Recita l'art. 2467 c.c. che il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori, precisando altresì che s'intendono finanziamenti dei soci a favore della società quelli, in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell'indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento.
Il legislatore ha voluto perseguire l'obiettivo di contrastare il fenomeno di sottocapitalizzazione che può interessare le società, disincentivando i soci a fornire capitale a prestito piuttosto che di rischio, in modo da ridurre così la propria esposizione (sul punto si veda R. Corona, La legittimazione attiva dei creditori postergati a proporre istanza di fallimento ex art. 6 l. fall. e l'integrazione dello stato di insolvenza, in www.ilFallimentarista.it, 10 maggio 2022).
Come noto, nelle società le risorse finanziarie necessarie a svolgere l'attività d'impresa possono provenire, oltre che dagli utili reinvestiti, da somme erogate a prestito da terzi finanziatori, come gli istituti di credito (c.d. capitale di terzi), oppure da apporti di capitale provenienti da soci attraverso i conferimenti (c.d. capitale proprio). Mentre le somme erogate a prestito devono essere rimborsate a scadenza, indipendentemente dal risultato economico della gestione (da qui la definizione alternativa di capitale di debito), le somme conferite dai soci a titolo di capitale, di norma, non vengono restituite durante la vita della società. I conferimenti dei soci, infatti, vanno a formare il capitale proprio della società, il cui valore risente del risultato economico della gestione, incrementandosi per effetto degli utili non distribuiti e reinvestiti nella società e, viceversa, riducendosi per effetto delle perdite verificatesi. Il «capitale proprio», infatti, viene definito anche come «capitale di rischio» per sottolineare il fatto che i soci, a differenza dei terzi finanziatori, partecipano al rischio d'impresa, assumendo l'alea della perdita dei conferimenti di capitale apportati.
La restituzione dei conferimenti ai soci, normalmente, avviene solamente al termine della liquidazione della società nella misura in cui, dal realizzo dell'attivo patrimoniale, residuino ancora risorse liquide dopo il pagamento integrale dei creditori sociali.
Come è stato osservato in dottrina (M. Giorgetti, Finanziamenti dei soci nell'ambito del concordato preventivo, in www.ilFallimentarista.it, 26 novembre 2021), nelle s.r.l. i finanziamenti dei soci possono costituire fonte di un latente conflitto di interessi tra soci-finanziatori e gli altri creditori sociali nella misura in cui i primi, per il loro inserimento nella compagine sociale, sono posti nella migliore condizione per soppesare lo stato finanziario della società e per valutare la forma del proprio apporto finanziario, eventualmente preferendo – in situazione di crisi – un intervento in capitale di debito piuttosto che di rischio, in modo tale da concorrere per il rimborso del finanziamento con gli altri creditori sociali che, al contrario, non potrebbero vantare nessuna pretesa su liquidità che non sia entrata nel patrimonio sociale a tale titolo di capitale di rischio.
La norma contenuta nell'art. 2467 c.c. è dunque tesa a scoraggiare la condotta opportunistica di quei soci che, non volendo rischiare di perdere il proprio investimento, preferiscono apportare risorse sotto forma di finanziamento, piuttosto che di conferimento di capitale.
Norma analoga a quella dettata dall'art. 2467 c.c. è prevista nell'ambito dei gruppi di imprese dall'art. 2497 quinquies c.c,. laddove è previsto che l'art. 2467 c.c. si applica anche ai finanziamenti effettuati a favore della società da chi esercita attività di direzione e coordinamento nei suoi confronti o da altri soggetti ad essa sottoposti.
La norma civilistica è poi completata dall'art. 164, secondo e terzo comma, CCII ove si prevede che sono privi di effetto rispetto ai creditori i rimborsi dei finanziamenti erogati dai soci o dal soggetto che esercita attività di direzione e coordinamento se sono stati eseguiti dal debitore dopo il deposito della domanda cui è seguita l'apertura della liquidazione giudiziale o nell'anno anteriore.
Il curatore, dunque, ove riscontri che nel predetto periodo sono stati eseguiti i citati rimborsi, può legittimamente chiederne la restituzione.
Le norme appena citate erano già presenti nell'ordinamento prima dell'introduzione del Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza con la seguente rilevante differenza.
Mentre il testo dell'art. 2467 c.c., ante riforma, individuava nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento (ora liquidazione giudiziale) il periodo entro il quale il curatore poteva richiedere la restituzione dei rimborsi, la nuova norma fa decorrere l'anno non dalla data di apertura della liquidazione giudiziale, bensì da quella della domanda cui ha fatto seguito l'apertura della procedura medesima. Nel nuovo sistema del Codice, che prevede un procedimento unitario di accesso agli strumenti di regolazione della crisi, tale domanda potrebbe collocarsi in un momento anche di molto anteriore all'apertura della liquidazione giudiziale, ampliando così l'orizzonte temporale di efficacia della norma. Si pensi, ad esempio, ad una domanda di accesso al concordato preventivo poi sfociato in liquidazione giudiziale a seguito della mancata omologazione.