La decisione in esame si pone in continuità con i precedenti più recenti del Consiglio di Stato in materia, confermandone l'approccio rigoroso alla problematica descritta.
Dal tenore della pronuncia, che si preoccupa di sottolineare preliminarmente l'inammissibilità di un appello che sarebbe comunque stato dichiarato manifestamente infondato, risulta evidente la volontà di responsabilizzare le parti e di spingerle a prestare maggiore attenzione ai criteri di redazione dell'atto processuale.
Tale soluzione, del resto, appare del tutto condivisibile, ove si consideri che già l'art. 13-ter delle Norme di attuazione del Codice del Processo Amministrativo richiede che, al fine di consentire lo spedito svolgimento del giudizio, le parti redigano il ricorso e gli scritti difensivi secondo criteri formali ben prestabiliti, in ossequio agli artt. 3 e 40 c.p.a.; tali criteri sono stati poi cristallizzati con il decreto n. 167/2016 del Presidente del Consiglio di Stato, mediante il quale sono stati individuati dei veri e propri limiti dimensionali che incidono sulla concreta redazione di un atto del processo.
Lo stesso deve dirsi con riferimento ai doveri di chiarezza e specificità, i quali - al pari di quello di sinteticità - devono guidare la parte nella stesura dell'atto, così da garantire che lo stesso sia agevolmente comprensibile dal giudice e dalle altre parti del giudizio.
È evidente che sentenze come quella in commento sottendano, in un'ottica di buona fede e di leale collaborazione tra le parti, l'esigenza di consentire la ragionevole durata dei giudizi e di perseguire un effetto deflattivo sul contenzioso, considerato che un appello contenente motivi poco chiari (o cd. “intrusi”) comporta il rischio che essi non vengano esaminati nella sentenza, proprio per la difficoltà da parte del giudice di individuarli, con conseguente rischio di revocazione della sentenza stessa. Pertanto, già solo per questo, si ritiene che debbano essere accolte favorevolmente.