Potere del giudice di amministrativo di disapplicare d'ufficio atti normativi di rango regolamentare in contrasto con la norma primaria

Ciro Daniele Piro
20 Febbraio 2023

Nell'ambito della sua giurisdizione di legittimità, il giudice amministrativo può procedere a disapplicare una norma regolamentare, anche d'ufficio e in assenza di una richiesta di parte, qualora la stessa si ponga in contrasto con una norma di legge, che fonda la legittimità del provvedimento ammnistrativo impugnato.
Massima

1. Sussiste il potere del giudice di amministrativo di disapplicare, anche d'ufficio, atti normativi di rango regolamentare in contrasto con la norma primaria, ancorché non impugnati.

Il divieto di pronunciarsi ultra petitum (ex art. 112 c.p.c.) non consente al giudice amministrativo di annullare l'atto regolamentare non oggetto di impugnazione, se in contrasto con una disposizione di legge. In tale ipotesi, il giudice può nondimeno procedere a disapplicare la norma del regolamento incidenter tantum e senza efficacia di giudicato, ritenendo legittimo l'atto amministrativo che, pur adottato in apparente difformità con la fonte regolamentare, risulti conforme alla norma primaria.

Conforme: Cons. Stato, sez. V, 28 settembre 2016, n. 4009; Cons. Stato, sez. IV, 8 febbraio 2016, n. 475; Cons. Stato, sez. IV, 5 febbraio 2018, n. 702.

2. Il principio del legittimo affidamento trova applicazione allorché l'amministrazione, nell'esercizio di suoi poteri di autotutela, procede ad annullare o revocare una sua precedente determinazione e non anche nel caso in cui il potere esercitato consista in un provvedimento di esclusione adottato a scioglimento della riserva prevista dal bando in ordine all'effettivo possesso da parte dei candidati dei requisiti previsti per la loro partecipazione al concorso.

Conforme: Cons. Stato, sez. V, 5 marzo 2019, n. 1523.

Il caso

La controversia esaminata dal TAR Lazio – in sede di udienza di smaltimento – ha ad oggetto un'azione di annullamento promossa avverso la determinazione con cui l'Ufficio scolastico regionale del Veneto escludeva la ricorrente da un concorso per il reclutamento di personale docente indetto nel 2016, in ragione della mancanza dell'abilitazione all'insegnamento, richiesta dal bando di concorso ai fini della partecipazione.

La tesi della ricorrente si fonda sulla circostanza per cui il bando di concorso, ai fini della partecipazione, richiama il d.P.R. n. 19/2016 in tema di razionalizzazione ed accorpamento delle classi di concorso a cattedre e a posti di insegnamento, il quale avrebbe sancito la sostanziale equiparazione della laurea in lettere al titolo abilitante richiesto dal bando e, comunque, avrebbe consentito la partecipazione al concorso in favore di chi ne fosse comunque in possesso.

Secondo l'amministrazione, tale equiparazione, contenuta in una nota alla tabella di equiparazione di cui al citato d.P.R., non avrebbe una portata innovativa e andrebbe in ogni caso interpretata in senso conforme a quanto dispone la legge n. 107/2015, nel senso che alle procedure concorsuali per il reclutamento di personale docente possono partecipare “esclusivamente i candidati in possesso del relativo titolo di abilitazione all'insegnamento” (art. 1, co. 10), che nel caso di specie la ricorrente non possedeva.

Per completezza deve osservarsi che sulla questione si era già pronunciato, in sede cautelare, il Consiglio di Stato (sez. VI, ord. 9 ottobre 2017, n. 4341). Quest'ultimo, riformando l'ordinanza di rigetto di misure cautelari del TAR (sez. III-bis, ord. 26 maggio 2017, n. 2664), aveva demandato all'amministrazione di riesaminare il provvedimento di esclusione dalla procedura concorsuale al fine di verificare se l'appellante fosse in possesso, o meno, del titolo di idoneità ai fini della partecipazione al concorso, come indicato nella fonte regolamentare richiamata dal bando (si trattava, nello specifico, della tabella A al d.P.R. n. 19/2016). A seguito del remand, l'Ufficio scolastico regionale aveva confermato l'esclusione non ritenendo il titolo di studio dalla stessa posseduto idoneo ai fini della partecipazione al concorso.

La questione

La decisione in commento affronta, sotto il profilo processuale, la questione relativa ai poteri del giudice amministrativo nel caso di impugnazione di un atto amministrativo che si assume illegittimo poiché in violazione di una norma di rango regolamentare, ma che appare tuttavia conforme ad una disposizione legislativa.

Un'ulteriore questione riguarda, sotto il profilo sostanziale, l'esistenza di una posizione di legittimo affidamento o di consolidamento da parte di una candidata, in ragione dell'avvenuto superamento delle prove scritte e orali, sul presupposto che l'esclusione per la mancanza dei requisiti di partecipazione era stata disposta solo successivamente all'espletamento delle stesse, alle quali era stata ammessa con riserva.

Le soluzioni giuridiche

Il Collegio esamina in primo luogo la tesi della ricorrente che fonda la illegittimità del provvedimento di esclusione dal concorso sul contrasto con il portato normativo di una nota, riportata in una tabella del regolamento adottato con d.P.R. n. 19/2016, secondo cui la laurea in lettere costituisce a determinate condizione un titolo di accesso al concorso. Tale disposizione, secondo la ricorrente, dovrebbe prevalere sulla lex specialis che invece richiede necessariamente, ai fini dell'ammissione al concorso, il possesso dell'abilitazione all'insegnamento, conformemente al disposto dell'art. 1, co. 110, l. n. 107/2015.

Ad avviso del giudice, la citata norma di legge – entrata in vigore anteriormente al d.P.R. n. 19/2016 – nel disporre che ai futuri concorsi possono partecipare “esclusivamente i candidati in possesso del relativo titolo”, vincola interamente la successiva attività amministrativa e non appare essere stata derogata, sul punto, dalla richiamata nota del regolamento. Quest'ultima, prosegue il giudice, avrebbe valore esemplificativo o generico e non risulta produrre un effetto innovativo, tale da attribuire alle lauree in lettere (come quella posseduta dal ricorrente) un valore abilitante.

Tale soluzione è supportata dalla decisione in commento sulla base di un'ulteriore considerazione. Il Collegio rileva che, anche volendo interpretare le disposizioni del regolamento nel senso voluto da parte ricorrente (ossia tale da riconoscere alla laurea un titolo di partecipazione al concorso), la norma regolamentare si porrebbe in inequivoco contrasto con la disposizione di legge di cui al richiamato art. 1, co. 110, l. n. 107/2015. Per l'effetto, si verificherebbe una situazione di: apparente difformità dell'atto impugnato con la fonte regolamentare (c.d. antipatia), da un lato; conformità dell'atto con la legge, dall'altro (c.d. simpatia).

Ad avviso del Collegio, in simili situazioni, le disposizioni regolamentari devono ritenersi cedevoli rispetto alla norma primaria e il giudice può procedere a disapplicarle. Si chiarisce ulteriormente che, il potere per il giudice di disapplicare l'atto regolamentare in contrasto con la norma di legge, sussiste anche in quei casi in cui l'oggetto del giudizio non contenga la richiesta di annullamento dell'atto regolamentare presupposto. In tal caso, la disapplicazione – prosegue il giudice – potrà avere una efficacia incidenter tantum, in assenza di una specifica domanda annullatoria di parte, e consentirà di respingere il ricorso in ragione della conformità dell'atto impugnato alla legge.

Come precedente in senso conforme, la pronuncia cita Cons. Stato, sez. V, n. 4009/2016 che richiama “il consolidato orientamento secondo cui al Giudice Amministrativo è consentito disapplicare, ai fini della decisione sulla legittimità del provvedimento amministrativo, la norma secondaria di regolamento, qualora essa contrasti in termini di palese contrapposizione con il disposto legislativo primario” (nella fattispecie, il giudice disapplicava la disposizione contenuta nello Statuto della Camera di commercio di Roma, in quanto contraria alle disposizioni primarie di riferimento e, per l'effetto, respinge il ricorso che si fondava sulla contrarietà dell'atto alla predetta fonte regolamentare).

In merito alla seconda questione sopra riportata, la sentenza in commento si pronuncia sulla sussistenza o meno di una posizione di legittimo affidamento e di consolidamento della posizione del ricorrente, per effetto del superamento positivo delle prove di concorso alle quali era stata ammessa con riserva.

La soluzione offerta dal Collegio si fonda sull'assunto per cui la sussistenza di un legittimo affidamento tutelabile è strettamente correlata a situazioni incise da provvedimenti di autotutela, non ricorrenti nel caso di specie. Infatti, il superamento delle prove concorsuali – rileva il Collegio – è avvenuto in base ad un atto di ammissione con riserva, come espressamente previsto dal bando di concorso, che consente in qualsiasi momento alla amministrazione di disporre l'esclusione in caso di carenza dei requisiti di ammissione.

Del pari, al fine di escludere la sussistenza di un effetto di “consolidamento”, il Giudice muove dalla considerazione per cui siffatto meccanismo trova applicazione – in via eccezionale – nelle procedure per il conseguimento di una determinata abilitazione professionale, qualora venga in rilievo un bene della vita non limitato o contingentato e non vi siano controinteressati. Il meccanismo trova, in particolare, la sua fonte nel disposto di cui al all'art. 4, co. 2-bis del decreto-legge n. 115/2005, convertito dalla legge n. 168/2005 (secondo cui “Conseguono ad ogni effetto l'abilitazione professionale o il titolo per il quale concorrono i candidati, in possesso dei titoli per partecipare al concorso, che abbiano superato le prove d'esame scritte ed orali previste dal bando, anche se l'ammissione alle medesime o la ripetizione della valutazione da parte della commissione sia stata operata a seguito di provvedimenti giurisdizionali o di autotutela”).

Nel caso di specie, rileva invece il Giudice, la procedura concorsuale ha ad oggetto un bene “scarso” e, la mancanza del titolo abilitante, non consentirebbe alla ricorrente neppure di poter essere ammessa a partecipare, a nulla rilevando la vacanza di alcuni posti messi a concorso.

Osservazioni

La sentenza in commento consente di svolgere alcune osservazioni in merito al potere di disapplicazione del giudice amministrativo che, al di fuori dei casi di giurisdizione esclusiva, rappresenta un profilo approfondito saltuariamente nelle pronunce giurisdizionali.

Invero, nelle questioni ricadenti nella giurisdizione del giudice ordinario (o in quella esclusiva del giudice amministrativo) gli articoli 4 e 5 della legge n. 2248/1865 attribuiscono il potere di conoscere incidentalmente gli atti amministrativi che assumono rilievo per la decisione della controversia e di procedere a disapplicarli, qualora gli stessi risultino non conformi alla legge (ciò sia nel caso in cui l'atto è la fonte diretta della lesione, sia nel caso in cui l'atto sia un presupposto rispetto alla pretesa fatta valere in giudizio).

Il potere in questione può riguardare tanto atti amministrativi aventi contenuto provvedimentale, quanto atti normativi (c.d. disapplicazione normativa), che possono venire in rilievo qualora siano il presupposto dell'atto amministrativo impugnato (è l'ipotesi del c.d. regolamento “volizione-preliminare”, che non lede direttamente l'interessato).

La ratio del potere attribuito dalla citata l. n. 2248/1865, come noto, risiedeva nell'esigenza di raggiungere un equilibrio tra i poteri del giudice (allora ordinario) e quelli della amministrazione; equilibrio che fu individuato, da un lato, nel non consentire al giudice ordinario di intervenire direttamente sugli atti amministrativi che indicono sui diritti soggettivi (ciò, ben inteso, al di fuori dei casi, pur residuali, in cui allo stesso sono conferiti poteri di annullamento, come ad es., nel caso di sanzioni amministrative ex art. 23 l. n. 689/1981 o dei provvedimenti del garante privacy, ex art. 152 del d.lgs. n. 196/2003); dall'altro, nell'attribuire al giudice il potere di disapplicare, anche d'ufficio, l'atto amministrativo al fine di dare tutela alla posizione soggettiva.

Il potere di disapplicazione è stato poi ritenuto estendibile – in una prospettiva di effettività di tutela – anche al giudice amministrativo, nei casi in cui è chiamato a conoscere di diritti soggettivi , nell'ambito della sua giurisdizione esclusiva (ex multis, v. Cons. Stato, sez. VI, 20 aprile 2001, n. 3242 che precisa come il giudice amministrativo, anche in mancanza di richiesta delle parti, possa “giungere alla disapplicazione della norma regolamentare che si ponga in contrasto con la legge qualora incida su una posizione di diritto soggettivo perfetto, il cui contenuto è completamente riconducibile alla norma di legge”).

Il riconoscimento del potere di disapplicazione nell'ambito della giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo ha seguito invece un percorso diverso, rispondendo ad una ratio differente.

Infatti, nell'ambito della giurisdizione di legittimità, il giudice amministrativo è normalmente dotato del potere di annullamento con la conseguente possibilità di conoscere e annullare gli atti e i regolamenti amministrativi illegittimi, lesivi di posizione di interesse legittimo, con efficacia di giudicato. A fronte di questo generale potere, esercitabile nel caso di impugnazione diretta dell'atto entro il termine decadenziale, dottrina e giurisprudenza ritenevano in origine che il potere di disapplicazione dell'atto amministrativo lesivo non avrebbe avuto ragion d'essere e, anzi, che lo stesso si sarebbe posto in tensione con la previsione di termini decadenziali per l'azione, consentendo, in ipotesi, anche in mancanza di impugnazione, di poter chiedere la tutela dell'interesse legittimo, mediante la disapplicazione dell'atto amministrativo lesivo, non impugnato entro i termini.

Se quanto sopra vale per la c.d. disapplicazione provvedimentale, discorso in parte diverso si è sviluppato nei riguardi della disapplicazione normativa, fattispecie che riguarda appunto la sentenza in commento.

Il regolamento amministrativo può infatti venire in rilievo quale atto presupposto dell'atto lesivo e, in tal caso, lo stesso potrà essere oggetto di impugnazione unitamente all'atto finale e soggetto al potere di annullamento del giudice. Può tuttavia accadere – ed è il caso oggetto della sentenza in esame – che il regolamento non sia oggetto di impugnazione e, anzi, venga in rilievo incidentalmente quale parametro di valutazione della legittimità dell'atto impugnato, che si assume contrario ad una norma regolamentare (rapporto c.d. di antipatia).

In tale ultimo caso, parte ricorrente non avrebbe chiaramente interesse a dedurre la illegittimità della norma regolamentare e a richiederne all'annullamento. Pertanto (e in assenza di una eventuale richiesta di annullamento di parte resistente, tramite ricorso incidentale), il giudice si troverebbe a conoscere del regolamento alla stregua di un parametro normativo del giudizio.

Qualora in tale scenario dovesse emergere un possibile contrasto tra il regolamento e una disposizione di legge, il giudice dovrebbe allora procedere a risolvere l'antinomia secondo gli ordinari criteri inerenti i rapporti tra le fonti di diverso grado, facendo anzitutto ricorso al principio di interpretazione conforme, al fine di salvaguardare l'effetto del regolamento e offrire una lettura conforme alla legge. Ove non fosse possibile il ricorso al procedimento ermeneutico – e non essendo rilevabile un fenomeno di abrogazione, che come tale avrebbe una portata generale –, l'istituto della disapplicazione consente allora al giudice di risolvere il contrasto apparente tra le due fonti, dando prevalenza a quella sovraordinata, con effetti limitati al giudizio e con salvezza dell'efficacia generale del regolamento.

A ben vedere, in tale ipotesi, la disapplicazione non è tanto un potere tipizzato e finalizzato a fornire protezione ad una situazione giuridica che si assume lesa dall'atto (come nel caso dell'art. 5 della citata legge n. 2248/1865), ma una tecnica di giudizio con cui si risolvono contrasti tra fonti normative, deputate a disciplinare la fattispecie, che si concretizza nella non applicazione, al caso concreto, della fonte regolamentare illegittima, in applicazione del principio iura novit curia.

Si noti come la fattispecie (e i correlati poteri del giudice) sarebbero ancora diversi se la fonte regolamentare fosse illegittima, non perché in contrasto con la legge, ma perché conforme ad una legge che presenta profili di incostituzionalità. In tal caso il giudice non potrebbe far ricorso alla disapplicazione (della legge o del regolamento), ma sarebbe tenuto a sollevare la questione incidentale di legittimità, ex art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87.

Sulla base di queste brevi linee ricostruttive, la sentenza in commento si pone nel solco dell'oramai affermato orientamento che consente al giudice amministrativo di disapplicare un regolamento illegittimo, seppur non impugnato.

Peraltro, va segnalato come nella motivazione della sentenza, il giudice appare ammettere la possibilità di una interpretazione conforme del regolamento alla legge – secondo la tesi peraltro sostenuta dalla amministrazione resistente –, in ragione della mancanza di portata innovativa della nota contenuta nella tabella del regolamento, invocata dal ricorrente a sostegno della illegittimità della esclusione. Pur a fronte di tale opzione ermeneutica, che sembra indicare una inidoneità del regolamento a derogare alla norma di legge, la sentenza rileva - quasi ad abundantiam -, che nell'ipotesi in cui si dovesse accedere alla contraria prospettiva interpretativa di parte ricorrente, si dovrebbe in ogni caso procedere alla disapplicazione del regolamento, in quanto porrebbe il regolamento, in parte qua, in stridente contrasto con quanto disposto dal richiamato art. 1, co. 110, della legge n. 107/2015, che fonda la base del provvedimento di esclusione contestato nel giudizio.

Tale peculiarità – che porta la situazione in diritto oggetto di analisi a differenziarsi dal “palese contrasto”, insuscettibile di interpretazione conforme, accertato invece dal precedente del Consiglio di Stato citato nella medesima sentenza – appare derivare, da un lato, dalla stessa posizione della amministrazione resistente, che non si spinge fino a ritenere illegittimo il regolamento; dall'altro, dall'esistenza di una precedente ordinanza cautelare adottata dal Consiglio di Stato, il quale aveva ritenuto sussistente il fumus lamentato dal ricorrente circa la apparente contrarietà dell'atto di esclusione con la norma regolamentare, senza tuttavia esprimersi sulla possibilità di una disapplicazione della norma.