono tratte dai casi Coty-Germany e L'Oréal, cioè dalle stesse decisioni su cui si fondano le difese di Amazon (13).

Tuttavia, dopo aver ricordato l'evoluzione giurisprudenziale in merito alla nozione di “uso” di un marchio e in merito alla responsabilità diretta del gestore di una piattaforma online per la vendita di prodotti contraffatti da parte di terzi, la Corte passa ad evidenziare le differenze della controversia tra Louboutin e Amazon rispetto ai casi precedenti. In particolare, la Corte attribuisce particolare rilevanza al fatto, segnalato dai giudizi nazionali, che sulla piattaforma di Amazon sono presenti annunci di vendita sia della stessa Amazon sia di venditori terzi, che tali annunci non sono differenziati in base alla loro provenienza, e che il logo di Amazon appare indistintamente su tutti gli annunci, inclusi quelli dei terzi (14).

La Corte afferma quindi che, alla luce di tale circostanza, è necessario stabilire se possa ritenersi che l'uso del segno identico al marchio di Louboutin sia divenuto parte della comunicazione commerciale di Amazon. A detta della Corte, tale analisi deve essere effettuata valutando “se un utente normalmente informato e ragionevolmente attento del menzionato sito Internet stabilisca un nesso tra i servizi di detto gestore e il segno in questione” (15).

Nello svolgimento di tale valutazione, la Corte valuta le varie circostanze di fatto segnalate dalle corti nazionali al momento della richiesta di pronuncia pregiudiziale. In particolare, secondo la Corte, “la circostanza che il gestore di un sito Internet di vendita online che integra un mercato online ricorra a una modalità di presentazione uniforme delle offerte pubblicate sul suo sito Internet, mostrando allo stesso tempo i propri annunci e quelli dei venditori terzi e facendo apparire il proprio logo di noto distributore tanto sul suo sito Internet quanto su tutti i suddetti annunci, compresi quelli relativi a prodotti offerti da venditori terzi, può rendere difficile tale chiara distinzione e dare quindi all'utente normalmente informato e ragionevolmente attento l'impressione che sia il suddetto gestore a commercializzare, in nome e per conto proprio, anche i prodotti offerti in vendita dai menzionati venditori terzi. Pertanto, se detti prodotti recano un segno identico a un marchio altrui, tale presentazione uniforme è idonea a creare un collegamento, agli occhi di siffatti utenti, fra il segno in questione e i servizi forniti dal medesimo gestore” (16).

Il nesso che sorge nella mente dei consumatori è inoltre rafforzato, a detta della Corte, dal fatto che Amazon offre servizi aggiuntivi ai venditori che si avvalgono della piattaforma, in particolare occupandosi di gestire le domande provenienti dagli utenti e relative ai prodotti offerti in vendita dai terzi (17).

Per tali ragioni, la Corte di Giustizia risponde alle domande pregiudiziali formulate dai giudici nazionali affermando che l'art. 9(2)(a) RMUE consente di ritenere che, in presenza delle circostanze appena descritta, il gestore di una piattaforma online faccia uso di un segno identico a un marchio, poiché un utente della piattaforma potrebbe avere l'impressione che sia il gestore stesso a commercializzare i prodotti recanti il suddetto segno.

I risvolti del principio sancito dalla Corte, anche alla luce delle disposizioni del DSA

La decisione della Corte è degna di nota per varie ragioni.

In primo luogo, nel rendere una decisione favorevole per Louboutin, la Corte ha disatteso le indicazioni dell'Avvocato generale Szpunar, che nelle proprie Conclusioni aveva affermato di ritenere che l'uso del segno identico al marchio di Louboutin non potesse essere attribuito ad Amazon (18).

È interessante notare che la Corte di giustizia condivide, in realtà, il percorso argomentativo sviluppato dall'AG Szpunar, ma giunge a conclusioni opposte per via di una diversa valutazione fattuale della controversia. Difatti, mentre la Corte afferma che la disposizione degli annunci di vendita sulla piattaforma online di Amazon indurrebbe i consumatori a ritenere che i prodotti recanti il segno identico al marchio di Louboutin siano commercializzati direttamente da Amazon, l'Avvocato generale ritiene che non sia così. Egli fa infatti notare che, all'interno degli annunci presenti sulla piattaforma di Amazon, “è sempre specificato se i prodotti sono venduti da venditori terzi o direttamente da Amazon” e che Amazon è nota, oltre che come distributore, anche come gestore di una piattaforma online, e che i consumatori sarebbero quindi consapevoli del fatto che la piattaforma presenta annunci provenienti sia da Amazon sia da terzi (19).

In secondo luogo, la decisione della corte amplia in misura significativa la responsabilità dei gestori di piattaforme di vendita online per le violazioni dei diritti di marchio commesse dai soggetti che operano su tali piattaforme.

Nel fare ciò, essa non si pone in diretto contrasto con i propri stessi precedenti, che in passato hanno negato la responsabilità dei gestori per le attività venditori della piattaforma che utilizzano la piattaforma, perché effettua, come già segnalato, un distinguo. È la Corte stessa, infatti, ad evidenziare le circostanze di fatto che differenziano la controversia tra Louboutin e Amazon rispetto a quelle che avevano dato luogo alle decisioni precedenti (20). Tali circostanze sono, a ben vedere, talmente specifiche che è difficile ipotizzare come il principio reso dalla Corte possa essere applicato in altre controversie o in settori di mercato diversi da quello digitale.

Uscendo dall'ambito specifico del diritto dei marchi, ma rimanendo in tema di attività illecite compiute attraverso una piattaforma digitale, è utile ricordare che il 16 novembre 2022 è entrato in vigore il Regolamento sui servizi digitali (c.d. “Digital Services Act” o “DSA”), e che le disposizioni ivi contenute saranno direttamente applicabili nel territorio dell'Unione europea a partire dal 17 febbraio 2024 (21).

Alcune norme del DSA (gli artt. 29-32) si applicano specificamente alle piattaforme online “che consentono ai consumatori di concludere contratti a distanza con gli operatori commerciali”, categoria alla quale Amazon appartiene a pieno titolo. In particolare, gli artt. 30 e 32 DSA paiono rivestire un certo interesse ai nostri fini.

L'art. 30 DSA è rubricato “Tracciabilità degli operatori commerciali” e prevede l'obbligo, a carico del gestore di una piattaforma online che consente ai consumatori di concludere contratti con terzi, di ottenere una serie di informazioni volte a rendere identificabili gli operatori commerciali che desiderano utilizzare la piattaforma stessa per raggiungere i consumatori. Se detti operatori commerciali non forniscono le informazioni richieste ai sensi dell'art. 30, il gestore non può consentire loro di utilizzare la piattaforma (22).

L'art. 32 DSA è invece rubricato “Diritto all'informazione”, e stabilisce che, se il gestore di una piattaforma utilizzata da operatori commerciali per raggiungere il pubblico viene a conoscenza “del fatto che un prodotto o servizio illegale è stato offerto da un operatore commerciale a consumatori situati nell'Unione attraverso i suoi servizi”, il gestore stesso è tenuto a informare i consumatori del fatto che essi hanno acquistato un prodotto o servizio illegale.

È evidente che le disposizioni appena illustrate hanno lo scopo di contrastare le attività illecite compiute da terzi utilizzando i servizi di una piattaforma digitale. Attività, quindi, della stessa tipologia di quelle oggetto della controversia tra Louboutin e Amazon.

In tale contesto, l'applicazione degli artt. 30 e 32 DSA potrebbe risultare vantaggiosa per i gestori delle piattaforme digitali. Tali norme, infatti, ponendo a carico dei gestori stessi obblighi rigorosi di identificazione e informazione, renderanno (auspicabilmente) più facile identificare gli operatori economici presenti sui mercati on line (23). Di conseguenza, il titolare di un marchio che dovesse in futuro riscontrare, su una piattaforma digitale, la vendita di prodotti contraffatti da parte di soggetti terzi, dovrebbe avere a disposizione le informazioni necessarie per rivolgere le proprie pretese direttamente nei confronti di tali soggetti, piuttosto che nei confronti del gestore della piattaforma (come avvenuto nel caso Louboutin).

Sarà però necessario attendere la concreta attuazione delle disposizioni del DSA per sapere se i titolari di diritti di proprietà intellettuale riterranno utile agire direttamente contro i contraffattori, o se preferiranno comunque contestare la contraffazione ai gestori delle piattaforme, valendosi del principio di diritto fissato dalla Corte di giustizia nella sentenza Louboutin.

Note

(1) Corte di giustizia, cause riunite C-148/21 e C-184/21, sentenza del 22 dicembre 2022, Louboutin c. Amazon (infra “Corte di Giustizia, Louboutin c. Amazon”).

(2) Si tratta del marchio UE n. 8845539. Esso è un marchio di posizione e riguarda la sfumatura di rosso identificata dal codice Pantone 18.1663TP.

(3) Tribunal d'arrondissement de Luxembourg.

(4) Tribunal de l'entreprise francophone de Bruxelles.

(5) I precedenti in questione sono: Corte di Giustizia, causa C-567/18, sentenza del 2 aprile 2020, Coty Germany e Corte di Giustizia, causa C-324/09, sentenza del 21 luglio 2011, L'Oréal.

(6) Nello specifico, il Tribunal d'arrondissement de Luxembourg chiede alla Corte:

1) Se l'articolo 9, paragrafo 2, del [regolamento 2017/1001] debba essere interpretato nel senso che l'uso di un segno identico a un marchio in una pubblicità pubblicata su un sito [Internet] sia imputabile al suo gestore o ad entità economicamente collegate in ragione della mescolanza su tale sito delle offerte proprie del gestore o delle entità economicamente collegate e di quelle di venditori terzi, mediante l'integrazione di tali pubblicità nella comunicazione commerciale propria del gestore o delle entità economicamente collegate.

Se siffatta integrazione sia rafforzata dal fatto che:

– le pubblicità sono presentate in modo uniforme sul sito;

– le pubblicità proprie del gestore e delle entità economicamente collegate e quelle dei venditori terzi sono visualizzate indistintamente per quanto riguarda la loro origine, ma mostrando chiaramente il logo del gestore delle entità economicamente collegate nelle sezioni pubblicitarie di siti Internet di terzi sotto forma di “pop-up”;

– il gestore o entità economicamente collegate offrono un servizio integrato ai venditori terzi, che include un'assistenza all'elaborazione delle pubblicità e alla fissazione dei prezzi di vendita, lo stoccaggio dei prodotti e la loro spedizione;

– il sito del gestore e delle entità economicamente collegate è concepito in modo tale da presentarsi sotto forma di negozi e di etichette quali “bestseller”, “i più desiderati” o “i più regalati”, senza alcuna distinzione apparente prima facie tra i prodotti propri del gestore e delle entità economicamente collegate e i prodotti di venditori terzi.

2) Se l'articolo 9, paragrafo 2, del [regolamento 2017/1001] debba essere interpretato nel senso che l'uso di un segno identico a un marchio in una pubblicità pubblicata su un sito di vendita online sia, in linea di principio, imputabile al gestore di detto sito o ad entità economicamente collegate qualora, nella percezione di un internauta normalmente informato e ragionevolmente attento, tale gestore o un'entità economicamente collegata abbia svolto un ruolo attivo nell'elaborazione della pubblicità di cui trattasi o quest'ultima sia percepita come parte della comunicazione commerciale propria di detto gestore.

Se su tale percezione influisca:

– la circostanza che detto gestore e/o entità economicamente collegate siano un noto distributore di un'ampia varietà di prodotti, tra cui prodotti della stessa categoria di quelli pubblicizzati;

– o la circostanza che la pubblicità così pubblicata presenti un'intestazione nella quale è riprodotto il marchio di servizio di tale gestore o delle entità economicamente collegate, essendo detto marchio rinomato come marchio di distributore;

– o ancora la circostanza che tale gestore o entità economicamente collegate offrano, contemporaneamente a detta pubblicazione, servizi tradizionalmente offerti dai distributori di prodotti della medesima categoria in cui rientra il prodotto pubblicizzato.

3) Se l'articolo 9, paragrafo 2, del [regolamento 2017/1001] debba essere interpretato nel senso che la spedizione, nel commercio e senza il consenso del titolare di un marchio, al consumatore finale di un prodotto recante un segno identico al marchio costituisca un uso imputabile al mittente solo se quest'ultimo ha una conoscenza effettiva dell'apposizione di tale segno sul prodotto.

Se detto mittente sia l'utilizzatore del segno in questione qualora esso stesso o un'entità economicamente collegata abbia indicato al consumatore finale che si incaricherà della spedizione dopo che esso stesso o un'entità economicamente collegata ha stoccato il prodotto a tal fine.

Il Tribunal de l'entreprise francophone de Bruxelles chiede invece:

1) Se l'articolo 9, paragrafo 2, del [regolamento 2017/1001] debba essere interpretato nel senso che l'uso di un segno identico a un marchio in una pubblicità pubblicata su un sito [Internet] sia, in linea di principio, imputabile al gestore di detto sito qualora, nella percezione di un internauta normalmente informato e ragionevolmente attento, tale gestore abbia svolto un ruolo attivo nell'elaborazione della pubblicità di cui trattasi o quest'ultima possa essere percepita dall'internauta in questione come parte della comunicazione commerciale propria di detto gestore.

Se su tale percezione influisca:

– la circostanza che detto gestore sia un noto distributore di un'ampia varietà di prodotti, tra cui prodotti della stessa categoria di quelli pubblicizzati;

– o la circostanza che la pubblicità così pubblicata presenti un'intestazione nella quale è riprodotto il marchio di servizio di tale gestore, essendo detto marchio rinomato come marchio di distributore;

– o ancora la circostanza che tale gestore offra, contemporaneamente a detta pubblicazione, servizi tradizionalmente offerti dai distributori di prodotti della medesima categoria in cui rientra il prodotto pubblicizzato.

2) Se l'articolo 9, paragrafo 2, del [regolamento 2017/1001] debba essere interpretato nel senso che la spedizione, nel commercio e senza il consenso del titolare di un marchio, al consumatore finale di un prodotto recante un segno identico al marchio costituisca un uso imputabile al mittente solo se quest'ultimo ha una conoscenza effettiva dell'apposizione di tale segno sul prodotto.

Se detto mittente sia l'utilizzatore del segno in questione qualora esso stesso o un'entità economicamente collegata abbia indicato al consumatore finale che si incaricherà della spedizione dopo che esso stesso o un'entità economicamente collegata ha stoccato il prodotto a tal fine.

Se detto mittente sia l'utilizzatore del segno in questione qualora esso stesso o un'entità economicamente collegata abbia precedentemente contribuito in modo attivo alla pubblicazione, nel commercio, di una pubblicità del prodotto recante tale segno o abbia registrato l'ordine del consumatore finale, tenuto conto di tale pubblicità.

(7) Corte di Giustizia, Louboutin c. Amazon, § 23.

(8) Corte di Giustizia, Louboutin c. Amazon, § 24-25.

(9) Corte di Giustizia, Louboutin c. Amazon, § 27-28.

(10) Corte di Giustizia, Louboutin c. Amazon, § 29 e § 31.

(11) Corte di Giustizia, Louboutin c. Amazon, § 30.

(12) Corte di Giustizia, Louboutin c. Amazon, § 32.

(13) Le decisioni Coty Germany e L'Oréal. Cfr. nota 6.

(14) Corte di Giustizia, Louboutin c. Amazon, § 33-36.

(15) Corte di Giustizia, Louboutin c. Amazon, § 39-43.

(16) Corte di Giustizia, Louboutin c. Amazon, § 51.

(17) Corte di Giustizia, Louboutin c. Amazon, § 53.

(18) Conclusioni dell'Avvocato generale Maciej Szpunar, 2 giugno 2022, Cause riunite C-148/21 e C-184/21, Louboutin c. Amazon, § 101.

(19) Conclusioni dell'AG Szpunar, Louboutin c. Amazon, § 85-86.

(20) La decisione L'Oréal riguardava la piattaforma di vendita online eBay, sulla quale non sono presenti offerte di vendita provenienti dal gestore della piattaforma, ma esclusivamente da venditori terzi. Per quel che riguarda invece la decisione Coty Germany, essa riguardava Amazon, ma tra le circostanze segnalate alla Corte dal giudice nazionale era indicato soltanto lo svolgimento da parte di Amazon dell'attività di spedizione e stoccaggio di beni contraffatti venduti da terzi.

(21) Regolamento (UE) 2022/2065 del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 ottobre 2022 relativo a un mercato unico dei servizi digitali e che modifica la direttiva 32000/31/CE (regolamento sui servizi digitali). L'applicazione del regolamento a partire dal 17 febbraio 2024 è prevista dall'art. 93(2) DSA.

(22) Le informazioni che il gestore della piattaforma deve ottenere dai terzi, ai sensi dell'art. 30(1) DSA, sono:“a) il nome, l'indirizzo, il numero di telefono e l'indirizzo di posta elettronica dell'operatore commerciale; b) una copia del documento di identificazione dell'operatore commerciale o qualsiasi altra identificazione elettronica quale definita all'articolo 3 del regolamento (UE) n. 910/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio; c) i dati relativi al conto di pagamento dell'operatore commerciale; d) qualora l'operatore commerciale sia iscritto in un registro delle imprese o analogo registro pubblico, il registro presso il quale è iscritto e il relativo numero di iscrizione o mezzo equivalente di identificazione contemplato in detto registro; e) un'autocertificazione da parte dell'operatore commerciale con cui quest'ultimo si impegna a offrire solo prodotti o servizi conformi alle norme applicabili del diritto dell'Unione.”.

(23) L'art. 30(7) DSA prevede che parte delle informazioni raccolte dal gestore di una piattaforma ai sensi dell'art. 30(1) DSA – quelle di cui alle lett. a), d, ed e) – siano pubblicamente messe e disposizione sulla piattaforma stessa. Inoltre, l'art. 32(1)(b) prevede che il gestore di una piattaforma comunichi ai consumatori “l'identità dell'operatore commerciale” che ha offerto prodotti o servizi illeciti.

Carmine Di Sanza