La sentenza in commento consente di svolgere alcune osservazioni in merito al potere di disapplicazione del giudice amministrativo che, al di fuori dei casi di giurisdizione esclusiva, rappresenta un profilo approfondito saltuariamente nelle pronunce giurisdizionali.
Invero, nelle questioni ricadenti nella giurisdizione del giudice ordinario (o in quella esclusiva del giudice amministrativo) gli articoli 4 e 5 della legge n. 2248/1865 attribuiscono il potere di conoscere incidentalmente gli atti amministrativi che assumono rilievo per la decisione della controversia e di procedere a disapplicarli, qualora gli stessi risultino non conformi alla legge (ciò sia nel caso in cui l'atto è la fonte diretta della lesione, sia nel caso in cui l'atto sia un presupposto rispetto alla pretesa fatta valere in giudizio).
Il potere in questione può riguardare tanto atti amministrativi aventi contenuto provvedimentale, quanto atti normativi (c.d. disapplicazione normativa), che possono venire in rilievo qualora siano il presupposto dell'atto amministrativo impugnato (è l'ipotesi del c.d. regolamento “volizione-preliminare”, che non lede direttamente l'interessato).
La ratio del potere attribuito dalla citata l. n. 2248/1865, come noto, risiedeva nell'esigenza di raggiungere un equilibrio tra i poteri del giudice (allora ordinario) e quelli della amministrazione; equilibrio che fu individuato, da un lato, nel non consentire al giudice ordinario di intervenire direttamente sugli atti amministrativi che indicono sui diritti soggettivi (ciò, ben inteso, al di fuori dei casi, pur residuali, in cui allo stesso sono conferiti poteri di annullamento, come ad es., nel caso di sanzioni amministrative ex art. 23 l. n. 689/1981 o dei provvedimenti del garante privacy, ex art. 152 del d.lgs. n. 196/2003); dall'altro, nell'attribuire al giudice il potere di disapplicare, anche d'ufficio, l'atto amministrativo al fine di dare tutela alla posizione soggettiva.
Il potere di disapplicazione è stato poi ritenuto estendibile – in una prospettiva di effettività di tutela – anche al giudice amministrativo, nei casi in cui è chiamato a conoscere di diritti soggettivi , nell'ambito della sua giurisdizione esclusiva (ex multis, v. Cons. Stato, sez. VI, 20 aprile 2001, n. 3242 che precisa come il giudice amministrativo, anche in mancanza di richiesta delle parti, possa “giungere alla disapplicazione della norma regolamentare che si ponga in contrasto con la legge qualora incida su una posizione di diritto soggettivo perfetto, il cui contenuto è completamente riconducibile alla norma di legge”).
Il riconoscimento del potere di disapplicazione nell'ambito della giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo ha seguito invece un percorso diverso, rispondendo ad una ratio differente.
Infatti, nell'ambito della giurisdizione di legittimità, il giudice amministrativo è normalmente dotato del potere di annullamento con la conseguente possibilità di conoscere e annullare gli atti e i regolamenti amministrativi illegittimi, lesivi di posizione di interesse legittimo, con efficacia di giudicato. A fronte di questo generale potere, esercitabile nel caso di impugnazione diretta dell'atto entro il termine decadenziale, dottrina e giurisprudenza ritenevano in origine che il potere di disapplicazione dell'atto amministrativo lesivo non avrebbe avuto ragion d'essere e, anzi, che lo stesso si sarebbe posto in tensione con la previsione di termini decadenziali per l'azione, consentendo, in ipotesi, anche in mancanza di impugnazione, di poter chiedere la tutela dell'interesse legittimo, mediante la disapplicazione dell'atto amministrativo lesivo, non impugnato entro i termini.
Se quanto sopra vale per la c.d. disapplicazione provvedimentale, discorso in parte diverso si è sviluppato nei riguardi della disapplicazione normativa, fattispecie che riguarda appunto la sentenza in commento.
Il regolamento amministrativo può infatti venire in rilievo quale atto presupposto dell'atto lesivo e, in tal caso, lo stesso potrà essere oggetto di impugnazione unitamente all'atto finale e soggetto al potere di annullamento del giudice. Può tuttavia accadere – ed è il caso oggetto della sentenza in esame – che il regolamento non sia oggetto di impugnazione e, anzi, venga in rilievo incidentalmente quale parametro di valutazione della legittimità dell'atto impugnato, che si assume contrario ad una norma regolamentare (rapporto c.d. di antipatia).
In tale ultimo caso, parte ricorrente non avrebbe chiaramente interesse a dedurre la illegittimità della norma regolamentare e a richiederne all'annullamento. Pertanto (e in assenza di una eventuale richiesta di annullamento di parte resistente, tramite ricorso incidentale), il giudice si troverebbe a conoscere del regolamento alla stregua di un parametro normativo del giudizio.
Qualora in tale scenario dovesse emergere un possibile contrasto tra il regolamento e una disposizione di legge, il giudice dovrebbe allora procedere a risolvere l'antinomia secondo gli ordinari criteri inerenti i rapporti tra le fonti di diverso grado, facendo anzitutto ricorso al principio di interpretazione conforme, al fine di salvaguardare l'effetto del regolamento e offrire una lettura conforme alla legge. Ove non fosse possibile il ricorso al procedimento ermeneutico – e non essendo rilevabile un fenomeno di abrogazione, che come tale avrebbe una portata generale –, l'istituto della disapplicazione consente allora al giudice di risolvere il contrasto apparente tra le due fonti, dando prevalenza a quella sovraordinata, con effetti limitati al giudizio e con salvezza dell'efficacia generale del regolamento.
A ben vedere, in tale ipotesi, la disapplicazione non è tanto un potere tipizzato e finalizzato a fornire protezione ad una situazione giuridica che si assume lesa dall'atto (come nel caso dell'art. 5 della citata legge n. 2248/1865), ma una tecnica di giudizio con cui si risolvono contrasti tra fonti normative, deputate a disciplinare la fattispecie, che si concretizza nella non applicazione, al caso concreto, della fonte regolamentare illegittima, in applicazione del principio iura novit curia.
Si noti come la fattispecie (e i correlati poteri del giudice) sarebbero ancora diversi se la fonte regolamentare fosse illegittima, non perché in contrasto con la legge, ma perché conforme ad una legge che presenta profili di incostituzionalità. In tal caso il giudice non potrebbe far ricorso alla disapplicazione (della legge o del regolamento), ma sarebbe tenuto a sollevare la questione incidentale di legittimità, ex art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87.
Sulla base di queste brevi linee ricostruttive, la sentenza in commento si pone nel solco dell'oramai affermato orientamento che consente al giudice amministrativo di disapplicare un regolamento illegittimo, seppur non impugnato.
Peraltro, va segnalato come nella motivazione della sentenza, il giudice appare ammettere la possibilità di una interpretazione conforme del regolamento alla legge – secondo la tesi peraltro sostenuta dalla amministrazione resistente –, in ragione della mancanza di portata innovativa della nota contenuta nella tabella del regolamento, invocata dal ricorrente a sostegno della illegittimità della esclusione. Pur a fronte di tale opzione ermeneutica, che sembra indicare una inidoneità del regolamento a derogare alla norma di legge, la sentenza rileva - quasi ad abundantiam -, che nell'ipotesi in cui si dovesse accedere alla contraria prospettiva interpretativa di parte ricorrente, si dovrebbe in ogni caso procedere alla disapplicazione del regolamento, in quanto porrebbe il regolamento, in parte qua, in stridente contrasto con quanto disposto dal richiamato art. 1, co. 110, della legge n. 107/2015, che fonda la base del provvedimento di esclusione contestato nel giudizio.
Tale peculiarità – che porta la situazione in diritto oggetto di analisi a differenziarsi dal “palese contrasto”, insuscettibile di interpretazione conforme, accertato invece dal precedente del Consiglio di Stato citato nella medesima sentenza – appare derivare, da un lato, dalla stessa posizione della amministrazione resistente, che non si spinge fino a ritenere illegittimo il regolamento; dall'altro, dall'esistenza di una precedente ordinanza cautelare adottata dal Consiglio di Stato, il quale aveva ritenuto sussistente il fumus lamentato dal ricorrente circa la apparente contrarietà dell'atto di esclusione con la norma regolamentare, senza tuttavia esprimersi sulla possibilità di una disapplicazione della norma.