I rimedi all'omessa citazione dei testi nel processo penale: tra decadenza, rinuncia e supplenza del giudice

22 Febbraio 2023

La sentenza in esame esprime un principio di diritto idoneo a corroborare la teoria dominante in ordine alla individuazione del rimedio adoperabile dal giudice per far fronte alla omessa citazione del testimone ad opera della parte onerata, rimedio che viene inquadrato nell'istituto della decadenza.
La questione giuridica: omessa citazione dei testimoni e rimedi processuali

Durante la vicenda processuale, in specie nella fase dell'istruzione dibattimentale, non è affatto raro – volendo restare cauti nel linguaggio – che le parti, pubblico ministero e difensore, non citino i propri testimoni al fine di consentirne l'escussione. Appare allora opportuno, anzi indispensabile, per garantire l'accertamento della responsabilità penale al contempo assicurando la ragionevole durata del procedimento, individuare quali siano i rimedi che è legittimo trarre, più o meno esplicitamente, dall'impianto codicistico per far fronte a quella che, così sinteticamente delineata, pare una invincibile stasi dell'attività giudiziaria; vale già la pena precisare che tale rischio è escluso laddove il teste sia assente ma sia stato regolarmente citato, ciò che consente al giudice di assumere le consequenziali determinazioni: sanzionare il teste e/o disporne l'accompagnamento coattivo, e comunque disporne una nuova citazione onde garantirne la presenza.

Non va infatti tralasciato che il rinvio dovuto all'assenza dei testi da escutere, secondo la tesi ormai granitica della Corte di legittimità, non è assistita dalla sospensione dei termini di prescrizione, sicché l'impossibilità di far fronte a questo corto-circuito della fase istruttoria condurrebbe a consegnare acriticamente alle parti processuali il potere di decidere la durata del procedimento e anche di incidere, più o meno volutamente, sulla estinzione del reato per prescrizione (ex plurimis,Cass. pen., sez. VI, 20 novembre 2020, n. 37688, CED 280292).

Giova incidentalmente osservare che, a parere di chi scrive, non tutti i rinvii su richiesta di parte per assenza testi (ci si riferisce in via predominante al difensore dell'imputato) lasciano decorrere il termine di prescrizione; posto che nella lista testimoniale il difensore deve inserire il nominativo del soggetto da escutere e i dati idonei a consentirne il reperimento, l'eventuale rinvio chiesto dal difensore per acquisire informazioni utili, aggiornamenti o indirizzi idonei, dopo un'attestazione di irreperibilità o di soggetto sconosciuto nel luogo indicato, involgendo attività diverse e ultronee rispetto alla mera citazione, dovrebbe poter comportare la sospensione dei termini.

Il dilemma si acuisce poiché, a differenza di quanto si prevede in altri settori processuali, primo fra tutti quello civile, nella parte del rito penale dedicato all'ammissione e all'assunzione delle prove il legislatore ha lesinato nella fissazione di sanzioni espresse nel caso di violazione di regole istruttorie o di mancato assolvimento di oneri a carico delle parti, in alcuni casi allo scopo di non arginare eccessivamente la fluidità del contraddittorio, che costituisce per certi versi il principale incentivo alle aspirazioni dimostrative del processo; in altri casi per salvaguardare e attivare i poteri officiosi del giudice, alla luce della fondamentale ratio del processo penale, che tende all'accertamento dei fatti con la forza motrice dell'obbligatorietà dell'azione penale a parziale compressione (e compensazione) di un principio dispositivo imperfetto.

Sta di fatto che i vuoti regolatori, calati nell'ambito di un impianto normativo spesso deresponsabilizzante per le parti, sono capaci di generare dei veri e propri enigmi giuridici.

Rispetto allo specifico quesito che ci siamo posti in premessa, le teorie sinora avanzate dalla dottrina e dalla giurisprudenza sono sostanzialmente due: quella della decadenza e quella della rinuncia tacita.

La tesi maggioritaria della decadenza

La tesi della decadenza poggia su una preliminare ricostruzione della sequela introduttiva della prova testimoniale, che viene qualificata in termini di “fattispecie a formazione progressiva”. Si trae l'abbrivio dal disposto di cui all'art. 468 c.p.p., che attribuisce alla parte l'onere di indicare in una propria lista i nominativi dei testi, consulenti e parti ex art. 210 c.p.p., di cui intenda chiedere l'esame. La lista va depositata, con l'indicazione delle circostanze su cui deve vertere l'esame, entro il termine di sette giorni prima della data fissata per il dibattimento, a pena di inammissibilità.

La parte ha facoltà di richiedere, nella stessa lista, l'autorizzazione alla citazione dei testi: ove tale facoltà sia esercitata, il presidente svolge soltanto un ruolo di preliminare filtro, escludendo eventuali prove vietate dalla legge o manifestamente superflue e può autorizzare che la citazione avvenga per la prima udienza o per un'altra successiva, impregiudicata la più penetrante valutazione di ammissibilità ex art. 495 c.p.p.

L'alternativa per la parte è la presentazione immediata al dibattimento ai sensi dell'art. 468 comma 3, c.p.p.; in tal caso, l'intera valutazione di ammissibilità è svolta al momento delle richieste istruttorie ex art. 495 c.p.p. ma i testi potranno già essere a disposizione del Tribunale, presenti in aula.

Così tratteggiate le prescrizioni dell'art. 468 c.p.p., i sostenitori della tesi della decadenza evidenziano due connotati di sicuro rilievo.

Il primo risiede nella espressa previsione della inammissibilitànell'ambito della prima fase funzionale alla introduzione della prova, vale a dire nel momento dedicato al deposito della lista, che deve infatti essere compiuto entro un termine preciso pari a sette giorni prima della data del dibattimento. Si ricava, con una metodologia interpretativa a ritroso, l'esistenza di una vera e propria “decadenza” della parte, sebbene questo lemma non sia stato adoperato espressamente dal legislatore.

Si evidenzia infatti, sotto il profilo dogmatico, che l'inammissibilità legata al mancato rispetto di un termine consente di richiamare, annodati inscindibilmente a quella sanzione, un onere, un termine perentorio e una decadenza, che si specificano e si illustrano reciprocamente. In effetti, posto che il deposito della lista testimoniale costituisce un onere in capo alla parte poiché è attività non obbligatoria ma comunque funzionale al perseguimento dei suoi interessi, il mancato rispetto di un termine fissato a pena di inammissibilità rende induttivamente quel termine “perentorio” e individua una decadenza in capo alla parte che non assolve l'onere entro la specifica soglia temporale concessa, poiché ne rimuove la facoltà di esercizio per il futuro, rendendone l'espletamento postumo inammissibile.

Il secondo è, più semplicemente, costituito dalla vocazione acceleratoria della disposizione commentata, la quale in effetti spinge verso due alternative: o l'autorizzazione predibattimentale alla citazione (immediata o per una udienza successiva) o la presentazione diretta in udienza dei soggetti da escutere, in ogni caso lasciando residuare in capo al giudice il potere successivo di vaglio ai fini dell'ammissibilità (art. 495 c.p.p.); così come al giudice non è precluso svolgere tutte le attività di vaglio della lista e delle richieste istruttorie direttamente all'udienza dibattimentale, nella quale potrebbero risultare assenti i testi della parte, poiché non citati. In quest'ultima ipotesi, allora, il giudice, dopo aver pronunciato l'ordinanza ammissiva della prova testimoniale, fisserà il prosieguo istruttorio e, col susseguirsi delle udienze, si addiverrà progressivamente al momento in cui l'escussione del teste richiesto dalla parte verrà calendarizzata per una specifica data.

La lettura attenta dell'art. 468 c.p.p. conduce quindi alla fissazione di tre punti fermi: 1) la norma inquadra e disciplina il primo frammento di una “fattispecie a formazione progressiva”, che si completa con le richieste istruttorie e con la citazione ed escussione del teste; 2) la norma prevede una inammissibilità, e a monte una decadenza implicita; 3) la norma possiede una marcata vocazione acceleratoria.

I sostenitori della tesi della decadenza, a questo punto del ragionamento, affermano che la citazione del teste costituisce un segmento fondamentale della fattispecie a formazione progressiva legata alla introduzione della prova testimoniale nel processo; considerata la ratio acceleratoria e responsabilizzante che informa l'art. 468 c.p.p., il termine fissato dal presidente per la citazione del testimone, sia esso reso ai sensi dell'art. 468 comma 2 c.p.p. sia esso fissato nel corso di una successiva udienza istruttoria per il prosieguo, deve anch'esso intendersi avere natura perentoria, sicché l'inottemperanza della parte, pregiudicando ex post l'intero svolgimento dell'attività introduttiva della prova, sarebbe sanzionata con la stessa decadenza prevista per il deposito della lista, che estenderebbe le proprie maglie operative; il giudice, conformemente, dovrebbe revocare l'ordinanza ammissiva in parte qua.

La tesi della decadenza è stata accolta da una larga parte della giurisprudenza di legittimità.

Con la sentenza Cass. pen., sez. II, 27 febbraio 2013, n. 14439, infatti, la Corte della nomofilachia ha sostenuto che, nell'ambito del nostro sistema processuale, esistono anche termini perentori e decadenze impliciti, e che, tra questi termini perentori che – se violati – danno luogo a decadenza, è lecito annoverare proprio quello fissato dal giudice alla parte per la citazione del proprio teste, discendendo questo «dalla natura pubblicistica del processo, il quale è sottratto alla disponibilità delle parti; è la legge a stabilire i tempi processuali ed è il giudice l'organo deputato a garantirli. Nel novero di tali tempi, assume una peculiare funzione la citazione dei testimoni nel termine fissato dal giudice, proprio perché, in caso contrario, il processo si presterebbe a strumentalizzazioni ed abusi da parte dell'imputato. La Suprema Corte, pertanto, è giunta ad affermare il principio di diritto per il quale il termine stabilito dal giudice ai sensi dell'art. 468 comma 2 c.p.p. – essendo inserito in una sequela processuale che non ammettere ritardi o rinvii dovuti alla mera negligenza delle parti, se non, in via del tutto eccezionale, per caso fortuito o forza maggiore – ha natura perentoria. Di conseguenza, ove la parte non effettui la citazione dei testi nel termine stabilito dal giudice ex art. 468 c.p.p., decade dal diritto di assumere i testi già ammessi».

L'orientamento è stato ripreso da Cass. pen., sez. VI, 7 gennaio 2015 n. 2324, la quale ha corroborato l'assunto sulla scorta della essenzialità del potere organizzativo del giudice nel solco della tutela della ragionevole durata del processo e al di fuori del «sostanziale ed insindacabile arbitrio delle parti del processo» (cfr. anche Cass. pen., sez. VI, 10 marzo 2009, n. 24254, e, più di recente, Cass. pen., sez. IV, 25 gennaio 2017, n. 22585; aderiscono inoltre alla tesi della decadenza, con varietà di sfumature, Cass. pen., sez. V, 14 gennaio 2019, n. 20502, CED 275529; Cass. pen., sez. VI, 20 febbraio 2019, n. 46470; Cass. pen., sez. IV, 13 ottobre 2020, n. 31541; Cass. pen., sez. V, 20 gennaio 2020, n. 17351; Cass. pen., sez. VI, 16 dicembre 2020, n. 8047).

Critiche. Teoria della decadenza attenuata e teoria della rinuncia

Le critiche a questa impostazione non si sono fatte attendere.

Si è notato che, se valida è la tesi della esistenza di termini perentori impliciti e di decadenze implicite nel nostro ordinamento, variamente evocati dalla sinergica operatività delle nozioni di onere e inammissibilità per il superamento di un dato momento processuale, non ci si può però spingere sino a istituire una decadenza quando nessuno dei su esposti concetti sia stato neppure menzionato dal legislatore, riemergendo in tutta la propria pregnanza il principio di tassatività delle sanzioni processuali cristallizzato nell'art. 173 comma 1, c.p.p.

Nel caso di specie, infatti, occorre ribadire che il termine decadenziale (implicito) e la sanzione della inammissibilità (esplicita) afferiscono strettamente al deposito della lista testimoniale, non potendo estendersi sino a ricomprendere la fase della citazione del testimone, la quale non ha alcuna incidenza sulla ammissione della prova, già ampiamente consumatasi.

D'altra parte, milita a favore di questa critica anche il fatto che il legislatore ubi voluit dixit, in particolar modo nell'ambito del processo penale innanzi al giudice di pace, per il quale l'art. 29 ult. comma del d.lgs. 274/2000 prevede la decadenza della parte dalla prova in caso di omessa citazione; e nell'ambito del processo civile, nel quale l'art. 104 disp. att. c.p.c. prevede la medesima sanzione.

Ecco perché un diverso filone giurisprudenziale ha ridimensionato l'approdo, ritenuto eccessivamente rigoroso, affermando che «la mancata citazione del teste per l'udienza non comporta la decadenza della parte richiedente dalla prova, salvo che quest'ultima sia superflua o la nuova autorizzazione alla citazione per un'udienza successiva comporti il ritardo della decisione» (Cass. pen., sez. VI, 25 novembre 2020, n. 33163, CED 279922; Cass. pen., sez. II, 4 ottobre 2018, n. 21788; Cass. pen., sez. IV, 27 settembre 2017, n. 48303; Cass. pen., sez. V, 1 aprile 2014, n. 29562, CED 262523).

Tuttavia, le argomentazioni giustificatrici di questo approccio mediano rischiano non solo di non convincere ma di porsi in contrasto con gli istituti giuridici tradizionali.

La superfluità della prova si colloca infatti in un contesto dogmatico totalmente diverso da quello occupato dall'istituto della decadenza, non godendo di alcun connotato potenzialmente idoneo ad incidere sull'operatività di quest'ultima: se la prova è superflua, il giudice dispone per legge del potere di non ammetterla o, se già ammessa, di revocarla; la decadenza non ha momenti di sovrapposizione funzionale con la superfluità e non dipende da essa, bensì consegue al mancato rispetto di un termine perentorio, dunque all'analisi di un dato temporale e non di un requisito valutativo.

Con riguardo al profilo del ritardo nella decisione, occorre subito sgombrare il campo da equivoci. Per la giurisprudenza di legittimità sostenitrice del criterio operativo in esame, la nuova citazione testimoniale non comporta il ritardo della decisione, e dunque la parte non è da considerarsi decaduta, quando l'udienza debba essere comunque rinviata per altra causa (in tal senso, Cass. pen., sez. III, 18 febbraio 2010, n. 13507, CED 246604).

Tuttavia, ancora una volta, si oblitera il dato per cui la decadenza è un fenomeno sostanzialmente oggettivo (salvi i casi di rimessione in termini, che richiedono una adeguata prova circa l'assenza di colpa), dipendente dal superamento di un termine perentorio attribuito per il compimento di un'attività, sicché la parte o è decaduta o non lo è; non ha molto senso ritenere che non sia decaduta se il processo debba comunque essere rinviato per altra causa.

Si è dunque, su altro fronte, tentato di ricondurre l'omessa citazione alla categoria dogmatica della rinuncia, con la precisazione che essa trova l'addentellato normativo di riferimento nell'ambito dell'art. 495 comma 4-bis c.p.p., il quale consente a una parte di rinunciare, col consenso delle altre parti, all'assunzione delle prove ammesse a sua richiesta. Si sostiene, in altri termini, che, ove la parte abbia omesso di citare il teste per l'udienza ad hoc fissata, si intende che vi abbia rinunciato tacitamente; si precisa a tale riguardo che il sistema penale ammette rinunce tacite all'esercizio di poteri (es. in tema di costituzione di parte civile o di querela) e che pertanto non vi sarebbero motivi ostativi affinché anche l'omessa citazione del testimone ricada in detto spazio concettuale, purché alla rinuncia tacita della parte si coniughi un consenso almeno parimenti tacito delle controparti alla luce della disposizione richiamata.

Anche questa tesi lascia adito a dubbi invero difficilmente superabili.

In primo luogo, si osserva che essa sarebbe intanto solo parzialmente adoperabile nel processo penale, restando esclusi i casi in cui la parte sia stata autorizzata a citare i testi con provvedimento presidenziale reso ai sensi dell'art. 468 comma 2, secondo periodo, c.p.p., tenuto conto che la rinuncia di cui all'art. 495 comma 4-bis c.p.p. può avvenire «nel corso dell'istruzione dibattimentale» e non prima di essa.

In secondo luogo, sul piano della teoria generale, si rammenta che, affinché un comportamento possa dirsi concludente, occorre che sia univocamente conforme a uno specifico fatto psichico e che non possano ammettersi ulteriori significati; nel caso di specie, diversamente, si sarebbe in presenza di un contegno meramente omissivo, il quale, in difetto di espresse previsioni di legge che gli assegnino valore, costituirebbe sempre una condotta neutra ed equivoca. Pertanto, a tutto voler concedere, la tesi della rinuncia può essere applicata dal giudice dopo aver sapientemente vagliato la causa della omessa citazione in modo da desumere il senso dismissivo soltanto quando le circostanze fattuali siano decisamente evocative della relativa volontà, ad esempio quando il difensore al contempo non citi i propri testi e non partecipi più al processo.

Il diverso caso della citazione tardiva

Altro quesito attiguo è costituito dal caso della parte che cita il testimone tardivamente, così che né il teste si presenti in udienza né il giudice abbia traccia della relata di notifica. Si pone il dilemma se e in che modo i criteri operativi sopra menzionati possano venire in rilievo. In assenza di esiti della citazione, il giudice non potrebbe assumere alcuna determinazione e dovrebbe soltanto consentire alla parte di reiterare la citazione per la successiva udienza.

Brevemente, potrebbero proporsi le seguenti soluzioni, con la consapevolezza che anche rispetto a esse possono avanzarsi valide repliche.

Nel caso in cui la parte abbia citato il teste con uno scarto temporale talmente esiguo da essere assolutamente incompatibile, per massime di esperienza, con la possibilità di una concreta consegna della citazione al testimone (si immagini una citazione fatta partire tre giorni prima dell'udienza), potrebbe assumersi quale rimedio quello della rinuncia come innanzi descritta, tenuto conto che il comportamento assunto dalla parte appare piuttosto dilatorio, abusivo e non coerente con l'esistenza di un reale interesse a sentire il teste. Potrebbe però obiettarsi che quanto accaduto origini non da una rinuncia al teste quanto da una dimenticanza cui sia seguito uno strenuo tentativo, sul finale, di far recapitare al teste la citazione testimoniale, tentativo rivelatosi infruttuoso. D'altra parte, quanto alla abusività del comportamento processuale, la giurisprudenza di legittimità richiede che la prova della natura fraudolenta sia debitamente provata, il che si rende più agevole nel caso di “reiterazione” di comportamenti processuali dall'effetto dilatorio, apparendo di regola insufficiente un singolo episodio (Cass. pen., sez. II, 9 settembre 2022, n. 36265).

Ove il giudice abbia indicato alla parte un termine entro il quale far partire la citazione del teste, dovrebbe attribuirsi a tale termine la natura perentoria, sicché, ove il difensore abbia spedito oltre il termine concesso, può venire in rilievo l'ipotesi della decadenza. La parte potrebbe però sostenere, in questo caso, l'ingiustizia sostanziale di un provvedimento dichiarativo della decadenza, per avere il difensore sforato anche di un solo giorno rispetto al termine assegnato, l'ossequio al quale non avrebbe mutato le sorti dell'udienza.

Negli altri casi parrebbe più corretto che il giudice, avendo notato una incapacità della parte di gestire correttamente i tempi della citazione, attragga su di sé l'onere processuale e disponga che l'adempimento sia eseguito a cura della cancelleria entro termini stringenti, fissando l'udienza successiva per una data che consenta la citazione del teste e il ritorno della relata. Epperò, la sostituzione del giudice alla parte intanto discenderebbe da un accertamento tra i meno agevoli, poiché esso sembrerebbe involgere un duplice controllo, sia in merito alla incapacità organizzativa della parte sia sulla esistenza di eventuali disfunzioni dell'operatore postale, senza alcuna certezza sul fatto che, una volta che il giudice si sarà sostituito alla parte, l'esito infausto non possa replicarsi; in secondo luogo, la sostituzione del giudice alla parte al di fuori dei casi di sanzione o accompagnamento coattivo del teste non pare trovare avalli normativi di sorta, posto che l'art. 142 disp. att. c.p.p. pare implicitamente far desumere che la citazione dei testi delle parti private resti a carico delle medesime.

In conclusione

Come si è cercato di far notare, nessuno degli approcci ermeneutici sopra illustrati è esente da osservazioni critiche, così che, ogni qual volta in sede processuale si pongono le condizioni affinché il giudice rimedi alla inerzia della parte nella citazione dei testi, si staglia davanti a lui un terreno scivolosissimo, immediatamente esposto a doglianze di parte tutt'altro che peregrine.

Si rammenti, incidentalmente, che, afferendo alla mancata escussione di testimoni, il vizio astrattamente generato appartiene alla categoria della nullità a regime intermedio. Ogni questione dovrà allora intervenire subito dopo che il giudice abbia pronunciato l'ordinanza di revoca del testimone assente e non citato, altrimenti esponendosi a sanatoria; ove la revoca dovesse essere implicitamente contenuta nell'ordinanza di chiusura dell'istruzione dibattimentale, il momento corretto per avanzare la doglianza è quello della formulazione delle conclusioni (cfr. Cass. pen., sez. III, 27 marzo 2018, n. 29649, CED 273590; Cass. pen., sez. III, 12 maggio 2010, n. 24302, CED 247878).

Le difficoltà esegetiche, lo si è plasticamente scorto, sono legate a un rumoroso silenzio legislativo, che plausibilmente non verrà colmato, se non nell'ambito di un più ampio ripensamento del processo penale come processo di parti, idea che allo stato appare remota, seppur per certi versi auspicabile.

Ecco perché, dinanzi alle incertezze che si è provato a esporre nei paragrafi precedenti, nella prassi giudiziaria, sebbene si sia spesso tentati di dare seguito a una delle soluzioni esposte (decadenza o rinuncia), si finisce non di rado per adottare una impostazione opposta e più garantista, la quale, valorizzando i poteri officiosi del giudice e la nozione di teste ammesso quale “patrimonio del processo”, comporta la piena sostituzione del giudice alla parte e la citazione dei testi di quest'ultima ad opera della cancelleria.

La soluzione, sebbene salomonica, oltre a non essere espressamente prevista a livello codicistico, è particolarmente gravosa per l'ufficio, che rischia di dover attrarre su di sé gli adempimenti istruttori di tutte le parti, portando al collasso del settore amministrativo e legittimando la piena deresponsabilizzazione dei soggetti processuali.

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