La tesi della decadenza poggia su una preliminare ricostruzione della sequela introduttiva della prova testimoniale, che viene qualificata in termini di “fattispecie a formazione progressiva”. Si trae l'abbrivio dal disposto di cui all'art. 468 c.p.p., che attribuisce alla parte l'onere di indicare in una propria lista i nominativi dei testi, consulenti e parti ex art. 210 c.p.p., di cui intenda chiedere l'esame. La lista va depositata, con l'indicazione delle circostanze su cui deve vertere l'esame, entro il termine di sette giorni prima della data fissata per il dibattimento, a pena di inammissibilità.
La parte ha facoltà di richiedere, nella stessa lista, l'autorizzazione alla citazione dei testi: ove tale facoltà sia esercitata, il presidente svolge soltanto un ruolo di preliminare filtro, escludendo eventuali prove vietate dalla legge o manifestamente superflue e può autorizzare che la citazione avvenga per la prima udienza o per un'altra successiva, impregiudicata la più penetrante valutazione di ammissibilità ex art. 495 c.p.p.
L'alternativa per la parte è la presentazione immediata al dibattimento ai sensi dell'art. 468 comma 3, c.p.p.; in tal caso, l'intera valutazione di ammissibilità è svolta al momento delle richieste istruttorie ex art. 495 c.p.p. ma i testi potranno già essere a disposizione del Tribunale, presenti in aula.
Così tratteggiate le prescrizioni dell'art. 468 c.p.p., i sostenitori della tesi della decadenza evidenziano due connotati di sicuro rilievo.
Il primo risiede nella espressa previsione della inammissibilitànell'ambito della prima fase funzionale alla introduzione della prova, vale a dire nel momento dedicato al deposito della lista, che deve infatti essere compiuto entro un termine preciso pari a sette giorni prima della data del dibattimento. Si ricava, con una metodologia interpretativa a ritroso, l'esistenza di una vera e propria “decadenza” della parte, sebbene questo lemma non sia stato adoperato espressamente dal legislatore.
Si evidenzia infatti, sotto il profilo dogmatico, che l'inammissibilità legata al mancato rispetto di un termine consente di richiamare, annodati inscindibilmente a quella sanzione, un onere, un termine perentorio e una decadenza, che si specificano e si illustrano reciprocamente. In effetti, posto che il deposito della lista testimoniale costituisce un onere in capo alla parte poiché è attività non obbligatoria ma comunque funzionale al perseguimento dei suoi interessi, il mancato rispetto di un termine fissato a pena di inammissibilità rende induttivamente quel termine “perentorio” e individua una decadenza in capo alla parte che non assolve l'onere entro la specifica soglia temporale concessa, poiché ne rimuove la facoltà di esercizio per il futuro, rendendone l'espletamento postumo inammissibile.
Il secondo è, più semplicemente, costituito dalla vocazione acceleratoria della disposizione commentata, la quale in effetti spinge verso due alternative: o l'autorizzazione predibattimentale alla citazione (immediata o per una udienza successiva) o la presentazione diretta in udienza dei soggetti da escutere, in ogni caso lasciando residuare in capo al giudice il potere successivo di vaglio ai fini dell'ammissibilità (art. 495 c.p.p.); così come al giudice non è precluso svolgere tutte le attività di vaglio della lista e delle richieste istruttorie direttamente all'udienza dibattimentale, nella quale potrebbero risultare assenti i testi della parte, poiché non citati. In quest'ultima ipotesi, allora, il giudice, dopo aver pronunciato l'ordinanza ammissiva della prova testimoniale, fisserà il prosieguo istruttorio e, col susseguirsi delle udienze, si addiverrà progressivamente al momento in cui l'escussione del teste richiesto dalla parte verrà calendarizzata per una specifica data.
La lettura attenta dell'art. 468 c.p.p. conduce quindi alla fissazione di tre punti fermi: 1) la norma inquadra e disciplina il primo frammento di una “fattispecie a formazione progressiva”, che si completa con le richieste istruttorie e con la citazione ed escussione del teste; 2) la norma prevede una inammissibilità, e a monte una decadenza implicita; 3) la norma possiede una marcata vocazione acceleratoria.
I sostenitori della tesi della decadenza, a questo punto del ragionamento, affermano che la citazione del teste costituisce un segmento fondamentale della fattispecie a formazione progressiva legata alla introduzione della prova testimoniale nel processo; considerata la ratio acceleratoria e responsabilizzante che informa l'art. 468 c.p.p., il termine fissato dal presidente per la citazione del testimone, sia esso reso ai sensi dell'art. 468 comma 2 c.p.p. sia esso fissato nel corso di una successiva udienza istruttoria per il prosieguo, deve anch'esso intendersi avere natura perentoria, sicché l'inottemperanza della parte, pregiudicando ex post l'intero svolgimento dell'attività introduttiva della prova, sarebbe sanzionata con la stessa decadenza prevista per il deposito della lista, che estenderebbe le proprie maglie operative; il giudice, conformemente, dovrebbe revocare l'ordinanza ammissiva in parte qua.
La tesi della decadenza è stata accolta da una larga parte della giurisprudenza di legittimità.
Con la sentenza Cass. pen., sez. II, 27 febbraio 2013, n. 14439, infatti, la Corte della nomofilachia ha sostenuto che, nell'ambito del nostro sistema processuale, esistono anche termini perentori e decadenze impliciti, e che, tra questi termini perentori che – se violati – danno luogo a decadenza, è lecito annoverare proprio quello fissato dal giudice alla parte per la citazione del proprio teste, discendendo questo «dalla natura pubblicistica del processo, il quale è sottratto alla disponibilità delle parti; è la legge a stabilire i tempi processuali ed è il giudice l'organo deputato a garantirli. Nel novero di tali tempi, assume una peculiare funzione la citazione dei testimoni nel termine fissato dal giudice, proprio perché, in caso contrario, il processo si presterebbe a strumentalizzazioni ed abusi da parte dell'imputato. La Suprema Corte, pertanto, è giunta ad affermare il principio di diritto per il quale il termine stabilito dal giudice ai sensi dell'art. 468 comma 2 c.p.p. – essendo inserito in una sequela processuale che non ammettere ritardi o rinvii dovuti alla mera negligenza delle parti, se non, in via del tutto eccezionale, per caso fortuito o forza maggiore – ha natura perentoria. Di conseguenza, ove la parte non effettui la citazione dei testi nel termine stabilito dal giudice ex art. 468 c.p.p., decade dal diritto di assumere i testi già ammessi».
L'orientamento è stato ripreso da Cass. pen., sez. VI, 7 gennaio 2015 n. 2324, la quale ha corroborato l'assunto sulla scorta della essenzialità del potere organizzativo del giudice nel solco della tutela della ragionevole durata del processo e al di fuori del «sostanziale ed insindacabile arbitrio delle parti del processo» (cfr. anche Cass. pen., sez. VI, 10 marzo 2009, n. 24254, e, più di recente, Cass. pen., sez. IV, 25 gennaio 2017, n. 22585; aderiscono inoltre alla tesi della decadenza, con varietà di sfumature, Cass. pen., sez. V, 14 gennaio 2019, n. 20502, CED 275529; Cass. pen., sez. VI, 20 febbraio 2019, n. 46470; Cass. pen., sez. IV, 13 ottobre 2020, n. 31541; Cass. pen., sez. V, 20 gennaio 2020, n. 17351; Cass. pen., sez. VI, 16 dicembre 2020, n. 8047).